(a cura di Emilia De Rienzo)
Pubblichiamo le relazioni di Emilia De Rienzo e di Roberto Tarditi al Convegno “La scuola ci riguarda tutti” svoltosi a Reggio Emilia il 10 marzo 2012.
La fiducia, l’ascolto e il dialogo di oggi fanno la democrazia di domani
Abbiamo voluto ripensare alla scuola alla luce della democrazia, regime politico che è del nostro paese. Ripensando alla scuola abbiamo dovuto porci necessariamente delle domande su che cosa era per noi democrazia. Ci siamo ritrovati nelle parole di Zagrebelsky per cui“la democrazia è sempre a rischio”, è fragile e, per non cadere in derive pericolose, ha bisogno di cittadini capaci di “assumere nella propria condotta la democrazia come ideale, come virtù da onorare e tradurre in pratica”. Dobbiamo essere “democratici – come dice Bobbio – sempre in allarme”. Per questo ognuno deve essere pronto a lottare in prima persona sulle questioni di principio, quelle che riguardano il rispetto dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani e dei diritti che ne conseguono.
E l’istruzione per tutti come dice la costituzione è uno degli elementi fondanti.
Per questo “La scuola ci riguarda tutti”, perché dalla scuola passano tutti. Dobbiamo sentire la scuola pubblica per tutti come “bene comune” da difendere: lì i nostri ragazzi si formano, lì dovrebbero imparare a diventare cittadini democratici e la scuola dovrebbe costituire un’opportunità per tutti.
Nella scuola insegnanti e studenti, insieme, possono sperimentare la democrazia come esperienza di vita, in un campo dove tutti in fondo siamo degli apprendisti. Una scuola quindi in cui la democrazia a fondamento della pedagogia, la pedagogia per educare alla democrazia.
Ma per fare questo bisogna bisogna aver ben presente che, come dice Zagrebelsky, “La democrazia critica è un regime inquieto, circospetto, diffidente nei suoi stessi riguardi, sempre pronto a riconoscere i propri errori, a rimettersi in causa, a ricominciare da capo”.
E per essere quindi Maestri democratici dobbiamo essere convinti che tutto è migliorabile, che arrivare ad un punto non vuol dire aver raggiunto la meta, che siamo alla ricerca e continuamente in cammino. Che in ogni situazione “c’è sempre un lato rimasto in ombra che chiede e può essere portato alla luce”, che ci sono sempre possibilità da esplorare per andare “oltre” e la storia ce l’ha dimostrato tante volte. Bisogna anche tener conto della possibilità di momenti d’arresto nel processo democratico, che “il successo non è affatto escluso, ma non è nemmeno assicurato”. Le sconfitte devono diventare sfide che ci fanno guardare avanti cercando nuove strategie, nuove strade, nuovi percorsi.
Ma tutto questo deve avvenire in un dialogo continuo, quel dialogo che non pretendere di “affermare” le proprie ragioni, ma che apre al discorso che mi viene da chi è diverso da me e ha qualcosa da dire su se stesso.
Pericolo del darwinismo applicato alla vita sociale
L’educazione per tutti non può essere un elemento di contrattazione, perché è un diritto fondante della nostra democrazia, non discutibile, ma esigibile.
Se si esce da questo principio fondante ci troviamo di fronte al “darwinismo applicato alla vita sociale, un’ideologia crudele che legittima il dominio dei più forti e abbandona i deboli alla loro sorte di emarginazione, alla fine li condanna alla sparizione e giustifica questa “selezione naturale” della “zavorra” in base al beneficio che ne viene per l’organismo sociale”. (Zagrebelsky)
C’è troppo disagio tra studenti e insegnanti, ma anche tra genitori e insegnanti. Forse non abbiamo più fiducia gli uni degli altri. Forse gli insegnanti non si fidano di quello che i ragazzi dicono, ma sicuramente molti ragazzi spesso non sanno più affidarsi all’insegnamento dell’adulto.
