Ci stanno lavorando Emilia De Rienzo, Maria Gulisano, Costanza Saccoccio, Grazia Liprandi, Annarita Verzola, Marta Peradotto, Alessia Ponchia, Claudia De Figueredo
Filastrocca delle maestre
Maestra, insegnami il fiore e il frutto
– Col tempo, ti insegnerò tutto
– Insegnami fino al profondo dei mari
– Ti insegno fin dove tu impari
– Insegnami il cielo, più su che si può
– Ti insegno fin dove io so
– E dove non sai?
– Da lì andiamo insieme,
maestra e scolaro, un albero e un seme
insegno e imparo, insieme perché
io insegno se imparo con te
(Bruno Tognolini, scrittore per l’infanzia e autore di Albero Azzurro e di Melevisione)
Annarita Verzola
A me chi ci pensa?
Alla fine di un anno scolastico, durante la festa di fine anno della scuola media, i ragazzi si scambiano indirizzi, foto, email. Daniel se ne sta appartato e, pur essendo un ragazzo a cui piace stare in mezzo agli altri, tace e si guarda intorno smarrito. Se qualcuno lo sollecita a partecipare, caccia tutti in malo modo. Noto il suo sguardo triste e gli vado vicino. Cosa ti preoccupa, gli chiedo. La prima risposta è “niente, niente”, insisto e allora si apre: “E’ che la scuola sta per finire. Fino ad oggi c’era lei che mi seguiva, adesso chi pensa a me?”
Tutti i bambini, tutti i ragazzi, anche quelli più difficili, con una storia alle spalle problematica, entrando a scuola dovrebbero sentire che quel posto è un posto speciale. Anche chi si sente a volte triste, arrabbiato, solo, senza spesso neanche capire fino in fondo perché, trova un luogo caldo e persone disponibili ad ascoltarlo, ad ascoltare non solo quello che sa, ma anche quello che sente
Capisco che Daniel, se nel nuovo anno nessuno lo accosterà e saprà cercare con lui un percorso, diventerà uno di quei ragazzi di cui parlano ultimamente i dati Istat.
Questi dati (rapporto del 2011) ci raccontano che oltre 2 milioni di giovani italiani tra i quindici e ventinove anni non lavorano, non studiano, non hanno formazione.
Il 18, 8% abbandona gli studi subito dopo gli anni dell’obbligo e a vent’anni, quando si entra nell’età adulta, si ritrova sperduta senza nulla in mano.
Un dato questo che in un anno è salito di 130 mila unità. Questo ci dice che la situazione non sta migliorando, ma peggiorando.
Tanti di questi ragazzi hanno “tolto il disturbo” perché non sentivano la scuola come un luogo che avesse qualcosa anche per loro, la percepivano come inutile, faticosa, noiosa, staccata dalla realtà.
Va bene così? Può uno stato democratico abbandonare a se stessi tanti giovani?
Tempi bui allora per la scuola, e per tanti giovani, ma Hanna Arendt riteneva che “l’oscurità della mente fosse la più chiara indicazione del bisogno e della necessità di esaminare daccapo le cose, di esaminare daccapo il significato della responsabilità umana e del giudizio umano”.
Crediamo che sia oggi veramente importante “ripensare la scuola” partendo da una stella polare che ci deve dare l’orizzonte e la guida: costruire una società democratica, far diventare la democrazia il fondamento di ogni ragionamento pedagogico.
E’ forse un compito difficile. Ma questa stella polare può forse non solo suggerire strade per recuperare chi è fuori, ma anche migliorare il modo di stare “dentro” la scuola.
Di questo dobbiamo parlare non solo come insegnanti, studenti, genitori, ma come cittadini che vogliono costruire davvero una società democratica. Perché la democrazia prenda forma deve legarsi alla vita di tutti i giorni, deve guidare il nostro pensiero e le nostre azioni e deve dimostrare che produce vantaggi.
