torna all’indice del Bollettino 01/2006 – Gennaio / Marzo 2006

Abbiamo chiesto alla dottoressa Donatella Fiocchi, psicologa e psicoterapeuta, di scrivere alcune sue considerazioni a margine della lettera – che qui di seguito riportiamo – inviataci dagli affidatari di J.S. E’ interessante vedere come, partendo dalla chimica e dal significato del termine”decantare” lei riesca a darci, in poche pagine, tanti spunti di riflessione sull’ importanza delle relazioni affettive nella crescita di ogni bambino e sulla necessità di una loro continuità, che va modulata, secondo le situazioni, ma non negata!

 

Alla c.a. di

Dr. Marco Borgione – Assessore alla Famiglia ed ai Servizi Sociali – Comune di Torino
Dr. P. Pazé – Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minori di Torino
Dott. Luciano Tosco – Direzione Settore Minori Comune di Torino

 

e p.c.

Dr.ssa Giulia De Marco – Tribunale dei Minori di Torino
Presidenza Nazionale Anfaa – Torino

 

Riferimento: Minore J.S.

Ascoltare le esperienze degli altri può essere interessante, può colpire, ma non incide mai come viverle in prima persona.

Fino a qualche mese fa avevamo soltanto sentito parlare gli altri: le famiglie, per la verità piuttosto numerose, che raccontavano le loro dolorose esperienze di distacco forzato dai bambini o ragazzi che avevano cresciuto, a volte per anni.

Le ascoltavamo con un certo distacco, convinti che a tutto ci fosse sempre una valida ragione.

Anche a noi era capitato in prima persona, ma avevamo sempre accettato le motivazioni degli operatori e dei giudici, convinti che la conoscenza e l’ utilizzo della legge fossero la discriminante tra giustizia ed ingiustizia.

Oggi viviamo in prima persona una situazione di totale, assurda e profonda incoerenza, insulsa nella sua inutilità e ci ritroviamo impotenti, esposti all’ indifferenza dei servizi, incapaci di incidere attraverso l’uso della logica e del buonsenso in un muro di totale assenza di impegno, volontà e soprattutto rispetto per i sentimenti di un ragazzino e di chi gli vuole bene, la sua mamma, la famiglia che è stata il suo riferimento per oltre cinque anni.

Convinti sostenitori dell’ affidamento, una situazione fortemente mutata e di grossa difficoltà all’ interno della nostra famiglia, coincidente con il cambiamento degli equilibri tra i ragazzi in crescita, ci ha costretti a chiedere l’ interruzione di un rapporto che procedeva faticosamente ma in modo positivo da oltre cinque anni. Una scelta dolorosa quanto inevitabile, accettata con l’obiettivo di non nuocere a tre ragazzi, i nostri due figli ed il ragazzino che ci era stato affidato all’età di 7 anni. Poiché avevamo sempre vissuto questa esperienza sia con lui che con la sua mamma, con la precisa consapevolezza che non si trattava di un rapporto adottivo coperto, ma di un supporto ad una mamma affettuosa, ancorché con grosse problematiche e nessuna prospettiva di miglioramento, ci siamo impegnati affinché la crisi venisse gestita e vissuta come un passaggio di crescita in positivo per tutti noi e non come un rifiuto del ragazzino, a cui volevamo e vogliamo molto bene.

Il servizio sociale non ha apprezzato ed il rapporto si è fatto immediatamente molto più teso.

Ci sono voluti otto mesi di incontri e molte discussioni anche accese, per evitare che venisse inserito in una comunità e trovare una soluzione che pareva adeguata oltre che più vicina alla mamma, che per le sue condizioni di salute faticava ogni giorno di più a venirlo a trovare da noi.

Dopo un periodo di tre settimane di inserimento graduale realizzato in collaborazione con la nuova famiglia e, seppur con qualche difficoltà, anche con il servizio sociale, abbiamo affidato il ragazzo alla casa famiglia individuata dai servizi con assoluta fiducia: eravamo noi i primi ad avere la certezza che si aprivano per lui delle prospettive migliori di crescita. Il passaggio, che lui temeva e non voleva, ma a cui lo avevamo portato solo grazie al ragionamento, era stato accettato di buon grado solo con l’ impegno che ci saremmo rivisti presto, che sarebbe tornato periodicamente a trovarci, che avrebbe mantenuto i rapporti con i suoi amici e soprattutto, che avrebbe avuto l’ occasione di esprimersi e verificare in famiglia come si trovava nella nuova situazione.

