a cura di Emilia De Rienzo e Costanza Saccoccio
Riportiamo qui di seguito la lettera inviata da due genitori adottivi e la relativa risposta da parte di Emilia De Rienzo.
Rinnoviamo l’invito ai nostri lettori ad intervenire con scritti, proposte, testimonianze di esperienze negative e positive maturate all’interno dell’ambiente scolastico, che possano suscitare dibattito, scambi di idee e approfondimenti.
.. Quando anche i buoni propositi fanno più danni della grandine…
Gentile signora,
Siamo i genitori di due splendidi bimbi di cinque ed otto anni che ci hanno adottati tre anni fa. Vorremmo sottoporLe quanto ci è accaduto di recente, per avere da Lei un parere autorevole.
Nostro figlio più grande frequenta la II classe elementare in un istituto statale della nostra città, e poco tempo fa alcuni genitori della classe hanno deciso di sottoscrivere un progetto di aiuto a distanza di minori in difficoltà. In concreto è stato inviato il denaro raccolto per finanziare un progetto CARITAS in un Paese dell’Est.
Durante la presentazione dell’iniziativa, avvenuta alla presenza di bimbi, genitori ed insegnanti, riuniti per gli auguri natalizi, è stato utilizzato il termine “adozione a distanza” invece del più appropriato “aiuto a distanza”,
Fin qui potrebbe sembrare una banale questione linguistica, ma in realtà nostro figlio, sentendo parlare di bambini abbandonati in istituto, senza genitori, sofferenti per le deprivazioni subite, ha iniziato una personale ed intima rilettura della sua infanzia fino all’età di cinque anni e mezzo, ossia fino alla sua irruzione, assieme alla sorella, nel nostro nucleo famigliare, passato da due a quattro componenti!!
Fortunatamente il suo ritorno al passato è stato condiviso; noi, pur non negando le analogie della sua storia con quella accennata a scuola, abbiamo spostato l’attenzione sull’importanza della meravigliosa svolta che la sua vita aveva preso dopo il decreto del Tribunale dei Minori.
Abbiamo comunque dovuto giocoforza affrontare il dolore ancora presente in nostro figlio, e la domanda straziante sui motivi dell’abbandono della madre naturale.
Non intendiamo polemizzare con chi, di fronte ad un gruppo di bimbi di sette anni non si è posto il problema morale di modulare il linguaggio, se non altro per rispetto degli altrui vissuti, né vorremmo biasimare chi avrebbe potuto (o dovuto), in veste di insegnante, peritarsi di approfondire adeguatamente questi argomenti con i bambini, e che evidentemente non ha ritenuto di farlo.
Vogliamo rimarcare invece che, alle nostre successive obiezioni in merito all’accaduto, ci è stato risposto che l’iniziativa era stata presentata con la terminologia mutuata da quella CARITAS.
Data questa premessa, vorremmo chiedere il suo parere sul perché un’istituzione comee la CARITAS e comunque i mass media, non rimarchino con chiarezza la differenza tra adozione e aiuto a distanza?
Perché, anziché usare uno stile deamicisiano, non si limitano a descrivere con stile più sobrio i progetti di aiuto a distanza? Forse perché pensano che la nostra coscienza per essere scossa dallo stato di torpore egocentrico, necessiti di parole e concetti forti, seppure impropri, per maturare scelte di solidarietà verso chi sta peggio di noi?
Personalmente crediamo che coloro che condividono obiettivi e progetti umanitari non abbiano bisogno di tutto ciò…
Quindi ci viene spontaneo pensare che, essendo abituati oramai ad una generale insensibilità, anche le associazioni che operano in questo settore, siano portate ad utilizzare strategie che scuotano una tale ottusità di cuore, dove un termine equivale ad un altro, ed il cui fine è quello di alimentare, nella migliore delle ipotesi, la pia illusione di avere fatto del bene, con un malcelato perbenismo, e, nella peggiore, di ingenerare sgomento e confusione nei nostri figli.
Lettera firmata
Gentili signori,
Mi sembra pienamente condivisibile l’analisi che avete fatto nella vostra lettera su quello che è capitato a vostro figlio, analisi che io sottoscrivo totalmente. Purtroppo non si tratta mai di “banali questioni linguistiche“, l’uso delle parole non è mai casuale. Le parole hanno una storia, una collocazione nel tempo e acquistano i significati che noi gli diamo. La parola “adozione” non è evidentemente adoperata da tutti nello stesso modo, perché in molti non ha ancora acquisito quel significato e quell’importanza che dovrebbe avere. Mentalità nuove e vecchie si mescolano creando ancora i danni che lei così bene ha illustrato. Per questo io ritengo che siano sempre più importanti le battaglie culturali.
Sono sicuramente apprezzabili i progetti di aiuto a distanza di bambini in difficoltà, ma sono d’accordo con lei che chi li propone dovrebbe essere attento alle parole che usa. Il fatto che si parla quasi sempre di “adozione a distanza” non avviene a caso.
Ho visitato alcuni anni fa una piccola cittadina del Brasile nel paese di Minas, dove un padre salesiano aveva attivato un lavoro in gemellaggio con l’Italia per finanziare uno di questi progetti. Avevo parlato a lungo con lui sull’utilizzo di questo termine perché in un primo momento anche loro ne avevano fatto uso. I motivi erano chiari: la parola “adozione” ha un forte impatto emotivo, fa sentire “genitore” di un bambino anche chi si limita a versare una somma (a volte davvero esigua) di denaro. L’offerta viene abbinata ad un bambino in carne e ossa di cui si mandano fotografie, con cui si avvia molto spesso una corrispondenza, di cui si rendono noti i progressi fatti grazie all’aiuto avuto. Un aiuto a poco costo, ma davvero gratificante. Ma l’uso di questo termine è ingannevole e fuorviante, oltre che molto poco corretto.