Ci sono scuole molto attive, insegnanti appassionati, ma se ne parla davvero poco. Bisogna, invece, andare a ritrovare queste realtà, queste persone che hanno moltissimo da raccontare. Bisogna ritrovare il gusto della ricerca, uscire dalla diffidenza, porsi domande e procedere giorno dopo giorno. E soprattutto sentirci più attivi e comprendere che il nostro modo di essere e di stare nel mondo, anche se in piccole realtà, può fare la differenza.
Nessun bambino, nessun ragazzo dovrebbe mai sentire che la sua “persona” sia ridotta a “mera funzione”. La scuola tende a tradurre in dati, in numeri le “prestazioni”, a incasellare i ragazzi dimenticandosi chi sono, non tenendo conto della loro storia, dei loro interessi, delle loro difficoltà e appunto delle loro personalissime domande, che loro si aspetterebbero di veder prese in considerazione.
Li collochiamo in griglie dimenticando la complessità che li abita e che ci abita, cercando di rendere “oggettivo” quello che mai potrà esserlo. Settorializzare la visione del bambino, del ragazzo vuol dire veder spesso le difficoltà come insormontabili, ci impedisce di vederlo nella sua vera luce, nella sua specificità psicologica e coglierne quindi le potenzialità. Ci impedisce di vederlo in movimento.
Accogliere le domande, per assumersene la responsabilità
Dicevo appunto: accogliere le domande, per assumersene la responsabilità. Il ragazzo deve sentire che noi siamo disponibili ad accompagnarlo, a guidarlo per cercare con lui le “sue” risposte che possono non essere le nostre e che siamo disponibili a dargli man mano strumenti per farlo. Ecco il vero valore della cultura, di una cultura viva che sia legata alla vita, quella di ieri e quella di oggi per costruire un proprio un futuro
Nell’incontro con la cultura devono trovare le sfumature, la possibilità della diversità e il diritto ad essere se stessi, devono ritrovare sensi e significati, scoprire le proprie capacità e i propri limiti e a partire di lì cominciare il proprio percorso di apprendimento.
Questo è l’unico modo per sfuggire all’omologazione che costringe chi ce la fa ad essere forte e chi non ce la fa a rintanarsi e a chiudersi a sé e agli altri.
Imparare l’arte dell’ascolto
Ma accogliere le domande vuol dire imparare l’arte dell’ascolto: Non basta parlarsi perché ci sia dialogo. E’ importante come ci si predispone all’ascolto. Bisogna che ne siamo capaci noi, ma che lo insegniamo anche ai ragazzi.
Per ascoltare si deve prima di tutto fare silenzio dentro di noi, far tacere i nostri pregiudizi, il nostro modo di giudicare e pensare, la nostra tentazione ad interpretare, a trovare a tutti i costi soluzioni veloci. Rovatti parla di “spegnere la nostra volontà interpretante”
Dobbiamo dimenticare quelle parole che presumono di aver già capito senza prima aver affiancato, condiviso, amato. Solo da questo silenzio può nascere l’ascolto, un silenzio che è spazio, apertura all’altro. Solo in una relazione che si mette in ascolto, in una relazione che non fornisce risposte preconfezionate, impareremo anche noi adulti qualcosa di importante, scopriremo nuovi significati, altre verità, che non riusciremo a comprendere basandoci solo su quanto sappiamo dalla nostra esperienza. Ci renderemo conto dei sentimenti dell’altro, sentiremo cosa provano. Usciremo dai nostri recinti, da ciò che è codificato, da schemi impersonali che vogliono essere spiegazioni scientifiche.
Tra me e l’altro si apre allora lo spazio di una nuova esperienza, in cui anche l’altro è protagonista attivo. Nasce la possibilità della circolazione e della comunicazione dell’esperienza.
