Aprirsi al dialogo con i ragazzi…
Da un po’ di tempo è all’ordine del giorno la denuncia sui giornali di prevaricazioni, violenze, realizzati da ragazzi che “si sentono forti” su altri più indifesi e fragili. Il fenomeno è stato chiamato “bullismo”.
«Piccoli, cattivi e violenti»: così intitolava un articolo su questo tema un giornale, un titolo che non condivido e trovo demonizzi i ragazzi come se fossero un corpo separato dal resto del mondo e nulla dice su quello che sono le nostre e loro responsabilità, giornali compresi.
Si usa violenza quando non si riesce ad articolare la propria voce, quando non si riesce ad affermare in un modo diverso la propria esistenza ed è così che molti ragazzi si sentono in un mondo dove si dà più valore all’apparenza che ha quello che si è veramente.
E ad essere latitanti siamo proprio noi adulti che siamo molto più bravi a giudicare che ad affiancare per capire e comprendere. Sono fatti isolati? No, non lo sono. L’arroganza, la prevaricazione del più forte sul più debole è continua. Qualcuno dirà che c’è sempre stata. Forse. Qualcuno dirà che il più delle volte sono solo ragazzate. Vero, nel senso che tutto avviene tra ragazzi. Ma quello che è sorprendente è che tutto sembra avvenire in un mondo dove gli adulti non esistono, non hanno o non vogliono avere nessuna voce in capitolo. Sembra che i ragazzi vivano in una sfera di vetro al di fuori della quale noi li guardiamo, li osserviamo, ma non interveniamo se non per ipotizzare punizioni severe. Insomma non siamo dentro, in mezzo a loro dove sarebbe il nostro posto. Non sono “i nostri ragazzi”, sono sempre “i figli degli altri”.
Un giorno ho trovato dei ragazzi che prendevano a calci nei bagni un loro compagno. Li ho fermati e ho chiesto loro cosa aveva fatto quel ragazzo. Niente, mi hanno risposto. Allora perché lo picchiate? Così, per divertirci, scherzavamo. Ma la cosa più triste da vedere è che il ragazzo maltrattato si è alzato e ha confermato la versione dei compagni: stavamo solo giocando, mi ha detto con la tristezza negli occhi.
I ragazzi oggi, sembrano più adulti, perché hanno i desideri dei grandi, ma in realtà sono sempre più immaturi affettivamente, sempre meno sanno decifrare le loro emozioni, sanno parlare dei loro sentimenti e delle loro paure perché sempre meno trovano spazi e situazioni in cui poterlo fare.
Tra di loro non sono abituati ad ascoltarsi, a soccorrersi. Si giudicano per come vestono, per come riescono nei giochi, ma non si conoscono veramente tutti chiusi nei loro «io».
L’aggredire l’altro, a volte, è normale, prenderlo in giro, insultarlo è solo uno «scherzo» e non si ha coscienza di far del male.
Può essere un fatto quotidiano prendere di mira qualcuno e sfotterlo, farlo oggetto di scherzo senza accorgersi quando si supera il limite di sopportazione che l’altro può sostenere.
Ciò che preoccupa non è tanto il singolo atto, la costituzione di un gruppo che tenda ad affermarsi tra i coetanei con la violenza, ma che questo modo di agire e di rapportarsi agli altri sta diventando «cultura» cioè «normale» nel senso che chi agisce non sembra aver la minima coscienza di quello che sta facendo e che da parte di chi subisce si ritiene una situazione irreversibile, un prezzo da pagare per non sentirsi emarginati, diversi.
Ed è inquietante quanto questi atteggiamenti si ritrovano già nei bambini delle elementari.
Non sono tanti quelli che agiscono in modo violento, sono molti quelli che agiscono senza preoccuparsi dell’altro, moltissimi quelli che comunque tacciono. Non sanno dare risposte del loro comportamento, non sanno quindi cosa vuol dire «essere responsabili».
E sono proprio gli adulti ad essere latitanti. I genitori sono sempre più assenti nella vita del ragazzo o perché troppo impegnati nel lavoro o perché in crisi loro stessi. Ma dei vissuti dei ragazzi, di cosa fanno, di come si comportano con gli altri o di cosa subiscono si occupano anche poco gli insegnanti con cui i ragazzi passano molto tempo. Nella scuola, infatti, si dà priorità al ruolo cognitivo piuttosto che a quello educativo e la valutazione legata alla prestazione scolastica mette in secondo luogo la persona.
La classe, in questo senso, non è un luogo dove oltre ad imparare si possa anche esprimersi e comunicare. Si impone una forma impersonale di comunicazione che non acquista senso e significato nella vita personale dell’allievo.
Serve, invece, parlare con i ragazzi non solo per minacciare, ma anche e soprattutto per ascoltare e dialogare con loro per capire, prima di agire.
I ragazzi hanno bisogno di sentire intorno a loro «anime vive», non «anime perfette», che non sbagliano mai, ma che sappiano porsi di fronte all’altro in modo vitale, che sappiano stabilire una relazione senza averne paura e che insegnino ai loro alunni a relazionarsi fra di loro.
