Il 10 Ottobre u.s si è tenuto a Roma, presso la Sala delle Conferenze della Camera dei Deputati di Palazzo Marino il Convegno “Mai più sole: le esigenze e i diritti delle gestanti e madri con gravi difficoltà personali e familiari e dei loro nati. La prevenzione degli abbandoni e degli infanticidi”, organizzato dall’Associazione promozione sociale, da Prospettive assistenziali e dall’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie. Questo convegno, che ha visto la presenza di 200 amministratori e operatori socio-sanitari. è stato realizzato allo scopo di richiamare l’attenzione delle istituzioni, a partire dal Parlamento, sull’urgenza dell’emanazione di norme che assicurino un’effettiva tutela alle donne in difficoltà e ai loro nati. Qui di seguito pubblichiamo una breve sintesi delle relazioni della mattinata, sul prossimo numero seguirà quella della Tavola rotonda del pomeriggio, con un aggiornamento sulle iniziative assunte dopo il Convegno per concretizzare le proposte presentate nel corso del Convegno stesso; una sintesi più ampia e esaustiva dei lavori di tutta la giornata inoltre sarà pubblicata in un prossimo numero della Rivista Prospettive Assistenziali.
Sintesi dei lavori della mattinata
La presidente dell’Anfaa, Donata Nova Micucci, ha introdotto i lavori del convegno richiamando le situazioni di grave emarginazione che attualmente vivono gestanti con rilevanti difficoltà personali, sovente giovani o giovanissime, che necessitano prima, durante e dopo il parto di interventi non solo sanitari, a livello consultoriale od ospedaliero, ma anche socio-assistenziali. Esse possono trovarsi in serie emergenze ed avere bisogno di accoglienza o di sussidi economici. Particolarmente grave è la situazione in cui si trovano le gestanti extracomunitarie senza permesso di soggiorno, in quanto la normativa vigente esclude la possibilità di avvalersi di questi servizi. Ci sono poi anche donne che sono incerte, non sanno se riconoscere o meno il bambino che nascerà, oppure hanno già deciso di non riconoscerlo, avvalendosi del diritto alla segretezza del parto. A tal proposito occorre dare alla gestante la possibilità preventiva di riflettere, di decidere con serenità ed autonomia, fornendole tutte le informazioni necessarie sugli aiuti cui ha diritto sia se riconosce il proprio nato, sia se decide di partorire in anonimato e per rassicurare le donne interessate sul loro effettivo diritto alla segretezza del parto. A questo proposito, ha proseguito la presidente dell’Anfaa, è necessario sottolineare che l’atto del non riconoscimento non è un abbandono, come purtroppo troppe volte viene stigmatizzato da parte dei mass-media e dell’opinione pubblica: la donna che non riconosce il proprio nato non lo abbandona, ma lo affida alla comunità sociale affinché al più presto venga inserito in una famiglia adottiva.
Ha quindi preso la parola il presidente della Commissione affari sociali della Camera dei Deputati, On. Giuseppe Palombo, il quale ha affermato: «C’è l’impegno massimo da parte nostra per arrivare ad una soluzione normativa, anche perché ritengo questa una tematica fondamentale e da medico la conosco bene. Sussistono però un problema di legislazione concorrente, il rischio di invadere competenze regionali ed un problema economico di copertura delle spese» – ha aggiunto il Presidente – «ma in una società che invecchia, come la nostra, è necessario sostenere la maternità e proteggere le gestanti, le partorienti e i loro nati».
E’ intervenuto poi Luigi Fadiga, giurista, già Presidente della Sezione per i minorenni della Corte d’Appello di Roma che ha affermato: «per evitare/limitare aborti, infanticidi, bambini nel cassonetto occorre un approccio che tenga conto e renda concretamente esigibili i diritti della gestante e/o della partoriente e nel contempo i diritti dei nati. Non basta la loro enunciazione. Essi rientrano fra i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) menzionati dal nuovo articolo 117, lettera m) della Costituzione, essendo riferiti non solo alle sole prestazioni socio-assistenziali, ma a tutto l’ambito dei diritti civili e sociali: diritto alla vita, diritto al nome, diritto alla riservatezza, diritto a una corretta informazione, diritto alla sicurezza, diritto alla salute».
