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FAMIGLIA E SCUOLA

Le classi scolastiche di oggi, di ogni ordine e grado, si caratterizzano, dal punto di vista personale e familiare, come un incontro di storie diverse, a volte complicate: ci sono famiglie scomposte, ricostituite o monoparentali, straniere, adottive, affidatarie. Gli alunni sono più o meno consapevoli dei loro vissuti e soprattutto dei loro perché, (dipende certamente anche dall’età e dal livello di elaborazione mentale), ma richiedono agli adulti forti capacità di interazione educativa e la disponibilità ad essere ascoltati.

Gli insegnanti spesso si rivelano non sufficientemente preparati dal punto di vista emotivo e non si lasciano coinvolgere in relazioni che temono poi di non saper gestire. In questo modo, il bambino o il ragazzo con la sua storia si espone alla difficoltà di non essere conosciuto, accettato, compreso. In particolare, per i bambini adottati o in affidamento familiare, gli insegnanti ricorrono a facili categorizzazioni: il loro bisogno di essere accolti viene spesso interpretato come disturbo del comportamento e, di conseguenza, degli apprendimenti. La loro possibile “fatica di imparare” (come la chiama lo psicologo Bowlby) viene letta come sintomo di bassa intelligenza e si fa intervenire il servizio di psicologia scolastica per un accertamento diagnostico! Inoltre, pregiudizi e luoghi comuni sono alla base dell’insofferenza, dell’impazienza di alcuni insegnanti, lontani dalla convinzione che ognuno ce la può fare con i suoi tempi e con riferimenti adulti buoni. La difficoltà maggiore per questi alunni è il trovarsi di fronte alla richiesta, posta in maniera scorretta, di raccontare la propria storia, di spiegare la situazione che stanno vivendo. Ciò avviene di solito in seconda elementare (ma abbiamo visto anche già alla scuola materna) dove il percorso che viene chiamato “ la storia della famiglia” è utilizzato come approccio all’insegnamento della storia.

In questo contesto, si chiede per esempio al bambino adottato di portare l’ecografia di quando era nella pancia della mamma, gli si chiede di rispondere a domande sul suo passato, di dover ripercorrere tappe dolorose della sua vita, di inserirsi in un albero genealogico che per lui è stato stravolto. Per i bambini in affidamento, che hanno una famiglia “in più” e che stanno ancora cercando di rimettere insieme i tasselli della propria storia, queste richieste sono davvero molto pesanti e dolorose. Sono pretese che non riconoscono la loro diversità, o, in nome di questa, li escludono dalla partecipazione alla vita della classe. Sarebbe così semplice lavorare per riconoscere ad ogni storia personale e familiare una “normalità speciale”, dove aspettative, obiettivi, prassi educative si arricchirebbero di una specificità per tutti gli alunni, nessuno escluso.

Secondo la mia personale esperienza di insegnante e mamma adottiva, i genitori adottivi e affidatari devono chiedere alla scuola attenzione ed ascolto, sensibilità nell’affrontare problematiche così delicate, per poterle trasformare in risorsa e arricchimento per tutto il gruppo classe e per gli educatori stessi. Sono importanti in questa fase un coordinamento e una stretta collaborazione tra la scuola e la famiglia , per preparare insieme un percorso educativo sul concetto di genitorialità nelle sue varie forme. Bisogna fare i conti anche con i libri di testo, che purtroppo ancora non sanno cogliere queste sensibilità.

Si può parlare in classe di “storie diverse” , all’interno di un buon clima scolastico, dove ognuno si sente a suo agio, utilizzando storie, film, racconti. Inoltre, penso sia necessario un lavoro costante di sostegno della famiglia sul bambino, “ai fianchi” delle istituzioni e delle persone che incontrerà lungo il suo cammino di crescita. Bisogna fare un lavoro di prevenzione, rafforzando continuamente l’autostima, accompagnandolo senza inutili apprensioni ad essere accolto e riconosciuto nella sua unicità, a saper affrontare domande, curiosità, apprezzamenti che potrebbero creargli disagio. Ogni bambino si può trovare da solo a doversi spiegare e, se dentro di sé ha le parole giuste e la forza di un’appartenenza affettiva, attiverà tutta una serie di risorse per potercela fare. Non solo, diventerà testimone di una cultura dell’accoglienza e dell’amore, senza condizioni.