“L’essere insieme è un’incrociarsi di mondi privati, ma partendo da questi occorre istituire sempre di nuovo il senso dell’essere-in-comune. Si lavora insieme per creare un luogo dove ogni diversità ha diritto di esistere e ha diritto di parola, si lavora perché la classe diventi appunto “spazio aperto di speranza per tutti”, in cui ognuno trovi nell’altro il riconoscimento per quello che è qualunque sia la sua storia.
Se avviene questa apertura si scopre di avere la capacità di accogliere l’altro, di ospitarlo.
Senza l’ascolto dentro di sé dell’altro, senza la risonanza interiore dell’esperienza estranea, è difficile che avvenga un vero contatto.
“Sperimentare se stessi nel vissuto altrui vuol dire “fare entrare l’altro nel proprio paesaggio interiore” che ha in questo modo acquisito prospettiva e profondità grazie allo “spostamento da sé all’altro”.
Non difendere noi stessi dal prossimo
Dice David Grossman: “Ho l’impressione che sotto molti aspetti noi esseri umani – creature sociali per eccellenza, che tanto investiamo nel rapporto affettivo ed empatico con la nostra famiglia, i nostri amici, il nostro pubblico – siamo in realtà sulle difensive – cioè difendiamo noi stessi dal prossimo, chiunque esso sia, “dalla radiazione della sua interiorità dentro di noi, da ciò che la sua interiorità esige da noi e che si riversa incessantemente su di noi. Da quella cosa che chiamerò il caos che risiede dentro l’altro”.
Una volta un maestro a cui avevano affidato un bambino molto difficile, che nessuno riusciva a contenere mi ha detto: “Sono io che devo entrare nel suo labirinto per uscirne insieme a lui e so che questa esperienza mi insegnerà moltissimo”. E così ha fatto.
L’integrazione dell’esperienza dell’altro nella propria è dunque traduzione, un trasferimento da un luogo all’altro, da una lingua all’altra perché “avviene nel segno del tra, c’è passaggio, ponte ma anche oltrepassamento. Solo così “nasce la possibilità di intendersi, di conoscersi e di capirsi reciprocamente, di orientare il proprio giudizio nel labirinto di ciò che accade”. Se non c’è traduzione non c’è comprensione, si parlano due lingue diverse.
Bisogna creare spazi in cui ci sia posto per le emozioni e per dare loro voce, per fare in modo che non siano seppellite e rimosse. Creare spazi dove possa vivere “la parola”.
Dar peso alle parole
Bisogna quindi insegnare ai ragazzi a dar peso alle parole, a imparare a non abusarne, a farle risuonare prima dentro di sé per “guardarle”. Guardarle vuol dire farle dimorare, abitare e ascoltare ciò che evocano dentro di loro. Perché, infatti non perdano di senso, perché non si svuotino di significato non se ne deve perdere l’eco profonda.
“Le parole – dice Natoli – si ammalano, si possono trovare ancorate, irrigidite, a volte possono colpire e fare male, come possono lenire un dolore”. Nella società in cui vivono i nostri bambini o ragazzi circolano parole malate e le parole sono importanti “Le parole possono dar voce a quello che ci abita e desideriamo condividere o possono coprire ciò che siamo veramente per sempre costruendo falsi sé”.
Di fronte ai ragazzi dobbiamo saper uscire da parole “abusate” che non raggiungono più il cuore e la mente dei bambini e dei ragazzi, bisogna come dice Luce Irigaray: “modificare il nostro modo tradizionale di parlare che, per lo più, si rivolge all’altro attraverso un senso già codificato, presunto neutrale e universale. Rivolgersi all’altro in quanto altro richiede parole inedite e in qualche maniera uniche, come è sempre nuovo e unico l’incontro con un altro. (…) creare un dire vivo che chiama l’altro ad entrare in relazione qui e ora. La parola allora si fa gesto, un gesto che tocca l’altro e lo implica, pur rispettando la sua singolarità.
