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Riportiamo la lettera inviata a La Repubblica il 30 luglio u.s. da Fabrizio Papini

Mercoledì 29 Luglio 2009 un neonato vivo e vitale è stato trovato all’interno della chiesa del Corpus domini di Firenze.
Sono in corso le ricerche della madre, forse una giovane straniera. La donna evidentemente ignora che, nel nostro ordinamento, le donne che non intendono riconoscere il proprio nato, hanno diritto di partorire in assoluta segretezza, anche negli ospedali, ricevendo la necessaria assistenza prima, durante e dopo l’intervento. In questi casi l’Ufficiale dello Stato civile, dopo aver attribuito al bambino un nome e un cognome, interessa il Tribunale per i minorenni per una rapida dichiarazione di adottabilità.
La dolorosa scelta della donna che decide di non riconoscere il figlio merita rispetto. Il bambino non è “abbandonato”, bensì consegnato alle istituzioni e inserito al più presto in una famiglia. Una campagna di informazione, capillare e intensa su queste problematiche, sarebbe indispensabile; finora si è preferito istituire, un po’ dovunque, “culle per la vita”, riedizione aggiornata delle antiche “ruote”. La ruota era una cassetta rotonda montata su un asse girevole, situata in un’apertura del muro, che permetteva l’abbandono di neonati senza essere riconosciuti.
A Firenze la “ruota degli innocenti” fu istituita nel Quattrocento. Fu abolita ufficialmente nel 1923.
Il 3 Febbraio 2006 è stata inaugurata a Firenze una “culla termica”, munita di sistema di allarme e di televideo, alla quale si può accedere dall’esterno. Trattasi di un’iniziativa del “Movimento per la vita” alla quale hanno aderito la Provincia di Firenze e il Club Soroptimist. “Questa culla afferma la centralità della vita” ebbe a dichiarare il Cardinale Ennio Antonelli, durante la cerimonia di inaugurazione. Contraria all’iniziativa della dott.sa Alessandra Maggi, presidente dell’Istituto degli innocenti, che intravede rischi di strumentalizzazione: accostare il tema dell’abbandono a quello a dell’aborto. Speriamo che la problematica trovi un largo terreno di riflessione e di accordo. La culla è stata realizzata nel centro cittadino, presso la chiesa di San Remigio. Finora non ha accolto alcun neonato. È stata fatta oggetto di scherzi, anche di pessimo gusto.
Nel mese di Settembre 2009 la vicenda del neonato abbandonato a Firenze ha avuto un seguito. Dal Texas un giovane americano ha preso contatto con la Questura di Firenze, ritenendo di poter essere il padre naturale del bimbo. La fidanzata, una ragazza messicana, avrebbe partorito in una stanza d’albergo, mentre era in vacanza a Firenze con i genitori e la sorella. La famiglia disapprova la relazione della ragazza, per motivi razziali. Al ritorno dall’Italia la fidanzata, palesemente non più incinta, avrebbe mentito al giovane raccontando di aver abortito. Successivamente avrebbe ammesso di aver lasciato il bambino in una chiesa.
Le indagini di polizia sono in corso per il reato di “abbandono di persone minori” (art. 591 C.P.)
Si può nascere a Betlemme in una mangiatoia o a Firenze in una stanza di albergo a “4 stelle”, ma il mestiere di neonato non è sempre facile.
FABRIZIO PAPINI
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Pubblichiamo la lettera che Graziella Tagliani a nome del Gruppo Figli Adottivi dell’Anfaa ha inviato ai Parlamentari presentatori della  proposta di legge n. 1899 “Modifiche all’articolo 28 della legge 4 maggio 1983 n. 184”

LETTERA APERTA AGLI ONOREVOLI
Domenico Zinzi, Michele Giuseppe Vietti, Giu­seppe Naro, Angelo Cera, Nunzio Francesco Testa e Michele Pisacane

