Sono nata nel 1966, non riconosciuta alla nascita in virtù di quella legge che permette ad una donna di partorire in assoluto anonimato: dopo soli tre mesi sono stata adottata, ma l’istituto dove ho vissuto in questo breve periodo ha lasciato qualche piccola traccia, quali i capelli consumati dietro la nuca per lo stare sempre sdraiata e il non voler prendere il latte da in braccio, poiché in istituto lo si prendeva sempre da sdraiati nel lettino; sono piccoli segni che però fanno capire quanto col tempo possa diventare devastante l’istituto per un bambino man mano che passano i giorni e quanto importante sia per i genitori adottivi tener conto della esperienza e del vissuto del loro figlio.
Per quanto mi ricordo una delle prime occasioni in cui mi sono incontrata con la mia realtà di figlia adottiva è stata verso i tre anni e mezzo quando, in occasione di una compagna che stava per avere un fratellino, la mamma mi ha spiegato che io non ero nata dalla sua pancia, ma da quella di un’altra donna, e che io ero sua figlia di cuore. Ho così iniziato a incontrarmi con la mia storia, con la verità: già perché è importantissimo secondo me che ai figli venga sempre raccontata la realtà della loro adozione perché nel rapporto genitori-figli nulla è più importante della lealtà e per di più si tende a nascondere qualcosa che ha in sé connotazioni negative; sarebbe stato per me terribile sapere della mia condizione di adottata da più grande, da altri o addirittura solo in occasione di un eventuale matrimonio: sicuramente non avrei la serenità che ho raggiunto oggi!!
Qualche anno più tardi ho chiesto ai miei di raccontarmi bene tutta la mia storia, ho fatto domande, ho ricevuto risposte sicure e rassicuranti, non ho sentito mai parole negative nei confronti dei miei procreatori, tanto da aver maturato la mia situazione di non riconosciuta non come abbandono, ma come gesto di grande responsabilità e amore da parte di chi l’ha compiuto. Eppure in quel momento ho realizzato che a differenza degli altri bambini io non avevo due genitori, ma quattro: per circa due mesi non ho usato i termini mamma e papà, perché quelle due parole avevano un significato troppo profondo per abusarne e per assegnarli senza un’analisi. Ecco che ho preso le distanze, mi sono messa come su un palco e ho osservato i rapporti famigliari intorno a me, mi sono confrontata con parenti, amici, maestra, bambini e adulti per capire cosa rendeva una persona genitore e così ho ripreso ad usare i nomi mamma e papà: erano sicuramente i miei genitori adottivi, perché anche se non mi avevano messo al mondo mi amavano, condividevano con me ogni momento, mi educavano, mi dicevano quei no così odiosi, ma così importanti.
Se qualcuno mi vedesse con i miei genitori adottivi, i miei gesti e i miei atteggiamenti, se sentisse l’intonazione della mia voce, se analizzasse alcuni miei modi di affrontare la vita non avrebbe alcun dubbio nell’affermare che sono figlia loro, in senso assoluto.
Qualche problema è emerso nella fase dell’adolescenza anche se la mia esperienza di insegnante mi ha permesso di valutare questa età così affascinante e non sono in grado di dire quanto dei miei comportamenti fosse dovuto all’età e quanto all’essere figlia adottiva: l’unica cosa sicura è che le miei innumerevoli provocazioni, compreso il ricatto di cercare i genitori biologici, erano dovute alla ricerca della sicurezza del loro amore, del fatto che questo fosse assoluto e incondizionato e il vedere che era così mi ha sicuramente creato una forte stabilità emotiva. Al tutto ha contribuito la presenza di una famiglia intorno che non mi ha mai fatto sentire adottata, nel senso che anche il loro amore era assoluto, non c’erano differenze tra me e gli altri nipoti, tra me e i miei cugini: quando avevo diciotto anni è nata la prima figlia di una mia cugina, che pur avendo una sorella ha scelto me per fare da madrina di battesimo a sua figlia; quale riconoscimento più grande che facevo parte in senso assoluto e totalitario di questa famiglia? Un altro passo per le mie sicurezze.
Tutto questo è stato possibile secondo me sì per il grande amore, ma anche perché mi è sempre stata detta la verità, non mi si è nascosto nulla di ciò che poteva essere detto, tutto è stato vissuto con calore e serenità, quella stessa con cui mi si dice che racconto oggi la mia storia.
Proprio per aver maturato così profondamente il mio essere figlia in toto fa sì che io tenda ad abolire il più possibile gli aggettivi biologico, adottivo, vero: non è solo il dna a fare di un bambino un figlio, non basta partorirlo, ma è tutta la vita che si trascorre insieme a creare il rapporto: anche i figli biologici vengono allevati e se dessero per scontato tutto ciò che è stato fatto per loro commetterebbero un torto nei confronti dei genitori. Siamo tutti un po’ figli adottivi, nel momento in cui riconosciamo genitori quella mamma e quel papà che vivono con noi, che ci amano, ci curano, ci cullano e ci aiutano a diventare grandi: in alcuni casi sono gli stessi procreatori, in altri no, ma sono loro che scegliamo come tali in virtù dell’amore che ci donano.