Trattenere il tempo
Non è certo un percorso lineare, richiede tempo, pazienza, sembra quasi un “andar per buche”, cadere a volte nel buio e camminare a tentoni, ma tenendosi per mano. Perché possa nascere il dialogo, quello vero, quello che non prevarica, che non afferma solo le proprie ragioni, ma appunto ascolta nel senso dato prima, bisogna in un certo senso “trattenere e donare il tempo”, quel tempo di cui ci siamo privati noi, ma di cui abbiamo privato anche i nostri figli.
“Sono sempre in corsa” mi ha detto un mio allievo, “non ho tempo di pensare” o addirittura “ho paura di pensare”.
La difficoltà a parlarsi, nasce anche dalla difficoltà di parlare con noi stessi, di intrattenerci con noi stessi: “ho paura di stare solo”.
“La parola si desta a sua volta dentro questa fiducia radicale che si annida nel cuore dell’uomo e senza la quale egli non parlerebbe mai”. E’ preannunciata dalle svariate manifestazioni sensibili degli esseri umani (il modo di camminare, il tono di voce, il modo in cui tacciono o guardano lontano, ogni fenomeno espressivo, dai loro comportamenti spesso incongrui)
Bisogna lasciare che i ragazzi si esprimano come sono capaci e accogliere quella parola “quando comincia a sgorgare indecisa come un sussurro in parole slegate, in balbettii appena udibili, come un uccello ignaro che non sa dove andare ma si dispone ad alzare il suo debole volo” (Zambrano)
Il maestro deve saper aprire alla possibilità. “Una conversione è il modo migliore di chiamare l’azione del maestro. L’iniziale resistenza che irrompe nelle aule, si converte in attenzione. La domanda comincia a dispiegarsi. L’ignoranza risvegliata è già intelligenza in atto e il maestro ha cessato di sentire la vertigine della distanza e il deserto della cattedra, prodigo, come tutti i deserti, di tentazioni. Ignoranza e sapere circolano e si risvegliano in misura uguale nel maestro e nell’allievo, che solo più tardi comincia a essere discepolo. Nasce il dialogo”. (Zambrano)
Emilia De Rienzo
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Suona la campanella:
“Tutti dentro… ma a scuola”
Quando la scuola è la possibilità di un nuovo inizio
Aneddoti
Una particolare gita scolastica a Genova nei primi anni ’80 del secolo scorso.
Ripercorrendo una via principale di Genova popolata di passanti, io e Piero in carrozzina, spinti da compagni o compagne di classe. Uno di loro, il più intraprendente, mi si avvicina e mi dice: – Sono stanco, dammi un passaggio. Tutto divertito per la sua trovata si mette in braccio a me. Una grande risata generale degli altri compagni. Molta preoccupazione, però, da parte dei passanti che assistono a questa scena per noi così naturale. I loro sguardi esprimevano sdegno: – Ma come, quei giovani che si approfittano di un povero handicappato!
Questa brava gente, benpensante e buonista, non sapeva che dentro la nostra scuola tutte le barriere culturali erano state abbattute. Dentro la scuola ognuno di noi si poteva presentare con la sua fragilità, con la sua vulnerabilità e unicità e si poteva confrontare giorno per giorno. Si era creato un clima di reciproca solidarietà. Dentro la scuola non si usava la terminologia stigmatizzante: handicappato, disabile o diversamente abile, ma ci chiamavamo con il nostro nome. Fuori dalla scuola la società divide in categorie l’umanesimo.
Notizia di cronaca. Catanzaro – Febbraio 2011.