Secondo Zagrebelsky, “la democrazia è sempre a rischio”, per questo ognuno deve essere capace di “assumere nella propria condotta la democrazia come ideale, come virtù da onorare e tradurre in pratica”. Una pratica che, secondo lo studioso, deve svilupparsi “a partire proprio dalle istituzioni scolastiche oggi carenti sotto questo aspetto, poiché improntate all’astrattezza dell’apprendimento che genera distacco e disillusione verso il mondo, produce rinuncia e disprezzo e invita all’individualismo chiuso in se stesso”.
La scuola non deve diventare come dice Bobbio “una promessa non mantenuta” della democrazia.
Su queste tematiche vogliamo
raccontare esperienze, avviare riflessioni, fare proposte
Invitiamo chi lo desidera a partecipare, anche in vista di un Convegno Nazionale che si terrà nel marzo 2012 a Reggio Emilia.
Emilia De Rienzo
La scuola è un luogo importante che merita tutta la nostra attenzione e il nostro pensiero creativo. Dobbiamo avere il coraggio, però, di ripensarla insieme.
Scuola alla deriva. Proposte ai naviganti
La scuola pubblica? Una nave alla deriva, in balia dei venti. L’ultima sferzata la dà in questi giorni il silenzio del Ministero sui fondi per il comodato gratuito dei libri da destinare agli studenti indigenti della scuola dell’obbligo. I soldi non arrivano, né trovano risposta le richieste delle Regioni e dei Comuni sull’argomento. Nel solo capoluogo piemontese sono 12 mila i nuclei familiari che contano su questo contributo: “Quello del Governo è un comportamento sadico – ha commentato l’assessore alle Risorse educative del comune di Torino, intervistata dal quotidiano La Repubblica – siamo ad ottobre e non sappiamo dire quando arriveranno questi quattrini”. Quando la nave sta affondando, che si fa? Qualcuno aspetta rinforzi guardando la nebbia all’orizzonte. Qualcun altro si organizza. Reggio Calabria, ad esempio, a suo rischio e pericolo, ha stipulato un protocollo d’intesa con le agenzie librarie e le librerie, al fine di garantire la regolare e tempestiva distribuzione dei libri per l’anno scolastico 2011-2012. Gli stessi fornitori che soddisfano le richieste pervenute e la consegna dei testi alle famiglie beneficiarie, possono emettere regolare fattura che il Comune provvederà a liquidare subito dopo l’accreditamento delle somme da parte del Ministero. Anche altre Regioni inventano soluzioni per non affondare: la Toscana integra i fondi statali per aumentare in modo significativo le risorse per 2.000 studenti. La provincia di Prato stanzia 20 mila euro per offrire a più di 150 ragazzi l’opportunità di studiare su libri nuovi, avendone la massima cura, e restituendoli una volta finita la scuola. Insomma, oggi bisogna avere delle belle idee per tenere in piedi ciò in cui crediamo: il diritto all’istruzione per tutti. E allora permettetemi di riportare alla luce una domanda che ha più di quarant’anni e ha suggerito scelte che ancora oggi sono innovative: signori del Ministero, egregi Dirigenti e Insegnanti di ogni ordine e grado, siete davvero convinti che si debba continuare a mettere in atto la formula di un unico libro di testo in 25-30 copie uguali per classe, sui quali gli allievi devono imparare la medesima lezione scritta da una sola fonte di sapere? La conoscenza non si basa sul confronto di concetti tratti da fonti diverse che, intrecciati all’esperienza personale, interrogano la mente e la costringono ad una sintesi complessa che tiene conto di tanti punti di vista? Oppure – ma qualcuno lo dichiari pubblicamente – la scuola è finalizzata ad avere un solo unico pensiero: l’altro ieri fascista, ieri liberal-confuso, oggi al servizio della “dittatura economica”? Sulla nave che affonda ci sono esperienze diversissime: insegnanti che in questi giorni di inizio anno scolastico dicono ai ragazzi: “inizieremo a lavorare quando tutti avranno il libro, sennò perdiamo tempo” e altri (per fortuna ce ne sono altri!) che si oppongono a questa