Ma da quel momento la nostra famiglia ha cessato di esistere per gli operatori.

La lettera in cui chiedevamo di provvedere a programmare il mantenimento della relazione affettiva, inviata alla Procura presso il Tribunale per i Minorenni ed ai servizi socio-assistenziali nel giugno scorso, non ha avuto mai risposta.

La lettera di sollecito e richiesta di chiarimenti inviata a Procura, Assessore e Dirigente dell’ area Minori del Comune di Torino inviata il 29 di agosto, ha generato un incontro amichevole con i responsabili del servizio sociale, ma nessun impegno continuativo.

Dal 20 luglio abbiamo visto il ragazzino, 13 anni appena compiuti, solo tre volte (1 e 15 ottobre e brevemente per una visita dentistica il 18) e solo dopo molte discussioni e richieste.

L’unico legame, ultimamente molto condizionato, è costituito dal telefono cellulare e, su nostro invito, da alcune lettere.

Nonostante le molte sollecitazioni non siamo riusciti ad ottenere da nessuno, servizi sociali, assessorati, procura, un impegno concreto per il mantenimento dei rapporti. Ogni occasione per rivederlo, anche brevemente, è stata aggirata con giustificazioni ridicole.

La coppia affidataria ed il servizio sociale si rimpallano la responsabilità di questa mancanza totalmente ingiustificata di rapporti: secondo il servizio la famiglia pretende la sua libertà e autonomia, secondo la famiglia il servizio ha vietato di farci incontrare il ragazzo senza loro istruzioni.

L’ assistente sociale che lo seguiva e conosceva da anni ha lasciato l’ incarico nell’ autunno scorso, all’ inizio della vicenda, quella che l’ ha sostituita, molto giovane, si è dovuta destreggiare con pareri contrastanti all’ interno del servizio ed ha comunque lasciato l’ incarico in estate.

Il ragazzo, che ha delle difficoltà personali, è sconcertato.

In cinque anni con noi, ha mantenuto una buona relazione, ancorché diradata con il tempo, con gli operatori della comunità in cui aveva vissuto per un periodo con la mamma. Per quanto riguarda la sua famiglia di origine, i legami sono sporadici ed occasionali e di scarso valore. Nello stesso tempo ha visto l’ assistente sociale due o tre volte, la neuropsichiatra una volta all’ inizio ed una volta alla fine dell’ affido (mentre noi abbiamo mantenuto un rapporto buono e regolare sia con l’ assistente sociale che con la neuropsichiatra infantile di riferimento), mentre da luglio ha incontrato due volte la nuova assistente sociale e solo dopo più di un mese senza alcuna notizia né spiegazione.

Alla sua richiesta di incontrarci è stato risposto che prima era necessario provvedere a sistemare le visite con la mamma; alla richiesta di passare qualche giorno con noi almeno nelle vacanze di Natale è stato risposto che la famiglia intendeva andare in montagna… Nonostante precise indicazioni della psicologa che lo ha seguito negli ultimi mesi a casa nostra, condivise dall’ assistente sociale di transito, non ci risulta che sia stato finora avviato alcun percorso di sostegno per lui, necessario anche per aiutarlo ad affrontare la situazione di peggioramento grave delle condizioni di salute della mamma, che soffre di una malattia genetica degenerativa.

Viene invitato costantemente ad immergersi nella nuova vita, viene sollecitato a dimenticare il suo passato, gli è stato detto che comunque non è veramente affezionato a noi…

Ora noi ci domandiamo: era questo l’intento delle leggi 184/83 e 149/01?

Solo a questo hanno portato tante discussioni, tante battaglie per migliorare le condizioni dei bambini senza famiglia, per tutelarli, per rispettare i loro bisogni e desideri?

O non siamo piuttosto di fronte ad una inquietante apatia istituzionale e all’ interpretazione miope, piccina e quantomeno discutibile del cosiddetto interesse superiore del minore?

Un ulteriore aspetto ci inquieta: gli operatori ci hanno lasciato intendere di aver avviato una procedura nuova per l’ affidamento alla casa famiglia, non giudiziaria: insomma con un ragazzino che ha vissuto due anni in comunità e quasi sei in affido, si riparte da zero con due anni di affidamento consensuale. E’ sensato, prima che legale ????

