torna all’indice del Bollettino 2 2013

Notiziario dalla Sede nazionale
tratto da Prospettive assistenziali n. 182

INTERVENTO DELL’ANFAA AL SEMINARIO DI STUDI “L’ACCESSO ALLE INFORMAZIONI SULLE ORIGINI: PERCORSI DI ACCOMPAGNAMENTO” 

Si è tenuto il 10 maggio 2013 a Firenze presso l’Istituto degli Innocenti il Seminario di studi dal titolo “L’accesso alle informazioni sulle origini: percorsi di accompagnamento”, in cui l’Anfaa è intervenuta nel corso del dibattito. Pubblichiamo qui di seguito il testo dell’intervento dell’Anfaa, distribuito ai presenti. 

Premessa

Com’è noto la legge 28 marzo 2001 n. 149, “Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile” ha previsto la possibilità per l’adottato ultraventicinquenne (età che può  essere ridotta a 18 «se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica») di «accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici». Il Tribunale per i minorenni può autorizzare l’accesso a tali informazioni a conclusione di una procedura che prevede l’audizione delle persone di cui ritenga opportuno l’ascolto e l’assunzione di tutte le informazioni di carattere sociale e psicologico al fine di valutare che l’accesso alle notizie suddette non comporti grave turbamento all’equilibrio psicofisico del richiedente. Non possono accedervi i figli adottivi non riconosciuti alla nascita per le ragioni su cui torneremo successivamente.

 

I dati sull’accesso all’identità

L’Anfaa, in collaborazione con la rivista Pro­spettive assistenziali, nel mese di marzo 2010 ha effettuato una rilevazione effettuata dalla Dott.ssa Annalisa Simon riguardante le istanze presentate nel biennio 2008-2009 presso i Tribunali per i minorenni del territorio italiano; ad essi sono state richiesti: il numero dei figli adottivi che si sono rivolti al Tribunale per i mi­norenni presentando istanza diretta all’accesso all’identità dei loro genitori biologici (articolo 28, comma 5); il numero delle istanze accolte dai Tribunale per i minorenni a conclusione dell’istruttoria prevista dall’articolo 28, comma 6; il numero delle istanze non accolte in quanto presentate da figli adottivi non riconosciuti alla nascita (articolo 28, comma 7); il numero dei genitori adottivi che hanno richiesto informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici dei loro figli minorenni (articolo 28, comma 4); il numero delle relative istanze accolte del Tribunale per i minorenni. Sono stati 22 su 29 i Tribunali per i minorenni che hanno restituito la scheda di rilevazione compilata. Si può dunque affermare che la percentuale di risposta è alta ed è corrispondente al 75,86% del totale.

I dati raccolti relativi al 2008 sono i seguenti:

– il numero dei figli adottivi che si sono rivolti al Tribunale per i minorenni presentando istanza diretta all’accesso all’identità dei loro genitori biologici sono 223, di cui sono 129 le istanze accolte ai sensi dell’articolo 28, comma 6 legge 184/1983;

– sono 40 le istanze non accolte in quanto presentate da figli adottivi non riconosciuti alla nascita ex articolo 28, comma 7;

– sono solamente 5 i genitori adottivi che, in base all’articolo 28, comma 4, hanno richiesto informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici dei loro figli minorenni di cui 5 sono state accolte.

I dati raccolti relativi al 2009 sono i seguenti:

– sono stati 261 i figli adottivi che si sono rivolti al Tribunale per i minorenni presentando istanza diretta all’accesso all’identità dei loro genitori biologici, le istanze accolte ai sensi dell’articolo 28, comma 6 legge 184/1983 sono state 114;

– sono 51 le istanze non accolte in quanto presentate da figli adottivi non riconosciuti alla nascita ex articolo 28, comma 7;

– sono invece 2 i genitori adottivi che, in base all’articolo 28, comma 4, hanno richiesto informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici dei loro figli minorenni: entrambe sono state accolte.

I risultati confermano l’esiguo numero di richieste (ammontano a circa 140/150mila gli adottati in Italia dal 1967 ad ora). Inoltre la ricerca ha evidenziato l’assenza di una metodologia uniforme da parte dei Tribunali per i minorenni che regoli le delicate fasi di accesso e consegna delle informazioni.