Gli adulti si sentono insicuri rispetto al proprio domani, ma ancora più temono per i loro figli in un mondo dove la competizione sembra schiacciare i più deboli, dove il lavoro è sempre più precario. Per questo vogliono vedere i loro figli preparati, all’altezza di un mondo in cui è sempre più difficile inserirsi con profitto. Li spingono ad imparare tante cose e in fretta. Devono essere attrezzati e pronti ad attraversare un mondo pieno di difficoltà. Intanto non si accorgono più che i bambini sono più stressati, più infelici, più nervosi.
«Troppi genitori ripongono sui loro figli aspettative troppo forti, si disperano davanti ai loro minimi insuccessi e li opprimono con responsabilità paralizzanti per dei giovani, invece di aiutarli, in un clima di sicurezza e di distensione a conservare la fiducia in se stessi e la speranza» (1).
La società con i suoi ritmi e i suoi martellamenti quotidiani entra nelle nostre coscienze, forgia la nostra mentalità, ci fa dimenticare i bisogni dei bambini per renderli dei piccoli automi. E in questo modo li perdiamo davvero perché solo qualcuno, non so se dire i più fortunati, ce la fa.
«Nella mente di coloro che vogliono aiutare i giovani domina l’idea di un futuro minaccioso. Ecco che allora chi esercita una responsabilità pedagogica si comporta come se avesse di fronte un pericolo: deve combattere per superarlo e per aiutare il maggior numero di persone a uscirne vittoriose. Così la nostra società diventa sempre più dura: ogni sapere deve essere “utile”, ogni insegnamento deve “servire a qualcosa”» (2).
Ne consegue che «gli sforzi di tutti gli allievi e insegnanti devono essere tesi alla ricerca delle competenze migliori e dei diplomi più qualificati, sola garanzia di sopravvivenza in questo mondo pieno di pericoli e di insicurezza, caratterizzato dalla lotta economica di tutti contro tutti» (3).
Una mattina parlando con i ragazzi li facevo ragionare sul fatto che non si fermavano abbastanza a pensare, a riflettere su ciò che leggevano o studiavano. Una ragazza ha alzato la mano e mi ha detto: Ma io non ho tempo, professoressa. Mi ha elencato tutti i suoi impegni ed in effetti nel tempo che rimaneva non poteva far altro che andare a dormire e sognare. Un altro mi ha detto: A me sembra di vivere sempre in corsa. Gli ho chiesto cosa voleva significare la sua affermazione. Il suo problema è che sua madre lo «prelevava» a scuola per portarlo in piscina, poi doveva andare dai nonni perché i suoi genitori erano impegnati fino ad una certa ora. Dopo cena lo veniva a prendere il padre e, tornato a casa, andava a dormire.
Credo che quando un bambino non ha più tempo per se stesso, per oziare, pensare alla sua giornata, riflettere sui suoi rapporti con gli altri dobbiamo seriamente preoccuparci.
Non è solo il futuro, ma anche il presente ad essere minaccioso…
Al Circolo dei lettori di Torino quest’anno è stata rappresentata la “lettura animata” intitolata “Guarire di bullonite si può” rivolto ai ragazzi della scuola media.
Finalità di questo lavoro teatrale è aiutare i ragazzi tra i 10 e i 14 anni a comprendere che ognuno di loro è una persona con una sua individualissima storia che va accettata e valorizzata nella sua diversità.
Nel portare all’attenzione storie e testimonianze abbiamo voluto far emergere quanto troppo spesso si chieda ai ragazzi di essere “forti”, sempre all’altezza di… senza che essi possano dare mai spazio e voce alle loro difficoltà e valorizzare la loro diversità.
Si è cercato di portare il pubblico a riflettere su come in questo modo si recida ogni legame con le dimensioni della propria fragilità e complessità, che ci abitua a seguire modelli più che a cercare ciò che è proprio della nostra individualità.
Questo fa di loro delle persone “mutilate”, che non imparano a guardarsi dentro, non sanno entrare in dialogo né con se stessi né con gli altri.
La lettura animata cerca di raccontare la diversità che è in ognuno di noi e la necessità di accettare la “fragilità” che ci abita tutti indistintamente. Solo accogliendo questa parte di noi si possono affrontare le difficoltà perché le si può guardare in faccia senza negarle, perché se ne può parlare e ci si può confrontare. Nel riuscire a parlarne si può superare quella solitudine che accompagna tanti ragazzi, ma anche tanti adulti e riscoprire il valore della condivisione e della solidarietà.
Ma speriamo che gli insegnanti dopo lo spettacolo continuino a parlare e discutere con i ragazzi, a farli riflettere su come ognuno può essere tanto importante nella vita dell’altro.
Lo spettacolo è stato possibile costruirlo grazie alla disponibilità di Adriana Zamboni (attrice e regista) e Manuela Massarenti (attrice) che hanno accolto con entusiasmo la proposta e hanno poi concretamente messo in atto lo spettacolo e all’appoggio della Fondazione Promozione Sociale.
(1) Françoise Dolto, Come allevare un bambino felice.
(2) Miguel Benasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi.
(3) Ibidem.