Una dirigente scolastica di una scuola media impedisce a uno studente, affetto dalla sindrome di Down, di partecipare ad una gita. La preside già ha comunicato ai docenti l’intenzione di non autorizzare in futuro alcuna uscita dello studente. Il fatto diventa ancora più grave quando la dirigente induce i compagni di classe a non comunicare al loro compagno le date delle gite in programmazione. Ma i compagni, ragazzi di terza media, hanno immediatamente rifiutato e hanno espresso con forza che avrebbero preferito rinunciare tutti alle gite, pur di non vedere discriminato il loro compagno.
Questi ragazzi si sono dimostrati maturi con un senso civile solidale rispetto all’esempio ottuso degli adulti.
Questi sono episodi avvenuti in periodi storici diversi, a distanza di anni: compagne e compagni di classe o di scuola sono protagonisti di gesti di solidarietà verso i loro compagni o compagne cosiddetti “diversi”.
Nota storica
Molti dicono che la legge 517/1977 è stata l’avvio della prassi di integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap nella scuola pubblica (solo per la scuola dell’obbligo) con la prestazione di insegnanti specializzati. Mentre la pietra miliare dell’integrazione scolastica è contenuta nell’articolo 28 delle legge 118/71, che ha ispirato una lunga stagione legislativa a tutela del diritto all’educazione e all’istruzione delle persone con disabilità nelle sezioni e classi comuni di ogni ordine e grado, che si trova nell’enunciato articolo 12 comma 2 della legge 104/1992.
Questa nota tecnica è solo per sottolineare che, al di là delle leggi citate, l’integrazione scolastica delle persone con disabilità, avveniva anche in passato, ma era un privilegio di pochi che avevano la fortuna di incontrare dirigenti e professori di quel tempo con particolari sensibilità e apertura mentale.
Così è successo a me e a Piero: quando ci siamo presentati per l’iscrizione, la preside del l’Istituto Magistrale ci ha accolti molto bene, ci ha spiegato la procedura dell’iscrizione e come ottenere il certificato di sana e robusta costituzione come tutti gli altri studenti.
Pionieri nella scuola
Nel 1980, il mio amico Piero (focomelico) ed io (spastico), dopo (35 anni io e 24 lui) trascorsi al Cottolengo, ci siamo ripresi la nostra vita e la nostra autonomia e siamo usciti fuori, faticosamente, passo dopo passo. Siamo stati aiutati dal Csa (Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base) e proprio grazie ad una decisione: ricominciare a frequentare la scuola fuori dall’istituto, nello specifico l’Istituto Magistrale, potendoci avvalere di un’altra conquista: l’importantissimo servizio dei buoni taxi.
Primo giorno di scuola, ottobre 1980. Siamo arrivati senza troppe difficoltà davanti all’istituto magistrale A. Gramsci e ci siamo subito trovati di fronte 8 banalissimi scalini. Uno scherzo per un adolescente senza handicap fisici.
Con l’entusiasmo di quella prima mattina anche a noi sono sembrati una sciocchezza, ma dopo gli 8 scalini ecco il muro delle due rampe di scale che ci dovevano far arrivare alla nostra classe e decine di altre barriere. I bidelli non si aspettavano di trovarsi di fronte due persone come noi. Erano imbarazzati e impreparati, avevano paura di farci del male nell’aiutarci. Era solo il primo impatto.
Quando si è aperta davanti a noi la porta della 1ª B, si è aperto il mondo. E bisogna ricordarlo molto bene: a quel tempo questo mondo era negato a persone che presentavano deficienze fisiche o mentali e forse chi non c’è passato non può neanche immaginare cosa questo significhi.
All’inizio siamo stati accettati con qualche perplessità da parte dei nostri giovanissimi compagni di classe e di scuola, che del resto per la prima volta si ritrovavano ad entrare in contatto diretto con persone tanto diverse fisicamente da loro e con 20 anni differenza; si è però progressivamente instaurato un rapporto a dir poco bellissimo
Già dal secondo giorno le cose sono andate meglio: la 1ª B è passata al piano terra e tra noi e i nostri compagni è iniziato un rapporto paritario. Tutti, infatti, cercavano di aiutarci.