Oggetto: Ritiro della proposta di legge n. 1899 “Modifiche all’articolo 28 della legge 4 maggio 1983, n. 184, in materia di accesso all’adottato delle informazioni che lo riguardano”, presentata alla Camera dei Deputati il 12 novembre 2008.
Ho letto con vivo interesse e non minore preoccupazione la proposta di legge n.1899 presentata alla Camera dei Deputati in data 12 novembre 2008 dai deputati Zinzi, Vietti, Naro, Cera, Nunzio Francesco Testa e Pisacane, diretta a modificare l’art.28 della legge 4 maggio 1983, n. 184 in materia di accesso dell’adottato alle informazioni che riguardano le sue origini.
La modifica risulterebbe motivata dall’esigenza di superare una presunta disparità di trattamento tra figli adottivi riconosciuti e non riconosciuti alla nascita, garantendo anche a questi ultimi il “diritto” di accedere alle informazioni concernenti l’identità dei propri procreatori biologici. Tale articolo, si legge nella proposta, assicurando solo ai primi questo diritto, sia pure al raggiungimento del 25° anno di età, mortificherebbe le aspettative dei secondi, impedendo loro “di fare luce su una zona senza ricordi e senza storia della loro vita e del loro sviluppo, rendendoli eternamente incompleti e destinati a morire senza aver avuto piena cognizione di loro stessi”.
Come figlia adottiva non riconosciuta alla nascita mi permetto di dissentire dalla ratio ispiratrice della proposta di legge in questione.
Mi domando, innanzitutto, se all’introduzione di questo nuovo “diritto” corrisponda un reale interesse ad esercitarlo meritevole di tutela giuridica, soprattutto se l’affermazione del medesimo implica il riconoscimento del correlato dovere del genitore biologico di fornire delle informazioni documentali atte a consentirne il futuro rintraccio.
A voler analizzare la questione da un punto di vista strettamente giuridico, sembra che la nostra società si appresti a tutelare con la stessa intensità due diritti tra loro antitetici, dal momento che l’esercizio dell’uno (diritto alla segretezza del parto) nega l’affermazione dell’altro (diritto all’accesso alle informazioni) e viceversa.
Difficile che lo Stato possa “rispettare il patto concluso con la madre a cui fu consentito di partorire in anonimato” se poi consente al Tribunale per i minorenni, valutata la richiesta di accesso da parte del figlio non riconosciuto, “di verificare se la volontà di anonimato della madre sia ancora attuale o se essa sia mutata” al punto da consentire la revoca del diniego stesso.
Solo la garanzia di un parto anonimo può indurre una donna a rivolgersi ad una struttura pubblica per portare a termine una gravidanza indesiderata, evitando soluzioni più drammatiche quali l’aborto clandestino, l’abbandono in cassonetto o, addirittura, l’infanticidio.
Il tenore della motivazione mi fa, inoltre, pensare che il legislatore, nell’attribuire una posizione di privilegio al legame di “sangue”, non abbia tenuto conto non solo delle ragioni logico-giuridiche di cui sopra, ma neppure delle conseguenze umane che ne possono derivare.
Penso, in particolare, allo stato d’animo di una donna che, dopo aver superato con enormi difficoltà il trauma del gesto commesso, deve tornare a rileggere le pagine dolorose del suo passato, perché il bambino messo al mondo anni prima, divenuto adulto, le chiede (sia pure per interposta persona) di rimettere in discussione la sua decisione.
E penso anche alla sofferenza di quella persona che, dopo tante ricerche, si senta raccontare da un’autorità pubblica, che la donna che lo ha messo al mondo nel più assoluto anonimato non intende riconoscerlo per la seconda volta; o ancora, nell’ipotesi contraria del ripensamento tardivo, a quale delusione possa portare l’incontro con una persona potenzialmente problematica e talvolta emarginata, comunque diversa da quella idealizzata nel tentativo di riscrivere la propria storia.
Quanto alla mia personale esperienza, posso dire che anche io, pur felicemente inserita in una famiglia adottiva amorevole, ho sentito il naturale bisogno di conoscere le mie origini, svolgendo qualche ricerca sul mio passato.
Tale ricerca, incoraggiata ed aiutata dai miei genitori adottivi, è stata motivata non tanto dal desiderio di riallacciare significativi rapporti affettivi con delle persone a me estranee, quanto dal più profondo e doloroso bisogno di conoscere le ragioni che hanno determinato la mia condizione di figlio non riconosciuto.
Ricordo ancora, con intensa emozione, il giorno in cui ho visitato l’orfanotrofio che mi ha accolto nei primi mesi di vita (oggi adibito a pubblico ufficio provinciale) e le parole con  cui la funzionaria pubblica, preposta alla custodia del mio fascicolo, mi ha narrato gli episodi più significativi accaduti nel breve periodo che ha preceduto la mia adozione. Il giorno della mia nascita, i successivi problemi psico-fisici (non mangiavo quasi nulla e mi ammalavo continuamente), le cure premurose delle suore dell’istituto, il totale stato di abbandono in cui mi sono ritrovata (nessun parente di sangue è mai venuto a trovarmi o a chiedere informazioni sul mio stato di salute)…
La sensazione di imperfezione e manchevolezza, suscitata dall’impossibilità di conoscere l’identità anagrafica dei miei procreatori e le ragioni profonde del mio non riconoscimento, è stata gradatamente superata dalla consapevolezza di aver trovato una “vera” famiglia che mi ha accolto con amore e dedizione.
Ai miei genitori adottivi va riconosciuto senz’altro il merito di aver moltiplicato l’attenzione nei confronti delle mie esigenze, sviluppando una sensibilità particolare, vigile e pronta a cogliere nei miei comportamenti quelle che potevano essere delle comprensibili richieste d’appoggio e di rassicurazione, soprattutto in merito alle cause del non riconoscimento, sempre presentato come un generoso atto d’amore, che non andava giudicato ma accolto come un meraviglioso dono.
Ciò che ha favorito la mia serena e completa maturazione è stata la consapevolezza di essere stata adottata per una scelta d’amore, da persone profondamente convinte del loro ruolo genitoriale. Da ogni loro gesto o parola è sempre trapelata l’autenticità di un rapporto affettivo che ha creato radici tanto profonde da essere assolutamente equiparabili a quelle che derivano dai legami di sangue.
E nella quotidiana esplicitazione di questo rapporto d’amore, unico e speciale, si è definita e completata la mia identità.
Il fatto che il nostro Stato, al momento, non abbia ancora accolto una simile posizione, dando prova, secondo taluni, di scarsa “modernità” e persistente “inflessibilità”, mi rasserena un poco; anche se la strada continua ad essere in salita a causa di un’opinione pubblica incapace di affrancarsi da un comune sentire prodotto e alimentato da media sempre più disinformati e parziali.

Concludo dando la disponibilità mia e di altri figli adottivi ad approfondire quanto esposto con i Deputati cui la presente è indirizzata, ai quali chiedo comunque fin d’ora di prendere  in considerazione, per i motivi esposti,  il ritiro della proposta in oggetto.

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