Giuse Tiraboschi (insegnante scuola primaria)

 

L’AFFIDO DEGLI ADOLESCENTI…
E DOPO I 18 ANNI?

L’accoglienza di un adolescente o un preadolescente in affidamento spesso non ha come prospettiva il suo rientro nella famiglia d’origine: in genere, se una famiglia non ce la fa ad occuparsi dei figli di quell’età, difficilmente si ricostituisce; per poco che duri l’affido, il ragazzo esce dalla famiglia affidataria già adulto, e spesso né lui né i genitori d’origine hanno più grandi motivazioni a ricongiungersi.

Anche per noi che abbiamo iniziato il nostro affido quando Claudia aveva 12 anni, ora ne ha 18, si prospetta la necessità di aiutarla a rendersi autonoma e iniziare la sua vita nel mondo.

A parte il fatto che questo “passaggio” è sempre delicato, anche per i nostri figli biologici, la presenza di un lieve ritardo mentale complica le cose e aumenta ulteriormente le incognite che gravano sul suo futuro.

Per lieve ritardo mentale nel suo caso si intende una condizione in cui la persona è in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, ma ha delle reali difficoltà ad affrontare situazioni più impegnative (gestione del denaro, scelta del lavoro, rapporti interpersonali) o che rientrano in alcune sue funzioni mentali non adeguatamente sviluppate (percezione del tempo e dello spazio, apprendimento di concetti astratti, memoria).

E’ chiaro che questa situazione metterebbe in difficoltà qualunque figlio e relativi genitori, quando purtroppo non si registrano affatto miglioramenti in alcuni aspetti della personalità, immobili e immutabili fin dall’infanzia.

Lo psicologo dell’ASL, da sempre scettico sulle possibilità di autonomia della ragazza, ci ha così sintetizzato il suo pensiero sul futuro: “O ve la tenete tutta la vita, o si cerca una struttura che la accolga dopo di voi e se ne prenda carico per sempre…”

La seconda ipotesi è poco o nulla praticabile, per questi motivi:le uniche comunità della nostra zona sono comunità per minori; quelle per adulti, sono per pazienti con disabilità fisiche o psichiche gravi, per cui sarebbero penalizzanti ed inidonee ad accogliere Claudia;

Dopo sei anni di affido, durante i quali abbiamo cercato di renderla autonoma per quanto possibile, la comunità sarebbe vissuta come una punizione e una prigione; d’altra parte, nessuno ha voluto in tutti questi anni prenderla in carico per una terapia psicologica, perché“Un ritardo non è curabile”, quindi lei non ha sviluppato, ammesso che fosse possibile, una consapevolezza piena delle sue reali condizioni.

La nostra famiglia è molto più favorevole ad una terza via, che anzi, ci sembra l’unica praticabile: la prosecuzione dell’affidamento fino ai 21 anni, la ricerca, nel frattempo, di una vita parzialmente autonoma, con il nostro aiuto per quel che riguarda l’affetto, e di un amministratore di sostegno per la gestione economica delle scelte più impegna­tive.

Recentemente ho partecipato ad un convegno organizzato dalla Provincia sulla figura dell’Ammi­nistratore di Sostegno, e siamo stati molto confortati perché le cose che avevamo in mente sul futuro della ragazza le abbiamo ritrovate proposte dal legislatore: per queste persone non si può agire in un’ottica punitiva e compressiva; solo lasciando loro le motivazioni per cercare di migliorarsi possono dare il meglio, e credo che questo valga per tutti gli esseri umani.

Certamente così facendo si rischia qualcosa, ma anche tarpando le ali alle persone si rischia, prova ne sono i recenti casi di adolescenti fuggiti dalle comunità nel nostro territorio.

Ribadiremmo quindi la vecchia ricetta, che vale anche per i figli biologici:accoglienza in famiglia, affetto, aiuto e protezione quando è necessario, promozione dell’autonomia e supporto anche giuridico nelle difficoltà non superabili.

Per il resto, il futuro delle persone è anche un po’ nelle loro mani e nelle mani di Dio; non possiamo colpevolizzarci per ciò che sfugge alle nostre capacità e volontà: il destino non sarà mai in nostro potere, neanche il nostro e quello dei nostri figli.