Era divertente scendere dal taxi e sentire qualcuno di loro dire: “Aiutiamo il rovinato!”. Poi mi prendevano in due sottobraccio e mi portavano su per gli scalini come a volte si portavano i contestatori non violenti. E’ nata un’amicizia e tutti siamo diventati più ricchi proprio attraverso il confronto di storie diverse. In me e Piero è nata una nuova consapevolezza, fondamentale per aiutarci a prendere la decisione forse più importante della nostra vita: ‘uscire’ definitivamente e affrontare l’avventura di una vita completamente autonoma. E’ stato proprio questo clima di solidarietà che ha aiutato a maturare in noi l’idea che si poteva osare qualcosa di più: non solo ‘uscire’ per andare a scuola, per svolgere le attività scolastiche, ma anche “vivere” fuori dall’istituto di ricovero.
I professori, nostri alleati, hanno dovuto cambiare modo di insegnare, hanno dovuto adeguare i loro metodi di insegnamento ai nostri problemi e di conseguenza hanno forse imparato a recuperare maggiormente i ragazzi cosiddetti disadattati avviando un processo di integrazione e non di esclusione.
Nella nostra classe, infatti, c’erano molti ripetenti che non sempre riuscivano a seguire il programma come tutti gli altri e per loro attuavano dei programmi di recupero. Ma hanno soprattutto adottato il metodo delle lentezza nel loro insegnamento. Forse prima della nostra presenza seguivano il programma scolastico in modo frenetico, tutto doveva essere standardizzato: hanno anche loro scoperto il valore della diversità e compreso che ognuno aveva dei ritmi diversi che andavano rispettati.
Ho già accennato che la prima legge sull’integrazione scolastica delle persone con handicap non prevedeva l’insegnante di sostegno nelle scuole superiori. Erano quindi i professori o le professoresse a cercare soluzioni per aiutarci. Ad esempio: quando c’era il compito in classe di matematica, il professore, nel venirmi incontro, chiamava una studentessa della Iª B della stessa mia sezione per aiutarmi nel compito. Ovviamente il risultato era un disastro, non per colpa della ragazza ma mia: non ho mai capito nulla in matematica. Il professore, consegnandomi il compito, mi diceva: Tarditi, tu non superi mai il quattro! Io: – È meglio che niente no? – Sei un filosofo!
Al di là di queste digressioni, la scuola mi ha restituito la mia esistenza defraudata per trentacinque anni da quella che veniva chiamato “il disegno della provvidenza divina”. Il motto era: ‘sofferenza, preghiera e rassegnazione’.
Un tempo non lontano ero poco intelligente, (almeno così mi sentivo e così mi hanno fatto credere di essere), ma dentro la scuola ho riacquistato l’intelligenza che non avevo mai avuto modo di esercitare, il sorriso e la gioia di vivere. Ancora oggi nella scuola molti insegnanti fanno sentire alcuni loro alunni “poco intelligenti” perché non sanno scoprire tutte le potenzialità che sono in ogni bambino. Questo bisogna impedirlo.
Sono stato poi sbalordito e meravigliato quando gli studenti dell’Istituto mi proposero di essere il loro rappresentante nel consiglio di istituto. Io come potevo essere il loro portavoce e come potevo comprendere le loro richieste, i loro bisogni!? Tra me e loro c’erano venti anni di differenza: due mondi differenti che si sono incontrati in quell’Istituto magistrale. Eppure sono stato eletto dai miei giovani compagni. Io, per loro, ero Roberto che aveva bisogno del loro aiuto e loro del mio.
Ho vissuto un’altra bellissima esperienza nell’ultimo anno delle Magistrali: l’assemblea degli studenti e dei docenti.
All’assemblea partecipavano sia gli studenti della sede centrale sia le due succursali e quindi l’Istituto aveva un accordo con il teatro parrocchiale vicino alla nostra scuola – sede centrale.