Fadiga ha poi ricordato come ai sensi del 5° comma dell’articolo 8 della legge 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” sia stato attribuito alle Regioni il compito di disciplinare il trasferimento ai Comuni o ad altri enti locali delle funzioni di cui alla legge 6 dicembre 1928 n. 2838 concernente le prestazioni obbligatorie relative alle gestanti e madri, ai nati fuori dal matrimonio, ai bambini non riconosciuti, nonché ai ciechi e sordi poveri rieducabili (così definiti dal regio decreto 383/1934). Con la legge di cui sopra le Regioni devono, inoltre, definire il passaggio ai Comuni o ad altri enti locali delle risorse umane, finanziarie e patrimoniali occorrenti per l’esercizio delle succitate funzioni.
Fadiga, concludendo la sua relazione, ha denunciato il gravissimo rischio che «il bambino che esce dall’ospedale prima della dichiarazione di nascita può essere fatto sparire, può essere fatto oggetto di commercio, può essere utilizzato nel circuito delle adozioni illegali in frode alla normativa vigente. Un’automobile nuova non esce dalla concessionaria senza targa. Un neonato sì. Se veramente si vogliono evitare infanticidi, mercato dei bambini e abbandoni nei cassonetti è necessario» – ha concluso Fadiga – «non lasciare sole le gestanti con difficoltà personali e familiari e le gestanti-bambine, aiutandole a scegliere consapevolmente e continuando ad assisterle nell’anonimato dopo la dimissione dal centro di nascita».
È intervenuta successivamente Marisa Persiani, psicologa e psicoterapeuta, responsabile dell’Ufficio pianificazione territoriale e sistema informativo della Provincia di Roma, giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Roma, la quale ha analizzato le nascite a rischio psico-sociale ed ha messo in luce come «per comprendere i bisogni di un bambino è necessario partire dalla predisposizione base della donna che lo genera, dalla motivazione, dal significato e dalle condizioni che hanno determinato il suo concepimento». Quando viene effettuata un’analisi profonda dei comportamenti di un individuo si arriva a constatare che quasi sempre da bambino è stato oggetto di proiezioni idealistiche o compensative da parte di adulti frustrati. Se vogliamo costruire adulti sani dobbiamo porre la massima attenzione alle culle, a partire dalla gravidanza. Il legame di sangue non certifica la funzione genitoriale, ma la cultura dà alla maternità una dimensione sacra in tutte le società, per cui sono buone le donne che si adattano, mentre sono cattive e condannate a giudizi sociali negativi quelle che non si adeguano alle norme. È proprio da questi elementi che deriva l’uso spesso improprio, e connotato negativamente, del termine “abbandono” con cui si indicano situazioni tra loro molto diverse: non riconoscimento, riconoscimento indotto, abbandono, infanticidio. Persiani si è posta due domande: dove si collocano le maternità difficili? cosa bisogna fare? Ha risposto affermando che «accanto alle categorie di disagio storicamente riconosciute, quali giovani adolescenti, donne con fragilità psico-affettiva, in condizioni di disagio socio ambientale ed economico, pazienti psichiatriche, tossicodipendenti o alcool-dipendenti, si associano, per la precarietà delle condizioni in cui vivono, le donne straniere. I cambiamenti delle geografie familiari che caratterizzano il nostro tempo, evidenziano l’insorgenza di “maternità difficili” anche al di fuori delle cosiddette “fasce fragili”. Generalmente le condizioni di rischio si rilevano soltanto quando il danno è conclamato».
È seguita la relazione di Annita Genovese, responsabile del Servizio sociale dell’Ospedale sant’Anna di Torino, uno dei maggiori poli europei materno-infantili con 8.500 parti all’anno. Genovese ha dapprima ripercorso in breve la storia del Servizio sociale ospedaliero e ha fornito alcuni dati statistici sui bambini non riconosciuti, partoriti nell’ospedale dal 1985 ad oggi (307) da donne della fascia di età tra i 18 e i 28 anni, nella maggior parte prive di occupazione, nubili o separate, soprattutto straniere (queste ultime in costante aumento nel corso degli anni), è quindi passata ad analizzare le motivazioni delle loro scelte.