modalità e attuano una sperimentazione (prevista dall’articolo 6 del DPR 275/99 citato nell’articolo 156 del DLGS 297/94), la scelta alternativa ai libri di testo, ovvero l’acquisto di testi disparati, narrativi, manuali, sussidi audiovisivi, ecc. (il cui costo complessivo deve essere equivalente alla somma delle cedole librarie – per la scuola primaria – e non può eccedere il prezzo massimo complessivo della dotazione libraria per ciascun anno di corso della secondaria di primo grado). È chiara la differenza. In queste classi si crea una biblioteca che dà la possibilità agli studenti di approfondire letture diverse sullo stesso argomento; i ragazzi non sono vincolati a ripetere il contenuto di una pagina specifica, ma invitati al pensiero critico, perché possono confrontare vari punti di vista, raccolti su testi differenti. Nel caso specifico della mancanza dei fondi per il comodato gratuito, mentre si scatena la protesta (giusta!) delle Associazioni genitori e l’indignazione dei Comuni nei confronti del Ministero, gli allievi delle classi “sperimentali” non perdono tempo, perché a scuola la curiosità è già stata stimolata e la biblioteca è già a disposizione (se non con i nuovi acquisti, almeno con i libri degli anni precedenti, anche se in un’edizione vecchia. Gli spazi per fare questa scelta ci sono, ma bisogna essere dinamici: le scuole devono fare una delibera che preceda la proposta di adozione, anche nella stessa seduta del Consiglio di Interclasse, e sia approvata dal Collegio dei docenti prima della delibera dell’adozione dei libri di testo. Certo, è una fatica. La “resistenza” non è mai una strada facile. Quanti anni sono passati da quando don Milani si adirava per le medesime cose e metteva in atto alternative secondo un’idea chiara di Scuola che aveva in testa? E la nostra idea di Scuola qual è? Ecco il punto. Come affronta il mare battuto dai venti una nave senza una rotta precisa.
Grazia Liprandi responsabile del gruppo scuola del Gruppo Abele
Articolo pubblicato su www.gruppoabele.org nella rubrica “Gli Analfabeti”
La mia vita divisa in due
I ragazzi quando si sentono in un clima accogliente, parlano di loro, ci raccontano il loro disagio, le loro paure, le loro gioie, i loro sogni e le loro speranze. E’ importante che sappiano che qualcuno sia lì per loro, per ascoltarli senza giudizi nè tanto meno pregiudizi.
Maria ha raccolto questa preziosa testimonianza. E’ un ragazzo peruviano di dodici anni a scrivere. Da un anno vive in Italia con la mamma che è venuta a lavorare in Italia. Questo ragazzo scrive della sua tristezza, una tristezza che comunica alla sua insegnante con cui la vuole condividere. Questa, dice Maria, una è richiesta implicita di aiuto che bisogna non cada nel vuoto.
“La tristezza è un sentimento che tutte le persone soffrono, capita a tutti perché fa parte della vita, puoi provarla per qualcosa che tu desideravi nella vita e non l’hai avuta.
Io ho sofferto tanta tristezza che non riuscivo più a sopportarla.
Mi sono sentito triste quando ho lasciato il mio paese e ho lasciato tutti quelli che mi volevano bene. Sono andato via dalla scuola e sono venuto in Italia. Mia sorella, che è rimasta in Perù, mi racconta che i miei compagni mi dicono di non dimenticarmi di loro, ho lasciato tutti tristi e anche io sono arrivato qui triste. La mia vita mi sembra divisa in due.
“La mia vita purtroppo non è nemmeno il 10% di allegria, mi dispiace che la mia allegria non sia con tutti i miei famigliari e di non dividere ogni momento come facevamo quando io ero ancora piccolo e non riesco a pensare che la mia vita debba finirla qua in Italia e non nel mio paese. A volte l’allegria si diffonde se soltanto possiamo telefonarci. Ma è veramente poca. Cresco, cresco e ogni giorno perdo un po’ della mia vita.La felicità sta andando in giù a scuola, nel mio paese non c’era nessun problema, tutti mi volevano bene e io ero importante per loro ed ero anche bravo.
