ADOZIONE E LEGISLAZIONE RAZZIALE NELL’ITALIA FASCISTA
“Anche l’adozione è stata vittima delle leggi razziali” ha ricordato un partecipante al Convegno “GIORNATA EUROPEA DELLA GIUSTIZIA CIVILE – ADOZIONE, PORTA DELLA CULTURA DELL’ACCOGLIENZA” (Firenze, 25 ottobre 2008).
Ricorre quest’anno il settantesimo anniversario dell’entrata in vigore delle leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei di nazionalità italiana. Queste norme vergognose hanno favorito persecuzioni e deportazioni che hanno concorso al tragico olocausto.
Nel luglio 1938 venne pubblicato il “Manifesto della razza” in cui si affermava il concetto biologico di razza, l’esistenza della pura razza italiana di origine ariana e l’estraneità ad essa degli ebrei.
Il razzismo di stato comprendeva sia l’antisemitismo italiano, sia il razzismo coloniale.
Anche l’adozione ha pagato, in un certo senso, il suo contributo all’antisemitismo fascista. Nel Codice Civile approvato con R.D. 16 marzo 1942 n. 262, l’Art. 292 era infatti intitolato “DIVIETO DI ADOZIONE PER DIVERSITÀ DI RAZZA” e stabiliva: “L’adozione non è permessa fra persone di razza ariana e persone di razza diversa”. Il Re o le autorità a ciò delegate potevano accordare dispensa dall’osservanza di questa disposizione.
Rispetto al Codice Civile del 1865 (art. 202), veniva introdotto un ulteriore requisito per l’adozione, in aggiunta all’età per adottare (50 anni), al differenziale di età dell’adottando (18 anni), all’assenza di discendenti. Il nuovo, fantomatico, requisito era la purezza della razza, ma ebbe breve vita.
Nell’Italia liberata, l’art. 292 del C.C. venne infatti presto abrogato (art. 3, decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944 n. 287). Al Nord la guerra continuava e i problemi erano altri.
Queste brevi note significano un invito alla riflessione “storica” ed auspicano una migliore e più consapevole idea di adozione, traendo dai tragici eventi del passato una speranza per affrontare nuovi traguardi.
Fabrizio Papini
I 30MILA BIMBI ITALIANI
CLANDESTINI IN SVIZZERA
“Non ridere, non piangere, non giocare”
Quando, negli anni 70, eravamo noi
a nasconderci
Le mogli e i bambini degli immigrati? “Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettro d’una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini. Dobbiamo liberarci del fardello.” Chi l’ha detto: qualche xenofobo nostrano contro marocchini o albanesi? No: quel razzista svizzero di James Schwarzenbach. Contro gli italiani che portavano di nascosto decine di migliaia di figlioletti in Svizzera. E non nell’800 dei dagherrotipi: negli anni settanta e ottanta del ‘900.
Quando Berlusconi aveva già le TV e Gianfranco Fini era già in pista per diventare il leader del Msi.
Per questo è stupefacente la rivolta di un pezzo della destra contro la sentenza della Cassazione, firmata da Edoardo Fazzioli, che ha assolto l’immigrato macedone Ilco Ristoc, denunciato e processato perché non si era accontentato di portare in Italia con tutte le carte in regola (permesso di soggiorno, lavoro regolare, abitazione decorosa) solo la moglie e il bambino più piccolo ma anche la figlioletta Silvana, che aveva dodici anni. Cosa avrebbe dovuto fare: aspettare di avere una giorno o l’altro l’autorizzazione ulteriore e intanto lasciare la piccola in Macedonia? A dodici anni? Rischiando addirittura, al di là del trauma, il reato di abbandono di minore? Macchè. Il leghista Paolo Grimoldi, indignato, si è chiesto “se la magistratura sia ancora un baluardo della legalità oppure il fortino dell’eversione”. E la forzista Isabella Bertolini ha bollato il verdetto come “un’altra mazzata alla legalità” e censurato la “legittimazione di un comportamento palesemente illegale”. Lo “stato di necessità” previsto dalla legge e richiamato dalla suprema Corte, a loro avviso, non è in linea con le scelte del Parlamento.
L’uno e l’altra, come quelli che fanno loro da sponda, non conoscono niente della grande emigrazione italiana. Niente. Non sanno che larga parte dei nostri emigrati, almeno quattro milioni di persone, è stata clandestina. Lo ricordano molte copertine della Domenica del Corriere, il capolavoro di Pietro Germi “Il cammino della speranza”, decine di studi ricchi di dettagli (tra cui quello di Simonetta Tombaccini dell’Università di Nizza o quello di Sandro Rinauro sulla rivista “Altreitalie” della Fondazione Agnelli) o lo strepitoso reportage in cui Egisto Corradi raccontò sul Corriere d’Informazione del 1947 come aveva attraversato il Piccolo San Bernardo sui sentieri dei “passeur” e degli illegali.