Una famiglia affidataria “specializzata” in adolescenti

GRUPPI DI SOSTEGNO PER FAMIGLIE AFFIDATARIE

Dal 1998, anno in cui L. ci è stata affidata, abbiamo sempre partecipato ai gruppi di sostegno che il Servizio Affidi della Provincia Autonoma di Trento organizza mensilmente per 10 mesi all’anno esclusi i mesi di luglio e agosto.

Inizialmente si poteva scegliere tra l’orario 18-20 oppure 20-22. Nella prima fascia si potevano portare i figli affidati e non, che in ambiente adeguato giocavano, disegnavano, cantavano in situazioni e momenti alternati, a volte spontanei e, a volte guidati sotto l’occhio vigile di psicopedagogista e psicologa.

L. è sempre venuta con noi e, fino alla prima media partecipava molto volentieri a questi gruppi, stringeva amicizia con altre bambine e, spesso, ci raccontava cosa avevano fatto, detto, raccontato durante quelle due ore. Più avanti, invece, ha espresso spesso la volontà di non partecipare adducendo come scuse che c’era troppo chiasso, qualcuno le stava antipatico, qualcuno piangeva troppo spesso, si facevano solo giochi infantili, si perdeva tempo e ci si stufava ecc. ecc. ecc. Abbiamo verificato che il suo allontanarsi corrispondeva a quello dei suoi coetanei. Ma, evidentemente, se ne sono accorti anche i professionisti che seguivano i gruppi, perchè verso la metà del 2008 hanno chiesto agli affidati adolescenti cosa ne pensavano di partecipare, in via sperimentale, ad un gruppo formato solo da coetanei. La maggioranza ha accettato con moderato entusiasmo e un po’ di diffidenza riservandosi di starsene a casa se le riunioni non risultavano gradite. L’orario coincide con quello degli incontri dei genitori affidatari che, nel frattempo, sono stati rimescolati, riunendo in un gruppo i genitori dei ragazzi adolescenti.

Il salto di qualità, a mio parere, è stato evidentissimo.

Noi genitori condividevamo le esperienze, i problemi scolastici, le difficoltà quotidiane di relazione, di comportamenti, di silenzi ad oltranza, di bugie, di provocazioni, di rifiuto, di promesse inevase e di tutto ciò che il mondo adolescenziale porta con sè con l’amplificazione che la situazione di affido comporta.

I ragazzi, con la presenza di una neuropschiatra che, secondo loro, fa solo presenza si sono trovati a parlare di tutto e di più su argomenti a volte banali, a volte scottanti, toccando spesso le situazioni loro specifiche e cose personalissime che in quel luogo sapevano che sarebbero state condivise se non sempre comprese. I nostri ragazzi (tranne una che non ha mai voluto provarci) non si sono più sognati di non partecipare a quei gruppi e, se qualche rara volta per cause di forza maggiore han dovuto rinunciarci, si sono presi sempre la briga di telefonare per scusarsi e giustificarsi. Tutto questo senza contare che, in macchina, al ritorno, L. racconta, chiede spiegazioni, pareri e delucidazioni su fatti e situazioni che in quella sede si sono discussi. Non mancano giudizi duri e insindacabili su alcuni comportamenti raccontati da coetanei. Sappiamo che anche qualche altro ragazzo (non tutti!) fa lo stesso.

La specialista segue il gruppo in punta di piedi, con molta discrezione e attenzione, ma noi immaginiamo che ci sia il suo zampino quando il ragazzo chiede o accetta volentieri un incontro personale con la psicologa dell’Equipe. L. ne ha usufruito specialmente prima degli incontri con la sua mamma che non vedeva da due anni e, prima ancora, da cinque anni e la cosa le creava moltissima ansia e quasi un rifiuto.

La psicologa le fissa gli appuntamenti il giorno degli incontri di gruppo, con orario immediatamente precedente, consentendoci di fare un unico viaggio. Quindi tiene in considerazione anche che noi siamo la famiglia che abita più lontano da Trento, luogo dove si tengono gli incontri. Insomma, l’equipe cerca di venire incontro alle esigenze delle famiglie quanto più è possibile e, anche per questo noi non possiamo che essere soddisfatti e grati per queste attenzioni.

Nicola Bonelli e Luisa Secchi

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