Stabat Mater di Tiziano Scarpa *
premio Strega 2009
Citazione
“Ci sono ancora, da qualche parte, sono qui, separata da questa devastazione, l’angoscia non mi ha ancora presa tutta, c’è ancora un angolo dove posso mettermi al riparo e dire: io.”
Venezia, l’acqua, la musica. La trama racconta dell’adolescenza difficile di Cecilia, una delle ragazze senza famiglia cresciute nell’Orfanotrofio della Pietà alle quali – pur segregate dal mondo reale – viene insegnata la musica. Cecilia ha sedici anni e sa suonare il violino magnificamente. Lo suona insieme alle sue compagne, per raccogliere denaro a favore dell’Orfanotrofio, in Chiesa ma dietro una grata, dove nessuno potrà mai vederla. La musica per lei è importante,è l’unico strumento in suo possesso per affermare la sua identità. In lei c’è un grande buio e una continua sofferenza iniziata nel momento in cui comprende di essere stata abbandonata alla nascita da una madre che può soltanto immaginare e alla quale scrive nelle sue notti insonni. Verso di lei Cecilia prova una rabbia disperata che si lenisce a volte nel dubbio che l’abbandono sia stato una scelta obbligata. Nella prima metà del romanzo la giovane pare anche tormentata da sentimenti di morte, si sente sporca perché non voluta ma poi – a poco a poco – una luce si accende con l’arrivo del nuovo insegnante di musica: è Antonio Vivaldi. Il giovane sacerdote e compositore che prepara le ragazze all’esecuzione delle sue opere rischia con il suo atteggiamento di legarla ancora di più alla musica ma alla fine sarà la forza della disperazione a far trovare a Cecilia la sua strada.
Il libro è ben scritto, l’autore rende magistralmente l’animo femminile, la solitudine e l’angoscia che lo avvolge.
Commento al libro “Stabat Mater”
a cura del gruppo di lavoro della sez. di Novara
Il forte e costante impegno “dalla parte dei bambini” di un’associazione come l’Anfaa continua ad essere determinante anche su un piano di crescita sociale e culturale . L’attenzione e il sostegno alle situazioni difficili, la formazione durante il percorso per cui si diventa genitori di un figlio nato da altri, la pedagogia dell’accoglienza, sono tra i più importanti capisaldi su cui si fonda la nostra forma di volontariato dei diritti, che negli ultimi anni si è accresciuta con l’apporto di figli adottivi ed ex -affidati adulti.
Non ci poteva certo sfuggire un libro che racconta la sofferta adolescenza di una giovane che – pur lontana nel tempo – sentiamo “nostra“: Cecilia è stata abbandonata alla nascita nella ruota di un orfanotrofio nel quale è poi vissuta per una parte della sua vita. E’infatti nostra la lotta per la chiusura degli istituti iniziata in campo nazionale nel 1962 quando ancora gli istituti si chiamavano orfanotrofi (e in Italia di minori là dentro ce n’erano 300.000) e a Novara le bambine – vestite tutte uguali con il grembiulino a righe grigio/azzurro – venivano portate dalle suore dietro ai funerali. I maschietti erano in un altro orfanotrofio: vestiti tutti di nero, d’inverno con la mantella, con le scarpe pesanti anche d’estate; passavano sotto casa alla mattina presto per andare alla prima Messa in Duomo e sembravano dei soldatini. È nostra la lotta per una nuova legge sull’adozione che finalmente ponesse l’interesse dei minori prima di quello degli adulti: una rivoluzione che ha permesso a migliaia di bambini di avere finalmente una famiglia! Era il 1975 e la lotta è continuata: potevano infatti essere adottati con la muova legge “dell’adozione speciale” solo i bambini fino a 7 anni. Bisognava dimostrare a tutti: parlamentari, giudici, coppie e soprattutto psicologi che anche i ragazzini più grandi potevano e dovevano essere accolti in una famiglia (in adozione o in affidamento) perché ne avevano diritto. E allora parecchie famiglie si sono fatte avanti ed hanno potuto dimostrare come anche i ragazzini e le ragazzine più grandi (e che più avevano sofferto la solitudine degli affetti) potevano, se accolti con amore in una famiglia, crescere diventando adulti responsabili, ben inseriti nella società e in grado di camminare poi con le loro gambe sulla strada della vita. Ottantamila erano ancora in istituto i minori nel 1984 quando finalmente la legge ha permesso l’adozione legittimante a TUTTI i minori fino a 18 anni, regolamentando anche l’affidamento familiare e l’adozione internazionale. Il resto è storia più recente anche se non meno dura (proprio in relazione alle odierne “culle/ruote” ad esempio).
