Lavoriamo per una scuola per tutti
(a cura di Emilia De Rienzo)
«Distruggere la prigione, mettere al centro della scuola il bambino, liberarlo da ogni paura, dare motivazione e felicità al suo lavoro, creare intorno a lui una comunità di compagni che non gli siano antagonisti, dare importanza alla sua vita e ai sentimenti più alti che dentro gli si svilupperanno, questo è il dovere di un maestro, della scuola, di una buona società… di fronte ai bambini devi decidere come impostare il tuo lavoro: per asservire o per liberare.»
(dall’introduzione a Il paese sbagliato di Mario Lodi)
C’è allarme e preoccupazione per il destino della scuola pubblica e per l’incapacità ad affrontare le sfide che la società in cui viviamo ci pone.
Le sfide sono tante e complesse, e viene rilevato da tutti gli operatori della scuola e dai sindacati come le risorse destinate ad esse siano del tutto insufficienti con gravi conseguenze. E’ sotto gli occhi di tutti che, invece, di incrementare i fondi, siano stati fatti considerevoli tagli.
Le conseguenze sono: una drammatica precarizzazione del lavoro di giovani docenti e ricercatori, una riduzione pesante della qualità del sistema (classi più affollate, meno tempo scuola, riduzione del tempo pieno e tempo prolungato, meno garanzie per l’inserimento dei soggetti diversamente abili e per l’integrazione di bambini stranieri, stravolgimento e rottura della continuità didattica per effetto delle cattedre a 18 ore, mancanza di materiale etc.). Su questi punti abbiamo assistito in questi mesi a mobilitazioni sia di studenti che di insegnanti.
Ma ci sono altri problemi su cui, a nostro avviso, bisogna rivolgere la massima attenzione.
La scuola di massa, la scuola per tutti è stata e rimane una delle grandi conquiste del ventesimo secolo Negli ultimi decenni la grande maggioranza dei giovani è entrata nella scuola secondaria, vi resta fino ad adolescenza inoltrata, una buona parte prosegue più avanti.
Una scuola, quindi, pubblica, obbligatoria e gratuita, unificata nei programmi di base, con garanzie sulla libertà di insegnamento. Il suo obiettivo era di abbattere le barriere sociali, di offrire pari opportunità e un avanzamento culturale generale.
Grazie a questa riforma sono entrati nella scuola secondaria e superiore ragazzi che non avevano alle spalle un buon retroterra familiare e sociale. E negli anni settanta entravano anche gli alunni portatori di handicap fino ad allora ghettizzati in scuole speciali. Una novità di tale portata avrebbe dovuto implicare però una trasformazione radicale, di programmi, di metodi, di modi di funzionamento e soprattutto uno spirito di ricerca continuo.
Questo processo di democratizzazione della scuola rispondeva a precisi dettati della Costituzione e oggi sta subendo una battuta di arresto.
E’ per questo che è importante lanciare un appello a tutti quelli che hanno a cuore la salute dei nostri bambini e ragazzi per un ripensamento collettivo su dove oggi la scuola sta andando, sul nostro modo di fare scuola. Ci sembra che su queste finalità ci sia poca chiarezza e poca attenzione.
In un mondo dove sempre più ci si abitua ad esprimersi attraverso slogan, assiomi e contrapposizioni ideologiche, dovremmo, almeno dal basso, riscoprire la necessità del dialogo per un confronto che abbia però il rigore di un punto di partenza fondamentale: ritornare a ripensare in modo fattivo e concreto ad una scuola che si sappia aprire anche a quei ragazzi che oggi più che mai rischiano di rimanere ai margini della formazione educativa quando non ne vengano esclusi. I dati sulla dispersione e l’abbandono scolastico rimangono nel nostro paese molto alti e rischiano con gli ultimi provvedimenti di aumentare.
Per quanto riguarda quello che si è rilevato negli incontri di questi anni, molti genitori adottivi lamentano una scuola non adeguata ad affrontare i delicati problemi e le difficoltà che i loro figli si trovano ad affrontare nell’inserimento. Ci sono sicuramente insegnanti sensibili, ma tutto è lasciato alla buona volontà e al caso.