Ora non è più così. Ci sono insegnanti che mi aiutano, ma altri no. Altri non hanno pazienza, mi danno note continuamente. E allora sono sempre in punizione. Specialmente una professoressa mi mette note e con lei sono rimasto arrabbiato e non le parlo più come facevo. Mi chiedo ancora se quella professoressa ha un cuore, se non ha mai un momento triste e perché non capisce le mie difficoltà. E oltre le note ci sono le verifiche a sorpresa che poi chiama noi, che sbagliamo, asini e incapaci. Se la professoressa fa queste cose è perché non ha pazienza, ma perchè le professoresse non hanno pazienza? la scuola è per insegnare non per trattare male. La mia tristezza era così troppa che volevo cambiare scuola, solo che con i miei compagni ho creato un rapporto migliore e non voglio lasciare anche loro”.
Maria Gulisano
Prima del dialogo l’ascolto
In una scuola che sappia fare della democrazia la sua pedagogia è fondamentale come abbiamo già detto in altri post che ci sia dialogo. Ma non esiste dialogo, dove non ci sia ascolto.
L’ascolto ha luogo in uno spazio inter-soggettivo: qualcuno chiede di essere ascoltato e si aspetta l’attenzione dell’altro. Si rivolge all’altro non in modo casuale, ma perché si aspetta qualcosa da lui. Sente che proprio quella persona e non un’ altra possa aprirsi non solo alle sue parole.
Ma il fatto che qualcuno desideri essere ascoltato non significa necessariamente che riesca a comunicare quello che vuole dire con le parole.
Più un bambino ha sofferto, meno saprà raccontarsi, esprimere il proprio dolore con le parole, nè lo potrà fare un bamino o un ragazzo che non padroneggia tutte le sfumature di una lingua.
Dice Simone Weil che, in generale, il pensiero della sofferenza non è discorsivo, non si costituisce in unità logiche e rigorose di significato, ma si smarrisce «come una mosca che corre sempre contro un vetro» che vuole uscire, ma che non trova il modo.
E’ per questo che per metterci in ascolto dobbiamo saper fare silenzio dentro di noi, far tacere le tante parole che giudicano, che stigmatizzano, che interpretano, che a tutti i costi vogliono trovare soluzioni veloci. Le parole che presumono di aver già capito senza prima di aver affiancato, condiviso, amato. Solo da questo silenzio può nascere l’ascolto, un silenzio che è spazio, apertura all’altro. Un silenzio, per dirla con la Weil, che ci «permette di cogliere verità che altrimenti resterebbero celate per sempre». Solo allora capiremo che ascoltare non è solo porgere l’orecchio ma aprirci al mondo che ci circonda.
Pierre Sansot parla di «interiorità creativa» e con questo termine indica «quello spazio di accoglienza in cui le parole dell’altro potranno trovare rifugio» .
E’ quello che ha saputo fare Maria e Marta che nel pezzo che segue ci parla di un bambino che nella sua attenzione ha trovato rifugio.
Ascoltare vuol dire percepire anche ciò che non viene detto, che è ancora nascosto nelle pieghe dell’anima e fa fatica ad emergere.
Non sempre si riesce ad entrare nel mondo dell’altro, a volte ne rimaniamo ai margini in un ascolto che è attesa di qualche apertura. A volte qualche apertura c’è, ma possiamo subito dopo ritrovare la porta chiusa. È importante rendersi presenti e attenti. Non bisogna soprattutto cercare nulla di preordinato, di prefigurato, di risaputo.
Può essere, invece, un silenzio di attesa: non si trovano le parole, ma si vuole entrare in contatto. Allora è il corpo che parla: gli sguardi, i movimenti delle mani, la postura, la rigidità o la rilassatezza dei muscoli. I gesti non hanno bisogno di parole e a volte sono più determinanti nello stabilire una relazione.
Non bisogna aver fretta di capire, né di essere capito. Ascoltare è conoscere la pazienza, la lentezza, imparare a convivere anche col silenzio che è esso stesso linguaggio e come tale può esprimere diversi significati. Come dice Marta in uno dei suoi commenti: “Certo F. mi ha richiesto tempo, tento tempo e con lui molti dei suoi compagni, ma è un tempo che non si conta in ore e minuti bensì in attenzione e investimento affettivo”
Io penso che la comunicazione cominci proprio dalla capacità di accogliere il silenzio, la parola balbettata, quello che ancora il bambino non è in grado di dire, ma che sente. Comincia dove c’è attenzione, interesse, in quel silenzio che è apertura.