Nel racconto Cecilia ha poi trovato attraverso la musica la forza per affrontare la propria storia ed uscirne libera. Ma perché pensiamo che sia così importante scrivere di queste tematiche ? Prima di tutto perché ritrovare narrati i propri vissuti, le proprie emozioni, dubbi, domande, ci fa sentire meno soli e ci permette di condividere un percorso difficile e costante di crescita, soprattutto interiore. Inoltre, la possibilità di riflettere ci porta ad un sapere che non potrà più essere nascosto dentro di noi, ma condizionerà il nostro modo di essere. Si tratta di riflessioni sulla solitudine, le ingiustizie della vita, sulla femminilità, sulla maternità come scelta, sul coraggio di osare e di agire, che può riscattare un vissuto terribile ed elevarlo ad esperienze di liberazione. Le emozioni liberate in questo libro sono molto forti, dolorose, sullo sfondo di un tempo e di uno spazio che sembrano chiusi, insormontabili, emozioni che vivono in un luogo dove è molto difficile stabilire relazioni umane significative. In un mondo come quello di oggi, questo racconto rivendica uno spazio di commozione, insieme a chi soffre e lotta per accettare un pezzo della propria storia, cambiare il proprio destino e provare a ritrovare un po’ di pace.
Testimonianza sul tema del libro Stabat Mater:
Paola è stata ricovera molto piccola in istituto, dove è vissuta per più di dieci anni prima di essere finalmente accolta in una famiglia. Questo il suo commento:
“…Ho avvertito di nuovo le mie angosce. Ho risentito la pietra sullo stomaco che mi ha accompagnato per tanti anni: come un masso che mi impediva di nutrirmi, di socializzare, di comunicare le emozioni ed i sentimenti.
Tutto rivissuto come attraverso un velo, quasi che non fossi stata io quella bimba facile al pianto di fronte alla maestra, quella fanciulla che – nel giorno della festa della mamma – stava alla finestra in attesa di “lei” che non è mai venuta. Non c’era la musica ad accompagnarmi, solo tanto silenzio tra i lunghi corridoi dai soffitti altissimi. Mi hanno insegnato a ricamare, piccoli punti uno dietro l’altro come i giorni che passavano nell’inutile attesa. Sono stata accolta da una famiglia – quando forse non ci credevo più – ma per “uscire” da un blocco così pesante e durato così a lungo (quanti perché senza risposta ci sono stati nel mio piccolo cuore di bambina spaventata) sono stata consigliata, da chi mi ha aperto le braccia, ad iniziare la psicoterapia; un lungo percorso che, scavando nel dolore della mia anima, mi ha aiutata a capire che nulla avrebbe mai potuto colmare quel vuoto: lei per me non c’era stata ed io dovevo accettare quella parte della mia vita così com’era avvenuta guardando però avanti ad un futuro che prometteva di darmi gli affetti e l’amore di cui la mia anima avevo bisogno.
Così sono stata aiutata a crescere ed ho imparato a camminare nel mondo con le mie gambe.”
* Tiziano Scarpa nasce – da genitori felici di accoglierlo, amarlo e farlo crescere – nel reparto maternità dell’Ospedale Civile di Venezia dove anticamente c’era l’Orfanotrofio della Pietà in cui venivano ospitate le ragazze senza famiglia e dove si ambienta la storia raccontata nel romanzo. In quel luogo effettivamente Antonio Vivaldi insegnò per decenni.