I giovani compagni di scuola mi chiesero di intervenire all’assemblea con alcuni di loro. Ho dovuto salire sul palcoscenico: mi sentivo fuori luogo di fronte a una moltitudine di giovani, compagni di altre sedi che hanno sentito parlare di me e di Piero ma non ci conoscevano. E ancora più imbarazzante sapere che c’era una platea di docenti.
Il mio intervento era impostato su due punti: la ristrutturazione e l’accessibilità della scuola. Questo punto era già stato affrontato e discusso in Consiglio di Istituto e in seguito si era elaborato il progetto di ristrutturazione da presentare alle autorità competenti. E approvato il progetto, il preside mi ha incaricato ufficialmente di seguire i lavori con gli architetti.
Il secondo punto dell’intervento si basava sulla mia esperienza diretta: introdurre nelle scuole superiori la figura dell’insegnante di sostegno prevista solo per le scuole dell’obbligo. Tuttavia si era discusso a lungo su questo argomento importante non risolvibile in tempi brevi, però si era raggiunto un accordo con i docenti di proporre al preside di inviare una mozione, sottoscritta da tutti i docenti presenti all’assemblea, e inviarla alle autorità competenti. Non so se questa richiesta è stata presa in considerazione dall’ufficio competente, ma so che la mia proposta è stata accolta positivamente da tutti presenti. Si è dovuto comunque attendere il 1992, l’anno dell’approvazione della legge 104.
La scuola democratica e universale
deve essere un diritto di tutti
anche per le persone con disabilità
E’ infatti illuminante questa proposizione. «L’integrazione dell’alunno in situazione di handicap va realizzata nel contesto dell’individualizzazione e della personalizzazione dell’insegnamento e delle relazioni per tutti gli alunni, con una forte “sensibilità alle differenze”, che dovrà diventare il clima culturale e relazionale diffuso tra tutti gli insegnanti di una comunità scolastica solidale e collaborativa» (1).
Oggi, purtroppo, alcuni insegnanti di sostegno non adottano questa metodologia didattica. Si sente dire che, quando un genitore ha il colloquio con loro per l’inserimento della figlia o figlio nella scuola media inferiore o superiore, la risposta dell’insegnante è: l’alunno deve seguire lo standard minimo degli altri alunni, se no…
A mio avviso non applicano fino fondo la loro professionalità pedagogica o semplicemente non sono preparati all’insegnamento specializzato. Dovrebbero leggere di più gli insegnamenti di Mario Lodi.
Sentite cosa ci dice.
Gli insegnanti devono (…) «Possedere un cuore, che è un motore potente. E poi attaccarsi al bambino, seguirlo con dedizione, riuscire a scrutarne i talenti nascosti. Senza mai dimenticare che compito della scuola trasformare un gregge passivo in un popolo di cittadini pensanti» (2).
Consapevole della difficile contingenza economica, mi rivolgo a voi studenti e a voi insegnanti. Ribellarvi per scongiurare il rischio che le ristrettezze economiche compromettano il progresso del lungo cammino d’integrazione iniziato negli anni ’80, ma soprattutto difendere con forza la scuola pubblica, oggi così lacerata. Difendere la scuola di tutti e di ciascuno, significa tutelare una scuola democratica e universale. Dobbiamo essere intransigenti.
Sono sicuro che tutti voi condividiate l’idea che la promozione della uguaglianza fra tutte le persone che hanno diritto alla istruzione siaun valore da affermare indipendentemente dalle difficoltà economiche.
Roberto Tarditi
(1) Convegno Internazionale “La qualità dell’integrazione Scolastica” (Riva del Garda, novembre 1997) Mozione finale – 2° tesi.
(2) Repubblica del 16/02/2012, pagina 58 sezione cultura, in omaggio a Mario Lodi per il suo novantesimo anno.