Non conoscono storie come quella di Paolo Iannillo, che fu costretto ad assumere sua moglie come domestica per portarla a vivere con lui a Zurigo. Ma ignorano, in particolare, come dicevamo, che la Svizzera ospitò per decenni decine di migliaia di bambini italiani clandestini. Portati a Berna o Basilea dai loro genitori siciliani e veneti, calabresi e lombardi, a dispetto delle leggi elvetiche contro i ricongiungimenti familiari. Leggi durissime che Schwarzenbach, il leader razzista che scatenò tre referendum contro i nostri emigrati, voleva ancora più infami: “Dobbiamo respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s’ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l’ex guitto italiano”.
Marina Frigerio e Simone Burgherr, due studiosi elvetici, hanno scritto un libro in tedesco intitolato “Versteckte Kinder” (Bambini nascosti) per raccontare la storia di quei nostri figlioletti. Costretti a vivere come Anna Frank. Sepolti vivi, per anni, nei loro bugigattoli alle periferie delle città industriali. Coi genitori che, terrorizzati dalle denunce dei vicini, raccomandavano loro: non fare rumore, non ridere, non giocare, non piangere, Lucia, raccontano Burgherr e la Frigerio, fu chiusa a chiave nella stanza di un appartamento affittato in comune con altre famiglie, per una vita intera: “Uscì fuori per la prima volta quando aveva tredici anni”: Un’altra, dopo essere caduta, restò per ore ad aspettare la mamma con due costole rotte. Senza un lamento.
Trentamila erano, a metà degli anni settanta, i bambini italiani clandestini in Svizzera: trentamila. Al punto che l’ambasciata e i consolati organizzavano attraverso le parrocchie e certe organizzazioni umanitarie addirittura delle scuole clandestine. E i nostri orfanotrofi di frontiera erano pieni di piccoli che, denunciati dalla delazione di qualche zelante vicino di casa, erano stati portati dai genitori appena al di qua dei nostri confini e affidati al buon cuore degli assistenti: “Tenete mio figlio, vi prego, non faccio in tempo a riportarlo a casa in Italia, è troppo lontana, perderei il lavoro: vi prego, tenetelo”. Una foto del settimanale Tempo illustrato n. 7 del 1971 mostra dietro una grata alcuni figli di emigranti alla Casa del fanciullo di Domodossola: di 120 ospiti una novantina erano “orfani di frontiera”. Bimbi clandestini espulsi. Figli nostri. Che oggi hanno l’età di Grimoldi e della Bertolini.
Dicono: la legge è legge. Giusto. Ma qui il principio dei due pesi e delle due misure nella Costituzione non c’è. E la realtà dice che almeno un milione di italiani vivono oggi in condizioni di sovraffollamento nelle sole case popolari senza essere, come è ovvio, colpiti da alcuna sanzione: non si ammanettano i poveri perché sono poveri. A un immigrato regolare e a posto con tutti i documenti, che sogna di farsi raggiungere dalla moglie e dai figli esattamente come sognavano i nostri emigrati, la nuova legge chiede invece non solo di dimostrare un reddito di 5.142 euro più altri 2.571 per la moglie e ciascuno dei figli ma di avere a disposizione una casa di un certo tipo. E qui la faccenda varia da regione a regione. In Liguria ad esempio, denuncia l’avvocato Alessandra Ballerini, in prima linea sui diritti degli immigrati, occorre avere una stanza per ogni membro della famiglia con più di 14 anni più un vano supplementare libero (esempio: il salotto) più la cucina e più i servizi igienici. Il che significa che una famiglia composta da padre, madre e quattro figli adolescenti dovrebbe avere una casa con almeno sei stanze.
Quanti italiani hanno la possibilità di vivere così? Quando vinse la Coppa dei Campioni, coi soldi dell’ingaggio e del premio per la coppa, Gianni Rivera comprò un appartamento a San Siro.
Il papà e la mamma dormivano nella camera matrimoniale, il fratello nella cameretta e lui in un divano letto in salotto. Se invece che di Alessandria fosse stato di Belgrado, sarebbe stato fuorilegge. Ed era Gianni Rivera, Il campione più amato da un’ Italia certo più povera. Ma anche più serena di adesso.
Gian Antonio Stella (dal “Corriere della Sera”)