La stessa sostiene che nei racconti delle donne emerge che la gravidanza è spesso frutto di rapporti con uomini con i quali non hanno relazioni affettive stabili e profonde, per cui detti rapporti vengono spesso interrotti nel momento in cui viene comunicata la gravidanza, o, in alcuni casi si tratta di donne che hanno subito violenza sessuale. L’elemento che accomuna la maggior parte di queste donne è la condizione di solitudine affettiva nella quale si trovano, sia durante la gravidanza sia al momento del parto. Evidenzia inoltre come sia necessaria una riflessione circa la giovane età delle gestanti, situazione che spesso è collegata ad immaturità ed assenza di un sostegno familiare.
Genovese mette in luce come le frasi ripetute spesso sono: «Voglio continuare a studiare e realizzarmi nella vita; un figlio richiede troppi sacrifici e io non mi sento pronta data la mia giovane età; non sono capace a pensare a me stessa, come posso occuparmi di un bambino?». Emerge pertanto, da parte delle giovani, un rifiuto nei confronti del neonato che impedisce di continuare la vita di una qualunque coetanea. Genovese ha proseguito affermando che le donne straniere che decidono di non riconoscere il proprio nato provengono prevalentemente dai paesi dell’Est e la scelta dipende prevalentemente dalla situazione lavorativa, dalla solitudine, dalla carenza di risorse e servizi; nel caso di donne straniere alcune hanno richiesto di vedere il bambino dopo il parto: «Questi casi hanno riguardato donne di diversa provenienza e cultura – marocchina, rumena, cinese – ma, pur con modalità differenti, l’incontro è stato sempre un momento di intensa emotività: una breve preghiera, una richiesta di perdono, un gesto di benedizione».
Le donne straniere, ha ricordato ancora, attualmente non si rivolgono più direttamente all’ospedale, ma al consultorio familiare di zona. Ha quindi spiegato le tre funzioni del Servizio sociale ospedaliero: informazione, sostegno psico-sociale e rete per poi descrivere le procedure seguite nel caso di non riconoscimento: «Quando la donna non dispone di un “posto” dove poter portare a termine la gravidanza in modo sereno o ha la necessità di nascondere il suo stato, al Servizio sociale arriva la richiesta di una struttura che la possa accogliere, una comunità dove non siano presenti madri con bambini, ma altre gestanti con situazioni problematiche». Sostiene come sia importante ed opportuno garantire, quando è possibile, una presa in carico precoce consentendo alla gestante di arrivare al parto ben informata e preparata (ad esempio sui tempi e le modalità di ricovero in ospedale, sulla prassi solitamente seguita dal personale sanitario, sull’iter che il Servizio sociale avvierà).
Rileva infine che solitamente la decisione di non riconoscere è presa durante la gravidanza e viene confermata dopo il parto. Quando la decisione è travagliata e particolarmente dolorosa, l’assistente sociale dà la disponibilità a svolgere più colloqui, cercando, se possibile, di rispettare il termine dei dieci giorni previsti per legge per la denuncia di nascita. In questi casi il servizio sociale ospedaliero si avvale della collaborazione del servizio psicologico.
Vi è stato poi l’intervento di Liviana Marelli, che ha espresso le sue forti preoccupazioni sulla gravità dell’attuale situazione come risulta dalle loro esperienze e quotidiane di accompagnamento di persone fragili e, nello specifico, di donne e mamme italiane e straniere in situazione di difficoltà, disagio e fragilità.
Ha posto l’attenzione sul fatto che «il nostro Paese sembra non in grado di esprimere la capacità di indicare priorità irrinunciabili, di individuare e sostenere strategie di contrasto al disagio e di fornire risposte adeguate alle gestanti ed alle madri in difficoltà con bimbi piccoli», denunciando che «siamo di fronte ad una esasperazione insostenibile della logica puramente prestazionistica dove si registra la progressiva dismissione della presa in carico del progetto complessivo e rispettoso delle individualità e delle storie personali». Sempre più frequentemente la risposta è a carattere emergenziale, contingente, frammentata, discontinua, quasi sempre lontana da processi di integrazione sociosanitaria.