Non sempre i Tribunali per i minorenni tengono in considerazione l’importanza che potrebbe assumere l’accompagnamento e la mediazione, accanto al ruolo dei giudici, di altri professionisti (come assistenti sociali, sociologi, psicologi, ecc.) in questa delicata fase, in considerazione della portata emotiva che tali informazioni rappresentano per la vita presente e futura del richiedente e dei suoi familiari.

Vanno anche considerate le ricadute negative sull’adottato adulto derivanti da comportamenti, anche persecutori, che i genitori d’origine dopo il rintraccio e la reciproca conoscenza possono attivare nei suoi confronti, come purtroppo è già successo.

Ricordiamo inoltre che l’articolo 28 prevede l’accesso dell’adottato adulto unicamente alle «informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici». Niente di più dovrebbe essere rivelato dai Tribunali per i minorenni, ma molto di più invece viene segnalato attraverso un’interpretazione estremamente estensiva di tale disposizione! Ad esempio, non è corretto a nostro parere che alcuni Tribunali permettano all’adottato la lettura dell’intero fascicolo relativo alla propria adozione, che contiene quindi dei dati riguardanti altri familiari, operatori, ecc… che hanno seguito la sua situazione, violando il diritto alla privacy degli stessi.

L’Anfaa ha da sempre sostenuto la necessità che i figli adottivi fossero tempestivamente e adeguatamente informati dai genitori sulla loro situazione adottiva e sulla loro storia personale.

Il figlio adottivo è portatore di un vissuto pregresso, a volte doloroso, che non deve essere minimizzato o ignorato, ma raccontato e spiegato, in termini comprensibili rispetto alla maturità psicologica del singolo soggetto.

Se un figlio si sente accettato per quello che è, con la sua storia e i suoi ricordi, verosimilmente sarà più disponibile ad esprimere liberamente le ansie e le frustrazioni legate al proprio passato, accogliendo con fiducia l’aiuto e il sostegno che i genitori adottivi potranno offrirgli.

La verità negata o comunicata con eccessivo ritardo può incrinare irreversibilmente il patto fiduciario stipulato tra l’adulto e il bambino, con conseguenze non sempre prevedibili.

In altre parole, un genitore adottivo reticente o timoroso, può dare l’impressione di non aver assunto il proprio ruolo con convinzione e di vivere l’adozione come una soluzione di ripiego, rispetto ad un rapporto biologico inconsciamente preferito.

Non a caso, la richiesta di conoscere le proprie origini biologiche viene avanzata frequentemente da parte di quei figli adottivi che non sono stati tempestivamente o correttamente informati (e cioè a partire dalle prime domande: «Dov’ero prima di nascere?», «Da dove sono venuto?»). Costoro infatti, delusi dalle reticenze o dalle bugie dei genitori adottivi, nel tentativo di riscrivere la loro storia, sperano di instaurare un nuovo legame con coloro che li hanno procreati, illudendosi di trovare affetto e sicurezza e trovando invece molto spesso persone estranee e problematiche, certamente inadeguate a rispondere ai loro bisogni e a stabilire alcun valido rapporto.

Questi viaggi verso l’ignoto rischiano non solo di non dare alcuna positiva risposta agli interrogativi più profondi dei figli adottivi, ma di porli di fronte a situazioni pregiudizievoli che possono condizionare pesantemente la loro vita futura.

La storia di ognuno di noi, compresa quella dei figli adottivi, non si può riscrivere, va accettata e non si deve confondere il diritto all’informazione sulla propria condizione di adottato e alla conoscenza alla propria storia (la cosiddetta «verità narrabile») con la conoscenza dell’identità dei genitori biologici.

Se si assume che il cosiddetto “legame di sangue” deve sempre prevalere, perché gli si attribuisce una forza maggiore rispetto alla reale esperienza del rapporto tra genitore e figlio, se ne deduce l’inevitabile delegittimazione della famiglia adottiva la quale, sulla base di tali premesse, non può che assumere la mera fun-
zione di sostituto minore di quella comunque ritenuta legittima; l’adozione legittimante, allora, sarebbe tale solo sul piano formale non certo sostanziale.

 

Preservare e tutelare il diritto alla segretezza del parto e garantire l’assistenza delle gestanti e madri in gravi difficoltà

Com’è noto, il comma 7 dell’articolo 28 esclude dall’accesso i figli non riconosciuti alla nascita dalla partoriente che si è avvalsa del diritto alla segretezza del parto.