Il diritto al mantenimento delle relazioni significative non fa parte dei diritti fondamentali di ogni minore????

Esiste una figura super partes che verifichi sulle decisioni prese e sul benessere del minore??

L’affidamento familiare temporaneo ha lo scopo di offrire ad un minore in condizione di disagio grave una situazione di vita migliore, in un contesto in cui vi sia possibilità di crescita serena e di sviluppare le proprie potenzialità, creando relazioni personali significative e durature nel tempo, che possano essere base sicura e stabile nella vita adulta del singolo individuo.

Quando le condizioni individuate mutano, è dovere delle istituzioni adeguarle alle necessità.

Ma operare dei tagli brutali senza che ve ne sia una causa concreta (violenza, tensione o inadeguatezza ambientale grave), trattare la famiglia affidataria, che chiede un aiuto per la propria sopravvenuta incapacità a continuare in un impegno che era stato comunque molto gravoso, al pari di una famiglia maltrattante e fortemente carenziale, negando di fatto le relazioni di affetto significative che si erano create, celandosi alternativamente dietro sorrisi di finta compassione, atteggiamenti di severità dell’ autorità, rassicurazioni vuote di contenuto, appare una grave quanto inutile prevaricazione dei diritti umani del minore.

A questo punto, anche poiché da oltre 15 anni siamo attivi e convinti praticanti e promotori dell’affidamento, chiediamo di poter avere un impegno concreto e formale per evitare di segnare in maniera negativa e dolorosa un ragazzo che fa già tanta fatica per conto suo per vivere.

Lettera firmata

“Nota a margine”

A distanza di circa un anno, il ragazzo e le due famiglie sono stati sentiti, separatamente, dal Tribunale dei Minori, che, dunque, ha un procedimento in corso.

Occorreranno però ancora molti mesi (non si sa quanti) per avere un decreto. Intanto il ragazzo cresce e l’incredulità ha lasciato il posto all’angoscia.

Inevitabile una considerazione: quante pratiche come questa sarebbero risparmiate ai Tribunali, già oberati, usando solo un po’ di buonsenso?

 

Considerazioni di Donatella Fiocchi

“Decantare” nel significato chimico “far sedimentare e quindi separare due elementi in tutto o in parte non miscibili”; si usa in genere per il vino per il quale si tratta di rendere più prezioso il liquido che si beve, liberandolo dalle impurità che si depositano sul fondo. Si usa anche per l’acqua perché quella che si beve sia più pura e quindi migliore, con l’idea che, in questi casi, alcune sostanze “sporchino” o rendano più torbido, meno intenso quello che invece è prezioso per il nostro corpo o il nostro gusto.

E’ un termine che si usa anche in senso figurato e significa “rendere puro un sentimento, un’idea, uno stile, liberandolo da tutto quanto non è perfettamente fuso con esso”, o anche “liberare da sovrastrutture, da elementi estranei“. Il significato sembra chiaro per quanto riguarda una idea, uno stile, molto meno per quanto riguarda i sentimenti, cosa significa liberarli dalle sovrastrutture? Quali sono gli elementi estranei che rendono meno puro un sentimento? E cosa significa che un sentimento sia puro?

Si usa dire che bisogna lasciar “decantare” le passioni ma questo, in genere vuole solamente dire lasciare che si affievoliscano, che siano meno intrise di tutto quanto proviene dal corpo e divengano qualcosa di più intellettuale e, apparentemente, dominabile. Qualcosa dunque che non è più un sentimento.

Non vorrei spaventare nessuno con queste considerazioni, né fare della letteratura, ma semplicemente riflettere un po’ su cosa spinge spesso chi lavora con le persone e, in particolare, con famiglie o affetti di tipo familiare, come nelle situazioni di affido, a usare questo termine con la determinazione di esser nella “verità” quando viene tagliato ogni tipo di rapporto.

Forse il termine è usato nel suo significato chimico: il bambino e i genitori d’origine gli affidatari non sono “miscibili” e dunque farli stare lontani serve a farli separare? Oppure la famiglia che ha avuto con quel bambino delle difficoltà o che, per particolari problemi, non lo ha potuto tenere è solo una sovrastruttura, un elemento estraneo di cui quindi bisogna liberarlo?

