torna all’indice del Bollettino 01-02/2009

Star bene insieme a scuola si può?

Quasi tre anni fa è uscito il mio libro “Star bene a scuola si può?” nato dall’esigenza di rispondere alla lettera di Anthony, un ragazzo adottato indiano, che era stata scritta prima di togliersi la vita a sedici anni. Una lettera che accusava con poche parole molto lucide la scuola.

E sono tante le storie, i drammi, le fragilità che si nascondono dietro a molti bambini e ragazzi che vivono gran parte della loro giornata ed esistenza a scuola e che pochi vogliono vedere e di cui ancora meno vogliono farsi carico.

Nel libro “Star bene a scuola si può” ho voluto avviare una riflessione che non aveva la pretesa di dare risposte definitive, ma che voleva lanciare un appello per un ripensamento più collettivo sul modo di fare scuola, su dove oggi la scuola sta andando.

In un mondo dove sempre più ci si abitua ad esprimersi attraverso slogan, assiomi e contrapposizioni ideologiche, ho sempre pensato che dovremmo, almeno dal basso, ritrovare il gusto del dialogo, della ricerca, di un confronto che abbia però il rigore di un punto di partenza fondamentale: garantire a tutti il diritto allo studio.

In questi ultimi anni ho avuto modo di partecipare a convegni, ad aggiornamenti in cui ho parlato con genitori, insegnanti, operatori so­ciali. Molti di questi incontri erano indirizzati a genitori adottivi e affidatari che lamentavano la mancanza di attenzione nei confronti dei figli, della loro storia peculiare, delle loro difficoltà.

Affrontare i problemi dei bambini adottivi o in affidamento è affrontare il problema di qualsiasi bambino nella sua unicità, vuol dire avere ben presente che la diversità – diversità che nasce dal fatto che sono diverse le situazioni (e non i bambini!….) – non deve essere motivo di pregiudizio. Non è la diversità a costituire un problema, ma quello che è problematico è come essa viene percepita e affrontata: e questo è un problema di tutti i bambini.

Ci sono due scuole davanti a noi: quella in cui i programmi si plasmano sugli alunni o viceversa quella in cui sono gli alunni che devono plasmarsi sui programmi. Una scuola dove il problema, la difficoltà del ragazzo diventano un momento di ricerca per trovare soluzioni e strategie o un’altra in cui la difficoltà è stigmatizzata da un voto negativo o da una sanzione. Ed oggi sta sicuramente prevalendo il secondo modo di vedere l’insegnamento.

Eppure John Bowlby già molto tempo fa diceva: «Abbiamo ampie prove del fatto che gli esseri umani di ogni età sono più sereni e in grado di affinare il proprio ingegno per trarre un maggiore profitto se possono confidare nel fatto che al loro fianco ci siano più persone fidate che verranno in loro aiuto in caso di difficoltà» (1).

La scuola oggi ritorna ad assumere una funzione prevalentemente selettiva che dimentica troppo facilmente il compito di evidenziare e valorizzare le capacità specifiche di ogni allievo. Malgrado gli sforzi di molti educatori, il sistema spinge a privilegiare la funzione di selezione dei “migliori”, piuttosto che la funzione di valorizzazione delle capacità specifiche di ogni allievo. Cosa importa se i ragazzi oggi sono sempre più ansiosi, se aumentano le depressioni, se si spegne la voglia di vivere come dimostrano molte ricerche e come noi insegnanti vediamo accadere tutti i giorni?

Dove vanno a finire i bisogni reali dei bambini che necessitano di sguardi attenti alla loro «buona» crescita, al loro «ben-essere», non a quello solo materiale, ma a quello psicologico ed affettivo? È proprio vero che privilegiando l’intelligenza intesa come capacità di prestazione si fa il bene del bambino più capace? O non è altrettanto vero se non più importante che i bambini imparino anche il senso di responsabilità, il rapporto con gli altri?

Ho lavorato nella scuola più di trent’anni ed ho constatato che i ragazzi, se li lasciamo parlare, ci dicono continuamente che hanno prima di tutto bisogno di entrare in un ambiente dove trovare persone che sappiano accostarsi a tutti i bambini: adottivi, affidati, stranieri, handicappati, tranquilli, meno tranquilli, persone che sappiano vederli semplicemente come bambini, senza etichette, bambini da conoscere e da cui farsi conoscere

A scuola, però, ci si aspetta che l’alunno sappia mettere in funzione la propria intelligenza, la propria capacità di ragionare e di comprendere e raramente queste capacità vengono messe in correlazione col suo vissuto, con il suo stato d’animo, con tutte le altre componenti emotive ed affettive che entrano in campo quando si deve imparare qualcosa. La concezione che la ragione sia una componente umana completamente staccata dalla parte affettiva ed emotiva dell’uomo ha fatto del bambino a scuola un essere «bicefalo».

In realtà, come dice Carotenuto, «la sfera affettiva intreccia una continua relazione e scambio comunicativo con la dimensione più propriamente cognitiva della nostra psiche, ed è da questa dinamica inter-relazionale che scaturisce la soggettività di ogni essere umano, le sue peculiarità psicologiche, il suo modo di essere e di mostrarsi al resto del mondo» (2).

Il processo di apprendimento, infatti, è un processo circolare. Se si tiene conto della sfera affettiva migliorerà l’apprendimento, se il bambino sarà in grado di apprendere potrà sciogliere dei nodi che bloccavano la propria sfera emotiva: attraverso l’apprendimento il bambino imparerà a controllare le proprie emozioni e a incanalare le proprie angosce.

Emilia De Rienzo

(1) John Bowbly, Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1982.

(2) Aldo Carotenuto, Il tempo delle emozioni, Studi Bompiani, Milano, 2003.

A ottobre l’Anfaa terrà un convegno dedicato proprio alla scuola. Ci piacerebbe che fosse un convegno il più partecipato possibile e per questo vorremmo poter contare sul vostro contributo e che voi genitori adottivi o affidatari ci raccontaste proprio l’incontro del vostro bambino con la scuola. Faccio alcune domande per aiutarvi nel tracciare il percorso, ma, ovviamente siete assolutamente liberi di raccontare ciò che volete e sentite.

A che età il bambino è entrato a far parte della vostra famiglia? Ha avuto esperienza di ricovero in strutture residenziali?

Come avete vissuto voi l’entrata nella scuola? Come è stata preparata? Come hanno affrontato gli insegnanti il fatto che fosse un figlio adottivo o in affidamento?

Quanto questa “diversità” è stata valorizzata, è stata l’occasione per un momento di crescita della classe?

C’è stata qualche difficoltà nel rapporto con i compagni? E’ stato mai preso in giro?

Ha avuto difficoltà di apprendimento? Se sì, come sono state affrontate?

C’è qualche cosa in particolare che volete segnalare o raccontare?

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