Abbiamo letto con moltissima preoccupazione la sentenza della Corte europea dei Diritti del­l’Uomo (1) che si è pronunciata a favore della richiesta di accesso all’identità della partoriente da parte di una donna, non riconosciuta alla nascita, successivamente affiliata. In merito il Governo italiano ha presentato ricorso alla Grande Chambre sostenendo che solo la ga­ranzia di un parto anonimo può indurre una donna a rivolgersi ad una struttura pubblica per portare a termine una gravidanza indesiderata evitando soluzioni più drammatiche quali l’aborto clandestino, l’abbandono nel cassonetto o, ad­dirittura, l’infanticidio. La richiesta di riesame è purtroppo stata respinta in data 18 marzo 2013.

L’Anfaa difende la validità e l’eticità della attuale normativa che assicura la garanzia del segreto del parto, in quanto la stessa è stata ed è la condizione, sine qua non, che ha consentito ogni anno a circa 400/500 bambini non riconosciuti di nascere e di essere inseriti dopo pochi giorni presso famiglie che, espletate le procedure previste dalla legge, li hanno adottati rendendoli loro figli a tutti gli effetti (2).

Se venissero modificate queste disposizioni, le donne che non intendono riconoscere i loro nati, non avendo più fiducia nell’assoluta riservatezza delle strutture sanitarie, potrebbero orientarsi verso i parti “fai da te”, senza alcuna garanzia di tutela sanitaria, con evidenti pericoli per la loro salute e per quella dei neonati.

Un’altra conseguenza potrebbe essere quella della scelta del cassonetto in cui gettare il bambino e perfino l’infanticidio: si verificherebbe un aumento del ricorso all’aborto anche da parte delle donne che attualmente non compiono questa scelta per motivi etici.

Vogliamo anche in questa occasione ribadire la validità della proposta di legge n. 3303 presen­tata alla Camera dei Deputati dall’on. Lucà ed altri (3) nella passata legislatura e assunta come testo base dalla Commissione affari sociali.

Essa prevedeva giustamente che siano le Regioni, in attuazione a quanto previsto dall’articolo 8, comma 5 della legge n. 328/2000, ad individuare alcuni Comuni singoli o associati cui attribuire le competenze relative agli interventi socio-sanitari nei confronti di queste gestanti, interventi che devono essere forniti su semplice richiesta dell’interessata, indipendentemente dalla sua residenza anagrafica, quindi anche alle donne extracomunitarie senza permesso di soggiorno, che attualmente sono state escluse da ogni prestazione di carattere socio-assistenzia-
le (4).

L’Anfaa ha avuto rassicurazioni da parte di alcuni parlamentari sulla ripresentazione in questa legislatura di un testo analogo. In base alle esperienze va sottolineato che è importante offrire alla gestante la possibilità anticipata di riflettere, di verificarsi e di decidere con serenità ed autonomia, ma con le informazioni necessarie sugli aiuti cui ha diritto sia se decide di diventare la mamma del proprio piccolo, sia se decide di partorire in anonimato.

La riservatezza è un elemento fondamentale da tutelare per garantire la vita stessa del nascituro e per rassicurare le donne interessate sul loro effettivo diritto alla segretezza del parto. Questa riservatezza viene a mancare se la gestante, che è ancora incerta o che ha già deciso di non riconoscere il proprio nato, è costretta a rivolgersi ai servizi del proprio territorio, dove potrebbe essere riconosciuta (pensiamo ai piccoli Comuni…).

 

No all’adozione prenatale

È inaccettabile qualsiasi forma di pre-adozione del nascituro durante la gestazione, peraltro vietata anche dalla Convenzione de L’Aja in materia di cooperazione e adozione internazionale, riproposta anche dalla recente petizione dell’Asso­ciazione amici dei bambini: in virtù del superiore interesse del bambino, la partoriente deve poter avere diritto di decidere se riconoscere o meno il bambino solo dopo la sua nascita.

Va anche rilevato che in Italia non è giustamente attribuito ai genitori, compresi quelli legittimi, il diritto (che di fatto può cadere molto facilmente in un arbitrio) di cedere il loro nato. Tuttavia anche queste donne devono avere la possibilità di essere seguite dai servizi sia per quanto riguarda le loro esigenze sanitarie, sia in merito agli approfondimenti occorrenti affinché la decisione relativa al riconoscimento o meno sia assunta con la massima consapevolezza possibile (5).