Ma prima di tutto affrontare i problemi dei bambini adottivi è affrontare il problema di qualsiasi bambino nella sua unicità. Avere ben presente che la diversità non deve essere motivo di pregiudizio né deve indurre ad alcun giudizio in termini di valutazione qualitativa. I bambini adottivi sono diversi fra di loro, come i bambini immigrati, i bambini di genitori separati: i bambini sono bambini e basta e ognuno deve avere la possibilità di crescere in modo sereno e sano e deve poter godere delle stesse opportunità degli altri.
Bisogna quindi essere consapevoli che non è la diversità a costituire un problema, ma come essa viene percepita e affrontata.
Ci sono due scuole davanti a noi: quella in cui i programmi si plasmano sugli alunni o viceversa, quella in cui sono gli alunni che devono plasmarsi sui programmi.
Una scuola dove il problema, la difficoltà del ragazzo diventano un momento di ricerca per trovare soluzioni e strategie o un’altra in cui la difficoltà è vista come “incapacità” irreversibile e stigmatizzata da un voto negativo o da una sanzione.
Oggi prevale l’idea di una scuola dove l’istruzione è vista come puro strumento per entrare nel mercato del lavoro, che ritorna ad assumere una funzione così prevalentemente selettiva e punitiva: una scuola quindi che ex-clude invece che in-cludere.
E’ questa una scuola che genera sofferenza e disagio e di conseguenza emarginazione.
Dove vanno a finire i bisogni reali dei bambini che necessitano di sguardi attenti alla loro «buona» crescita, al loro «ben-essere», non a quello solo materiale, ma a quello psicologico ed affettivo? È proprio vero che privilegiando l’intelligenza intesa come capacità di prestazione si fa il bene del bambino più capace? O non è altrettanto vero se non più importante che i bambini imparino anche il senso di responsabilità, e a rapportarsi con gli altri diversi da loro?
Nella realtà della scuola incontriamo ragazzi sempre più fragili.
La famiglia, anche quando non presenta particolari problemi evidenti, oggi sta attraversando momenti difficili. Le famiglie, prevalentemente, sono sole, mute, senza interlocutori significativi e possono essere a rischio proprio perché è andata sfaldandosi la sua vecchia rete di sostegno: sono finiti i rapporti di vicinato e questo ha intaccato il sentimento di appartenenza ad una comunità, che poteva soccorrere chi era in difficoltà. Sempre di più i bambini convivono con adulti stressati, troppo stanchi, troppo presi dai problemi che la vita pone loro.
La nuclearizzazione delle famiglie, inoltre, l’incompatibilità tra gli orari del lavoro e l’adempimento delle funzioni di genitori producono spesso solitudine infantile.
Viviamo, inoltre, in una società ormai interculturale. Sono già quasi un milione i bambini stranieri in Italia di diversa origine, con diverse storie, con gruppi famigliari alle spalle molto diverse. Per citare un numero fra i tanti e rendersi conto della portata del fenomeno migratorio sappiamo, per esempio, che a Torino un alunno su quattro è straniero.
I bambini adottati con l’adozione internazionale si presentano,quindi, a scuola con una doppia peculiarità: quello di essere figli adottivi ed essere di origine straniera. Pur diventando a tutti gli effetti bambini italiani di genitori italiani spesso si tende a “confonderli” con bambini stranieri tout court. Ogni bambino, quindi, entra nella scuola con la sua storia e molti di loro si portano dentro ferite di cui difficilmente riescono a parlare.
Se la scuola non può supplire a tutte le carenze che un bambino presenta, può e deve fare la sua parte. A scuola, il più delle volte, ci si aspetta che l’alunno sappia mettere in funzione la propria intelligenza, la propria capacità di ragionare e di comprendere e raramente queste capacità vengono messe in correlazione col suo vissuto, con il suo stato d’animo, con tutte le altre componenti emotive ed affettive che entrano in campo quando si deve imparare qualcosa. La concezione che la ragione sia una componente umana completamente staccata dalla parte affettiva ed emotiva dell’uomo ha fatto del bambino a scuola un essere «bicefalo».
Settorializzare la visione del bambino vuol dire veder spesso le difficoltà come insormontabili, ci impedisce di vederlo nella sua vera luce, nella sua specificità psicologica e di coglierne quindi le potenzialità. Stigmatizzare un bambino significa impedirgli di evolversi, di sottrarlo alle sue potenzialità creative, vuol dire non vederlo nelle sue potenzialità ma così come lo vogliamo vedere noi nel confronto con un bambino “ideale” di cui abbiamo un’idea in testa come insegnanti e spesso anche come genitori.