La presa in carico complessiva delle madri e dei loro figli richiede scelte di consolidamento strutturale dei servizi, ma le attuali modalità di intervento non possono essere la risposta e rafforzano invece la precarietà, la provvisorietà, disorientano e confermano che non c’è un diritto esigibile ma solo “la fortuna” di stare in un posto dove almeno per un certo periodo ci sono dei progetti. Tutto ciò favorisce frammentazione, disuguaglianza e precarietà. Il contrario del rispetto dei diritti e della costruzione di garanzie di esigibilità a fronte di un mandato normativo.
Liviana Marelli ha concluso indicando quelle che considera le priorità irrinunciabili: la definizione dei livelli essenziali omogenei su tutto il territorio, l’allocazione di risorse (economiche e di personale) per renderli esigibili, rendere i servizi strutturali e non provvisori e confermare la titolarità e la responsabilità pubblica in tale ambito.
Walter Nanni ha affermato che la donna straniera in Italia vive una fragilità complessiva non solo durante la gestazione e la gravidanza: il ruolo sociale, la condizione lavorativa e la posizione della donna in ambito familiare sono legati ai fattori di rischio dell’esperienza della gravidanza.
La condizione femminile, secondo i dati Istat, è più fragile di quella maschile e la deprivazione delle famiglie straniere con figli si accentua nelle fasi della gravidanza e della nascita.
Walter Nanni ha successivamente rilevato come dalle testimonianze raccolte emerga, e non vada sottovalutato, come la cultura dei vari Paesi di provenienza delle donne influenzi le loro scelte riguardo alla natalità e alla maternità.
Ha poi evidenziato come «anche la scelta di non riconoscere il proprio figlio alla nascita è legata ad aspetti valoriali e culturali molto radicati su cui non appare possibile incidere nel breve spazio temporale del ricovero in imminenza del parto. Sarebbe invece più opportuno stabilire dei contatti nel percorso di monitoraggio della gravidanza o in quelle occasioni/situazioni dove è possibile stabilire un contatto con le donne e instaurare con loro un dialogo informativo e di reciproca conoscenza».
Gianni Fulvi ha segnalato che il Coordinamento nazionale delle comunità per minori, di cui è presidente, ha circa duecento strutture associate: quelle che accolgono donne in difficoltà e donne e bambini sono però una minoranza. Lo scopo di queste ultime dovrebbe essere quello di far “crescere” la genitorialità delle mamme; purtroppo manca sovente una co-progettualità con gli operatori del territorio e la comunità locale, manca cioè la chiarezza sul progetto socio-assistenziale: c’è solo, continuamente, una risposta all’emergenza, aggiungendo che le assistenti sociali del territorio vanno elemosinando accoglienza sapendo di non poterla pagare perché le amministrazioni non versano alcuna somma. Diversamente da quanto è stato fatto nei confronti dei minori non sono state avviate iniziative in merito all’accoglienza delle donne in difficoltà e/o donne con bambini. Secondo Fulvi «le comunità accolgono un’utenza diversificata: gestanti, donne con bambini, straniere, donne con disturbi psicologici o addirittura psichiatrici e pertanto i problemi sono molto diversi. Inoltre non è chiaro, se si esamina le normative a livello anche nazionale, la differenza tra la casa famiglia e la comunità alloggio se non relativamente ai numeri dei posti autorizzati. Tutto questo comporta una grande confusione negli interventi».
Gianni Fulvi segnala infine che in un Paese dove le politiche per la famiglia sono quasi assenti, migliorare ulteriormente l’assistenza di queste situazioni così fragili diventa sicuramente molto più faticoso.
A chiusura dei lavori della mattinata ha preso la parola una figlia adottiva, non riconosciuta alla nascita, Claudia Roffino: il testo integrale del suo toccante intervento è riportato nel Notiziario della sede nazionale di questo numero del Bollettino.
Va ricordato infine che l’Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie, in concomitanza con questo Convegno, ha attivato una rilevazione in merito alla normativa regionale, in materia di diritti delle gestanti e madri con gravi difficoltà personali e familiari e dei loro nati, assunta in applicazione dell’art. 8, comma 5 della legge 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”.
I risultati di tale ricerca sono in fase di ultimazione e saranno riportati, appena disponibili sui prossimi numeri del Bollettino.