Inoltre è evidente che l’adozione “in pancia” favorirebbe il traffico di neonati e, come già segnalato dai mezzi di informazione, bande criminali utilizzano partorienti in difficoltà per realizzare i lauti guadagni con quanti vogliono un figlio a tutti i costi.

 

 

(1) Corte europea dei Diritti dell’Uomo, Sentenza del 25 settembre 2012, Godelli c. Italia (ricorso n. 33783/09).

(2) Gli unici dati disponibili sul fenomeno dei bambini non riconosciuti alla nascita sono quelli forniti dal Dipartimento della giustizia minorile sulle adozioni: al 31 dicembre 2011, su 1.251 minori dichiarati adottabili, erano 359 quelli “con genitori ignoti”.

(3) Questa proposta dava attuazione ad una precisa Raccomandazione contenuta nel 2° Rapporto supplementare del Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza alle Nazioni Unite sul monitoraggio della Convenzione sui Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, pubblicato nel novembre 2009, in cui il Gruppo di lavoro, costituito da oltre ottanta organizzazioni e coordinato da Save the Children Italia. Essa raccomandava al Parlamento «di approvare una legge che, in attuazione dell’articolo 8 comma 5 della legge 328/2000, preveda la realizzazione da parte delle Regioni di almeno uno o più servizi altamente specializzati, gestiti dagli enti gestori delle prestazioni socioassistenziali in grado di fornire alla gestanti, indipendentemente dalla loro residenza anagrafica e cittadinanza, le prestazioni necessarie e i supporti perché possano assumere consapevolmente e libere da condizionamenti sociali e/o familiari le decisioni circa il riconoscimento o il non riconoscimento dei loro nati».

(4) Vedi al riguardo, la sintesi dei lavori al Convegno nazionale “Mai più sole: le esigenze e i diritti delle gestanti e madri con gravi difficoltà personali e familiari e dei loro nati. La prevenzione degli abbandoni e degli infanticidi”, tenutosi a Roma, Palazzo Marini, l’11 ottobre 2011, pubblicato sulla rivista Il diritto di famiglia e delle persone, volume XLI, luglio-settembre 2012.

(5) Come richiamato nel Rapporto Crc 2009 precedentemente citato, la legge in vigore in Italia disciplina la materia attribuendo alcuni importanti diritti alla donna, e tutelando anche il minore:

  1. a) diritto della partoriente di riconoscere o meno il neonato come figlio, diritto che vale sia per la donna che ha un bambino fuori dal matrimonio che per la donna coniugata;
  2. b) il diritto alla segretezza del parto (che va preservato per 100 anni: nei casi in cui il neonato non venga riconosciuto, nell’atto di nascita del bambino, che deve essere redatto entro dieci giorni dal parto, risulta iscritto come: “figlio di donna che non consente di essere nominata”. L’ufficiale di stato civile, a seguito della dichiarazione del personale sanitario che ha assistito al parto, attribuisce al suddetto neonato un nome ed un cognome, procede alla formazione dell’atto di nascita e alla segnalazione alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni per la dichiarazione del suo stato di adottabilità; con la pronuncia dell’adozione il minore (dopo un anno di affidamento preadottivo) assume il cognome degli adottanti di cui diventa figlio legittimo; cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvo i divieti matrimoniali;

c) il diritto della partoriente a chiedere al Tribunale per i minorenni la sospensione della dichiarazione della stato di adottabilità, per un periodo massimo di due mesi, per decidere in merito al riconoscimento del neonato; infatti l’articolo 11, comma 2 della legge 184/1983 stabilisce che tale sospensione può essere richiesta da chi afferma di essere uno dei genitori biologici «sempre che nel frattempo il bambino sia assistito dal soggetto di cui sopra o dai suoi parenti fino al quarto grado permanendo comunque un rapporto con il genitore naturale». Se il neonato non può essere riconosciuto perché il o i genitori hanno meno di 16 anni, l’adottabilità può essere rinviata anche d’ufficio. dal Tribunale per i Minorenni fino al compimento dell’età di cui sopra. Un’ulteriore sospensione di due mesi può essere concessa al compimento del sedicesimo anno di età.