A volte e anche di frequente sembra proprio che l’idea sottostante possa essere questa, una idea però che sembra considerare, anche se in modo inconsapevole, il bambino o gli individui di una famiglia come elementi chimici sui quali si possano fare, con successo, operazioni “chimiche”. Forse sarebbe il desiderio di tutti, in chimica gli “elementi” non soffrono, si possono spostare, unire, separare, mescolare, dividere e si hanno sempre risultati prevedibili e “indolori”. Fra le persone, e ancora di più fra gli adulti e i bambini non è così. Fra loro passa una corrente, l’affetto, che chimica non è, diventa un legame, un filo invisibile ma robusto che collega gli individui e li tiene uniti. Fra gli adulti e i bambini affidati alle loro cure poi, questo legame ha una importanza e un peso particolare perché affonda le sue origini e la sua ragione addirittura nello sviluppo della specie.

Fin dalla metà del secolo scorso sono stati fatti numerosi studi sul significato dei legami fra individui e sugli effetti patologici della loro mancanza o distruzione. Lorenz, con la sua teoria dell’imprinting, ha messo in luce fra i mammiferi quello che gli studi di Bowlby sull’attaccamento hanno scoperto fra gli uomini: gli intensi legami fra adulto e bambino hanno un profondo significato per uno sviluppo adeguato dei piccoli.

Egli dice esplicitamente “Le figure verso le quali esso ( l’attaccamento) è diretto sono figure amate… la minaccia di perderle crea angoscia e una vera e propria disperazione” (1). Ma questo attaccamento, legame di intensità e profondità speciali, non si sviluppa con chiunque ma solo con la persona che con continuitàsi occupa di lui, soddisfa i suoi bisogni ma soprattutto risponde ai suoi segnali, gli offre “calore” e svolge per lui una funzione di filtro e di “traduttore” di tutte le esperienze emotive altrimenti violentemente incomprensibili. Dunque principalmente con la madre o con chi svolge questa funzione, dunque sicuramente anche con madri affidatarie.

La forza di questo legame si attenua durante la crescita ma dura fino all’adolescenza ed oltre e, se ben costruita e sviluppata, costituisce la base della sicurezza e maturità affettiva della vita adulta. I legami perciò, e specialmente i legami affettivi, quello con la figura materna in modo particolare, sono dunque le nostre radici e come le radici tengono in piedi l’albero e lo ancorano al suo terreno, ne permettono l’alimentazione e la vita, così i legami affettivi e familiari ancorano il bambino a un ambiente e lo aiutano a costruire dei riferimenti stabili che gli permettono di conoscere ed imparare, quindi di vivere.

Su questo si basa l’utilità delle esperienze di affido che permettono di sostituire, ove mancante, e integrare, ove carente, questo fondamentale rapporto con una figura materna e/o una famiglia sostitutiva, possibile fonte di attaccamenti secondari.

Ma se svolge o integra questo legame fondamentale allora anche il rapporto di affido diventa un legame profondo e vitale, legato alla crescita sana dell’individuo che ne è al centro e va dunque trattato con molta cautela e capacità di capire cosa vi succede. Non può perciò diventare, come dicevo all’inizio, qualcosa che si può creare o tagliare senza conseguenze quando le circostanze ci sembrano richiederlo.

Può capitare per mille circostanze della vita che i bambini e i “genitori” non possano continuare insieme la loro strada, ma si deve sempre tenere molto in considerazione il legame che si è creato fra loro aiutando entrambi a mantenerlo il più possibile nelle forme e nei modi possibili e utili al bambino.

Troppo spesso chi si trova a gestire questi rapporti, intuendone la complessità e la profondità ma non potendo usufruire di una chiara comprensione di ciò che accade, tende a trattarli come “elementi chimici”, basta “tagliare” “far decantare” e tutto si sistema, si purifica. Non solo non è così, ma questi tagli improvvisi, queste rotture senza ragione, oppure, senza che il bambino ne capisca profondamente il motivo, ove questo ci fosse, lasciano solamente un enorme dolore, grandi difficoltà a ritrovare un equilibrio e una sicurezza affettiva e, in più di un caso, addirittura patologie dello sviluppo non sempre riparabili.

E’ vero che non è facile affrontare il dolore di una separazione da chi ha nella nostra vita avuto una presenza, un significato importante, lo sappiamo bene quando, anche in tarda età, vediamo morire un genitore. Ma quando, pur dovendoci separare, rimane un contatto, una possibilità di ritrovarsi, pur saltuariamente, e magari capire insieme e insieme sopportare la difficoltà che si è creata, diventa un modo per crescere e diventare adulti.

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