L’ascolto inizia quando l’altro sa di potersi fidare di te. E la fiducia bisogna guadagnarsela. Ma di fiducia parleremo un’altra volta
Emilia De Rienzo
Formiche
“A te bambino
Al tuo urlo “animale”
Al tuo cuoricino che batte forte
Mentre tra le braccia serro la tua rabbia
Fino a vedere sparire le pieghe dal tuo viso
Fino a che ricominciano a splendere
I tuoi spauriti occhi a mandorla”
Questa storia comincia dalla fine. Comincia da un caldo pomeriggio di metà giugno, ultimo giorno di scuola. Stanchi ed eccitati, bambini ed insegnanti si accalcano al portone per uscire e festeggiare l’atteso arrivo dell’estate. Noi siamo in cortile, raccogliamo la bottiglia di coca-cola e le patatine che F. ha lanciato dalla finestra del secondo piano per sfamare le formiche a cui aveva dato la libertà. Raccogliamo le patatine una ad una come se potessimo così allungare il tempo che ci resta,fermarlo un po’, il tempo di una patatina,ancora una briciola, che non resti traccia dell’ingenua follia di un bambino, dell’amore gettato dalla finestra. Per mesi, ogni giorno lui ha riempito di cura ed attenzioni ognuna delle sue formiche, nutrendole, osservandole, parlando loro, dissetandole con un contagocce. Quei piccoli esserini non avrebbero mai potuto tradire la sua fiducia, deluderlo, ingannarlo e quello che non aveva ricevuto, F. dava. Formiche. Come tutti gli insetti le formiche hanno sei zampe e il loro corpo è diviso in tre parti: capo, torace e addome; sul capo è presente un paio di antenne piegate a gomito che sono il principale organo di senso per le formiche. Hanno delle mandibole molto resistenti e robuste che servono come difesa e per trasportare gli oggetti.
Le formiche mi hanno confermato un giorno ciò che già da tempo sospettavo: F. sapeva leggere. Leggeva ma pensava che l’autonomia nella letto scrittura gli avrebbe portato via anche quel poco di affetto che mai si nega a chi manca appunto di indipendenza, a chi appare incapace di fare da solo. E F. faceva, ogni secondo ogni singola cellula del suo cervello e del suo corpo era presa da un’incessante attività, ma era quel “da solo” che gli faceva male. Perché da solo F. lo era da sempre e ora che l’estate stava cominciando timidamente a farsi sentire e nell’aria satura della classe volavano parole di mare, discorsi di vacanze, lui la sentiva tutta quella solitudine, quel vuoto dentro, quella voglia di posarsi, quella voglia che un bambino non dovrebbe mai avere. E a volte mi viene da chiedermi se, anche solo per una frazione di secondo, quel giorno ha pensato di accompagnare le sue formiche in quell’ultimo folle volo. “Le ho dato la libertà, maestra!” mi ha detto euforico mentre tutti pensavamo a chi affidare durante l’estate quegli insettini che avevano cambiato l’umore e la motivazione del nostro F. negli ultimi mesi. Nessuno le avrebbe più sfamate e osservate giorno dopo giorno, nessuno le avrebbe più investite di cure ed affetto. Ma lui aveva pensato anche a questo e con loro erano volate anche una bottiglia di coca e un sacchetto di patatine. Qualcuno avrebbe fatto lo stesso con lui? Gli avevo lasciato coca cola e patatine per affrontare da solo la lunga estate che lo aspettava o avevo ingenuamente sperato che l’impegno messoci durante quei nove mesi di scuola sarebbe stato sufficiente a dissetare la sua curiosità, a sfamare il suo bisogno di amore? L’anno dopo nuova scuola, nuovi colleghi, nuovi bambini, nuove gioie e nuovi dolori. Il nostro mondo precario in tutto non ha tempo per le formiche, le schiaccia. Niente continuità, nessun legame. Ora F. ha cambiato città e io ancora non ho trovato una risposta alla mia domanda. Ma non ci siamo dimenticati. Marta Peradotto
Nessuno dovrebbe mai sentirsi solo
Si fa un gran parlare di “bullismo”, di come combatterlo, di cosa fare. Ne parliamo come se “i bulli” appartenessero ad un altro pianeta, marziani che hanno invaso la terra e da cui dobbiamo liberarci. Li osserviamo a distanza come se fossero un fenomeno da studiare per poi scriverci qualche bel libro sopra o fare qualche convegno. Alla fine diventa un altro modo per guadagnare (perché i convegni costano e i relatori sono spesso molto ben pagati), quando alcuni piccoli gesti potrebbero fare la differenza.