Il primo grave effetto è quello di squalificare in questo modo il termine adozione. L’adozione, in quest’ottica, torna ad essere considerata un gesto di carità o di solidarietà: il figlio adottivo è un povero bambino che ha bisogno della beneficenza di altre persone per poter vivere.
La legge sull’adozione, invece, bisogna ribadirlo con forza, ha messo al centro dell’attenzione il bambino come soggetto di diritti e primo diritto fra tutti quello di avere “un proprio spazio nella mente di qualcuno” che sappia accogliere su di sé i suoi sentimenti, che abbia la capacità di trovare delle risposte che siano in sintonia con i suoi bisogni: un diritto quindi che permetta lo sviluppo sano del bambino, di quel particolare bambino. Se chi usa il termine adozione ne riconoscesse il significato fino in fondo, non potrebbe usarlo né per l’’aiuto a distanza, né tanto meno quando si parla di adottare monumenti, cani, musei e quant’altro. Questo prima di tutto per rispetto alle famiglie che fanno questa scelta, per rispetto ai bambini che devono essere e sentirsi considerati “figli” a tutti gli effetti. Ma soprattutto perché l’adozione è un valore aggiunto al concetto di genitorialità in quanto è proprio la legge sull’adozione che ha introdotto una cultura nuova sulla famiglia che oggi può trovare la sua legittimazione non più nel legame di sangue ma nella sua funzione affettiva. In questo senso è giusto dire che tutti dovrebbero “essere figli adottivi”. Nessuno, infatti, può sentirsi veramente genitore solo per aver messo al mondo un bambino, ma lo diventa davvero solo quando questo è al centro delle sue attenzioni.
Nel caso dell’ “adozione a distanza” ci sono anche altri problemi. L’uso che se ne fa è sicuramente, come dicevamo prima, per attirare maggiormente persone che facciano offerte di denaro. Ma non è secondario dove andranno a finire questi contributi. L’adozione è nata e si è diffusa proprio per porre fine all’istituzionalizzazione dei bambini. Proprio nella frase da lei citata c’è un riferimento preoccupante. Lei dice testualmente che suo figlio ha sentito parlare di “bambini abbandonati in istituto, senza genitori, sofferenti per le deprivazioni subite”.
Io credo che non si aiuta molto un bambino se lo si fa vivere in istituto, mi sembra che non abbiamo chiuso (anche se non ancora del tutto) gli istituti nel nostro paese per riaprirli nei paesi più poveri. I bambini sono bambini ovunque, tutti i bambini hanno bisogno di un ambiente caldo e affettuoso dove trascorrere la propria infanzia.
I volontari brasiliani di cui parlavo prima, mi hanno raccontato di essersi resi conto di quanto fosse dannoso questo tipo di logica anche per i bambini che venivano aiutati. Creava in loro false speranze (magari di essere adottati sul serio), creava tra bambini disuguaglianze: alcuni infatti, ricevevano lettere, soldi, altri no, e naturalmente chi veniva escluso era ancora una volta emarginato. Il padre salesiano in questione aveva quindi scritto a chi collaborava con lui per spiegargli la situazione e chi prima collaborava, ha continuato a collaborare: i soldi sono stati utilizzati per costruire un centro dove i bambini trascorressero parte del loro tempo libero dalla scuola, dove potessero imparare a studiare, a lavorare a seconda delle capacità che ognuno aveva, dove potessero, insieme maturare e crescere senza essere tolti dalle loro famiglie che comunque avevano al di là dei disagi materiali, un valore affettivo forte.
Per concludere: certamente dare l’illusione di adottare un bambino anche se a distanza, dà a chi aiuta la sensazione di una maggiore partecipazione e anche di controllo sui soldi che non sempre vanno a buon fine. Ma è la risposta falsa ad un problema vero che dovremmo porci: come far crescere davvero una maggiore solidarietà, ma soprattutto la cultura dei diritti.
Lei mi fa una domanda importante: mi chiede perché mass media e associazioni di volontariato così importanti come la Caritas non hanno una maggiore attenzione e rispetto nei confronti dell’adozione. Nel caso della Caritas le spiegazioni che mi aveva dato padre Giovanni mi sembrano corrette, ma in lui c’è stato un ripensamento perché ha saputo fare autocritica e rileggere in chiave diversa ciò che prima gli era sembrata sulla scia degli altri una buona idea.
Nel caso dei mass-media molto spesso non c’è più la volontà di informarsi prima di scrivere, non c’è più la volontà soprattutto di creare coscienza presi come sono di attirare l’attenzione, piuttosto che informare in modo corretto. Dobbiamo comunque continuare a stupirci, a provare quello stupore che provoca indignazione per muoverci e almeno nel proprio piccolo dobbiamo denunciare queste mancanze, queste disattenzioni, senza scoraggiarsi, senza desistere anche di fronte al fallimento.
Non so se l’abbiate già fatto, ma la vostra lettera andrebbe inviata e sottoscritta da tutti noi alla Caritas e ai giornali, ma anche ai comuni, alle regioni per tutte le altre adozioni che ogni giorno con una fantasia veramente becera si inventano.
Certo che se un bambino adottivo può essere adottato come un monumento, non si deve sentire proprio bene… Meno male che a volte i bambini hanno più risorse di quello che pensiamo e sanno reagire, opportunamente aiutati, all’ottusità di tante persone.
Vi ringrazio per il contributo e la testimonianza che ci avete dato.
Emilia De Rienzo
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