Si è tenuto in data 21/22 gennaio c.a. presso il Centro Incontri della Regione Piemonte di Torino il convegno “Semi di cooperazione. La tutela dei diritti dei bambini e il principio di sussidiarietà nell’adozione”, organizzato dall’Agenzia Regionale per le Adozioni Internazionali per approfondire e discutere le tematiche della cooperazione a sostegno dei diritti per l’infanzia nell’adozione internazionale.
Durante il Convegno esperti del settore (istituzioni pubbliche, operatori degli enti autorizzati e delle ONG, operatori stranieri, associazioni di volontariato) hanno ripercorso la ratio ispiratrice della legge italiana di ratifica della Convenzione dell’Aja (legge 476/98), interrogandosi sul significato concreto del principio di sussidiarietà e sull’opportunità di vincolare l’adozione internazionale alla cooperazione tra Stati.
Unanime il giudizio favorevole rispetto all’affermazione del principio di sussidiarietà quale criterio fondante l’adozione internazionale, in conformità a quanto disposto dalla Convenzione delle N.U. sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989 (artt.20 e 21) e dalla Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 (art.4 lett.b). Le predette norme dispongono infatti che l’adozione internazionale è uno strumento di tutela utilizzabile solo in via “sussidiaria”, vale a dire solo qualora si sia verificato che un bambino privo di famiglia non possa essere protetto ed assistito nel suo Paese d’origine.
Il nostro legislatore ha fatto proprio questo principio, accogliendone un’accezione molto rigorosa, che si esplicita in una duplice serie di controlli di carattere amministrativo e giurisdizionale. La prima, di tipo preventivo, prevede che l’autorità centrale italiana possa autorizzare l’ingresso del minore in Italia solo se l’adozione “risponda al suo superiore interesse” e cioè solo qualora, dalla documentazione ricevuta, emerga in modo inequivocabile la situazione di abbandono dello stesso e la constatazione dell’impossibilità di affidamento o di adozione nello Stato di origine. Il secondo è successivo e lo effettua il Tribunale per i minorenni nel momento in cui ordina la trascrizione del provvedimento straniero di adozione.
Tale procedura ha lo scopo di evitare lo sradicamento forzato dei minori stranieri dal proprio ambiente culturale, favorendo un’adozione trasparente che non tradisce lo spirito solidaristico dell’istituto proprio perché sussiste la prova dell’assoluta necessarietà del suo utilizzo. Obiettivo tanto più importante se si pensa che il minore adottato, divenuto adulto, chiederà precise informazioni sui motivi che hanno determinato l’allontanamento dalla sua famiglia e dal suo Paese. Con le prevedibili conseguenze legate alla scoperta di informazioni parziali o non pienamente verificabili.
L’importanza di garantire la veridicità della documentazione attestante la storia personale del figlio adottivo ha indotto alcuni operatori a criticare la Convenzione dell’Aja nella parte in cui non parla di minore in “situazione di abbandono” ma di minore “adottabile”, subordinando lo status di adottabilità alle valutazioni delle autorità del paese di origine del minore, sulla base di un diritto interno che, non di rado, ammette forme di adozione consensuale. Lo stato di indigenza e di corruzione in cui versano alcuni Paesi stranieri fa temere che dietro il consenso dei genitori biologici documentato dall’autorità straniera possa celarsi un consenso “estorto” o “comprato”. Da qui l’importanza di applicare i controlli previsti dal nostro ordinamento con estremo rigore, al fine di evitare l’avallo di procedure di dubbia liceità, ben conosciute anche nel nostro Paese in un passato non molto lontano.
Discordi le opinioni in merito al nuovo ruolo assunto dagli enti autorizzati a seguito dell’applicazione della legge italiana di ratifica della Convenzione dell’Aja (legge 476/1998), che vincola l’attività di intermediazione degli enti alla cooperazione internazionale. Tale legge annovera tra i requisiti necessari agli enti per ottenere l’autorizzazione ad operare, non solo la competenza professionale, l’idoneità della struttura organizzativa, l’assenza di fini di lucro e di pregiudiziali discriminatorie di ordine ideologico e religioso, ma anche lo svolgimento di “attività di promozione dei diritti dell’infanzia, preferibilmente attraverso azioni di cooperazione allo sviluppo […], e di attuazione del principio di sussidiarietà […] nei Paesi di Provenienza dei minori” (art.39 ter, lett.f).
Le voci più critiche contestano tale scelta legislativa (peraltro unica nel panorama europeo) a causa di un presunto conflitto di interessi, che deriverebbe dallo svolgimento contemporaneo di una duplice attività: da una parte l’adempimento degli obblighi derivanti dall’accordo contrattuale di natura privatistica stipulato con gli aspiranti genitori adottivi che ha come obiettivo principale il reperimento di un minore adottabile; dall’altra la promozione di politiche sociali finalizzate a contrastare il fenomeno dei minori in stato di abbandono, anche attraverso la promozione di progetti diretti al sostegno delle famiglie in difficoltà, alla formazione degli operatori locali del settore, alla valorizzazione di forme di tutela alternative all’istituzionalizzazione (come l’affidamento familiare e l’adozione nazionale)…
Questo duplice ruolo fa temere che l’ente autorizzato, pressato dalle richieste degli aspiranti genitori adottivi, possa violare il principio di sussidiarietà, favorendo una politica di cooperazione solo apparente, diretta alla creazione di rapporti privilegiati con le autorità del Paese straniero al solo scopo di ottenere l’adottabilità del maggior numero possibile di bambini, a fronte di un limitatissimo impegno sul territorio (es.piccola donazione pecuniaria).
Per porre un limite a queste possibili deviazioni la Commissione per le adozioni internazionali ha disposto nei Nuovi criteri per l’autorizzazione all’attività degli enti, approvati con delibera del 28 ottobre 2008, che le attività di cooperazione debbano avere “carattere di continuità” e debbano essere, oltre che “condivise dalle autorità locali o da affidabili partner locali”, anche “verificabili mediante un sistema di monitoraggio” che consenta di valutare i risultati raggiunti e le ricadute sul tessuto sociale del territorio (art.19, comma 1). Ha, inoltre, precisato che la “mera raccolta di fondi o il solo invio di beni, medicinali o altro” non possa essere considerato sufficiente ad integrare i requisiti richiesti (art.19, c.2). La concreta difficoltà di monitorare e coordinare l’attività del gran numero di enti autorizzati attualmente presenti sul territorio italiano (circa una settantina) e la necessità di garantire la trasparenza delle procedure e l’uniformità delle prestazioni offerte all’utenza sembra infine giustificare la promozione di iniziative volte a favorire l’accorpamento di tali soggetti attraverso la stipulazione di intese e fusioni (artt.10 e 11) e la definizione di nuove modalità operative e di gestione (art.15).
La delicatezza dell’argomento fa auspicare che il nostro legislatore arrivi a demarcare in maniera ancora più netta i confini dell’attività di cooperazione, attribuendone la gestione solo a quei soggetti privati o pubblici che, per comprovata capacità organizzativa, finanziaria e culturale, possano offrire concrete garanzie di competenza e serietà.
Graziella Tagliani