Quando capita qualche episodio di prevaricazione in classe, bisognerebbe sempre parlarne in classe, abituare dal primo giorno i ragazzi a “dare risposte” a dire perché avevano detto o fatto qualcosa che aveva anche solo offeso un loro compagno. Bisogna abituarli a “guardarsi negli occhi”, a fare i conti con quel “volto” dell’altro di cui parla tanto Levinas. Un lavoro attento e continuo che ha sempre dato risultati molto incoraggianti, che sono l’inizio di un’educazione civica praticata nella vita e non solo ridotta a vuote nozioni.
L’altro giorno una ragazza che ha ormai terminato la scuola media, ha parlato con una mia collega e ha denunciato che nella sua classe, in un liceo scientifico rinomato per essere “ben frequentato”, un suo compagno era oggetto di continue prese in giro di compagni e a volte di piccoli e grandi atti di aggressione. Le ha chiesto “cosa posso fare?”. La mia collega le ha consigliato di cercare tra i suoi insegnanti uno che fosse disponibile a parlarne, ad affrontare il problema.
Tre giorni dopo la risposta via mail della ragazza: “Cara professoressa, ho parlato con tutti i miei insegnanti, tutti, dico tutti, mi hanno detto che non avevano tempo di affrontare problemi che riguardavano i nostri rapporti, che dovevamo arrangiarci perché loro devono andare avanti col programma. Non mi scoraggio: l’unica cosa che posso, però, fare è stargli sempre vicino io”.
Mi chiedo chi siamo noi adulti per poter dire di “no” alla richiesta di una ragazza che chiede aiuto per un suo compagno in difficoltà? Mi chiedo come possiamo sentirci ancora “educatori”? E di che cosa è fatto questo tempo che non si deve perdere? Dove scappa? E che cosa è questo “programma” che scandisce la nostra tabella di marcia come fossimo soldatini che obbediscono tanto da non poter soccorrere nessuno, perché bisogna andare “avanti”. Avanti verso dove? Forse verso una società sempre più indifferente soprattutto verso i giovani di cui si parla tanto, ma con cui si parla pochissimo. Come dice la Vegetti Finzi: “Viviamo in quella che è stata definita la «società degli individui», una comunità dove non si è mai isolati ma sempre soli”.
In una scuola democratica, nessuno dovrebbe mai sentirsi solo. Maria Costanza Saccoccio
A voi bambini
A te bambina
Che confondi l’amore coi calci
La dolcezza coi pugni
E succhiando forte un dito
Cancelli la tristezza
E rinunci a capire
Ai tuoi occhi bambini
La cui dolcezza contrasta
Con l’apparenza da “duro”
Ai tuoi occhi di rabbia e d’invidia,
Ai tuoi occhi di bimbo
Disposto a tutto
Per una carezza
A te bambino
Al tuo urlo “animale”
Al tuo cuoricino che batte forte
Mentre tra le braccia serro la tua rabbia
Fino a vedere sparire le pieghe dal tuo viso
Fino a che ricominciano a splendere
I tuoi spauriti occhi a mandorla.
Il mio pensiero va a te
Che, mentre parlo,
sorridi
e leggi le espressioni del mio volto
per spiegare parole straniere vuote
di significato
e mi chiedi “Maestra a che serve
la scuola?”
e io vorrei risponderti – a vivere –
bambina,
a raggiungere la libertà, a tutto
ma
guardandomi intorno,
fissando le mura che rinchiudono
la tua curiosità in un’aula grigia
le parole mi muoiono in gola
e mi esce in un soffio
“Al sistema, bambina, ai grandi,
a niente.”
Marta Peradotto