Dobbiamo lavorare per una scuola che sappia affrontare le difficoltà di apprendimento e che per fare questo, come dice Vygotskj , non ci si basi “su quello che manca in un certo bambino, su quello che in lui non si manifesta”, ma si abbia “un’idea di quello che possiede, di quello che è” e soprattutto si rispettino i tempi diversi con cui l’apprendimento avviene.
Non dimentichiamo che prima di tutto, tutti i bambini, anche quelli apparentemente più equilibrati hanno bisogno di atmosfere calde ed umane per crescere sani e che comunque la quotidianità è terapeutica di per sé, senza una buona quotidianità non esiste cura che tenga.
Questo modo di vedere ci aiuta a fare della scuola un luogo dove “non si chieda di essere ‘forti’, ma in cui sia possibile non essere né forti né deboli, e accettare insieme la fragilità della vita”, una scuola che sappia vedere nelle persone individui non etichettabili, che riconosca “la molteplicità”: ogni individuo si può esprimere in diversi modi e questo riconoscimento “non dovrebbe riguardare solo le persone che hanno problemi, ma anche quelle che si considerano “normali”, affinché possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e dolorosa etichetta di ‘normale’, per poter assumere e abitare le molteplici dimensioni della fragilità (…)
Infatti è proprio là dove nessuno guarda, in quel ‘niente da segnalare’ della norma che una serie di esseri umani vivono nella paura permanente di ‘dover essere forti’, ‘all’altezza’ recidendo “ogni legame con le dimensioni della propria fragilità e complessità” (1).
Solo se le emozioni e i sentimenti degli allievi sono accolti e riconosciuti come aspetti strettamente legati all’esperienza e non come ostacolo o disturbo allo svolgimento del programma, il bambino può trovare la forza di raccontarsi, di appropriarsi della propria storia, anche se a volte dolorosa come un valore e non come un motivo di esclusione da tutti gli altri.
Ma dobbiamo chiederci anche se c’è spazio a scuola per la riflessione? Se la scuola è un luogo dove c’è la possibilità di mettersi a confronto con gli altri? Dove si possa parlare dei problemi che si incontrano nella relazione? O le riunioni sono diventate di fatto solo momenti in cui cimentarsi con pratiche burocratiche che di umano non hanno proprio nulla?
L’importanza di incontrarsi, di mettere a confronto idee e saperi diversi tra insegnanti, tra insegnanti e genitori, con i servizi sociali è fondamentale.
E’ importante, allora, ricostruire legami e reti, che essere corresponsabili nei vari ruoli per crescere i nostri figli bene e, se possibile, meglio di noi.
Dice Morin “L’indebolimento di una percezione globale conduce all’indebolimento del senso di responsabilità così come all’indebolimento della solidarietà, poiché ciascuno tende a essere responsabile solo del proprio compito specializzato”.
La scuola è il luogo dove transitano tutti i bambini e dove si formano i futuri cittadini di domani, tutti quindi ne siamo corresponsabili.
Molti intellettuali si sono pronunciati su come deve essere la scuola, ma spesso le loro analisi rischiano di rimanere astratte e generiche se non supportate da un confronto serio e serrato con chi i problemi li vive tutti i giorni.
E’ un dato significativo che oggi si parli più del malessere degli insegnanti che di quello dei ragazzi che invece vengono visti quasi come i responsabili del cattivo andamento della scuola.
Riflettere sui ragazzi di oggi e sui loro atteggiamenti vuol dire prima di tutto chiedersi dov’è finito il ruolo dell’adulto. E’ un interrogativo fondamentale perché non c’è educazione senza relazione.
Pensiamo, quindi, che sia importante riportare al centro della nostra e altrui attenzione una proposta di scuola che diventi “luogo di speranza aperto a tutti”, dove ogni bambino possa trovare uno spazio che lo accolga nelle sue difficoltà e delle persone che siano disponibili ad affrontarle insieme a lui. Una scuola che sappia parlare alle nuove generazioni e che non rimanga abbarbicata ad un modello del passato che non può e non deve più esistere. Essere nostalgici di quella scuola vuol dire credere in una scuola solo selettiva ed elitaria.
(1) Miguel Benasayag, Gerard Scmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli Editore, Milano, 2004.