Non smetto mai di pensare che la mia vita potrebbe essere diversa da quella che sto vivendo ora, anche se mi sembra incredibile immaginarne una differente da questa.

Non ho mai avvertito l’adozione in sé come uno status speciale, né di privilegio né penalizzante. Quando qualche persona mi chiedeva quale tra i miei genitori fosse peruviano non mi sono mai sentita a disagio nel rispondere “nessuno dei due”, anzi spesso, al contrario, a esserlo erano proprio loro. Lo avvertivo dal loro “ah”, oppure “scusa”.

I più arditi si lanciavano anche in un “ma dai…” per poi scivolare in un’altra domanda. L’ho sempre trovato molto divertente anche perché non ho mai capito bene che cosa esattamente potessero pensare che io provassi. Crescendo, quello che mi faceva sentire diversa non era il fatto di essere adottiva, cioè il fatto di avere due genitori che non erano quelli biologici, bensì quello di avere tratti somatici tutti miei, la pelle scura e soprattutto due genitori bianchi. Probabilmente è dovuto al fatto che io non ho conosciuto i miei genitori biologici e non ho trascorso molto tempo in istituto. Sono stata adottata quando avevo 5 mesi. Il mio percorso è dunque molto diverso da quello di altri bambini che ho avuto modo di conoscere.

Sono stata allevata con la cultura dei miei parenti, ne ho assorbito come una spugna i valori e i costumi. In Puglia, ho respirato l’odore della vigna dei miei nonni, ho raccolto l’uva dai tralci e ho fatto mia la sensazione di terra sotto i piedi nudi. Il pane e la pasta si cuociono ancora nel forno e la cena non viene servita mai prima delle nove di sera. Di Torino quello che mi piace è essere torinese. Quando sono all’estero tento sempre di spiegare che cosa vuol dire essere “turinèis”: educazione, riservatezza e discrezione. Mia nonna ha sempre fatto in modo che avessi sempre un fazzolettino di stoffa, e non di carta, nella mia tasca e mi ha sempre raccomandato di sistemare i capelli sempre ben dietro le orecchie. Amo il sole perché è vitale, mette allegria e riscalda, ma amo anche il cielo grigio e la nebbia che sale dal Po. Torino mi rappresenta come nessun altra città potrebbe fare.

A questo miscuglio di radici da pochi anni si è aggiunta la mia cultura di origine, quella peruviana, che devo ancora conoscere e approfondire. Non ho mai avuto una particolare curiosità in merito, anzi, ero più affascinata dalle piramidi e dai babilonesi piuttosto che dagli Incas. I miei genitori hanno sempre fatto in modo di comprarmi libri e di tenermi costantemente aggiornata sul mio Paese, ma è solo da qualche anno, con la grande ondata di immigrazione peruviana in Torino e dopo un’esperienza estiva in un campo internazionale, che ho deciso che era arrivato il momento di prendere in seria considerazione lo studio e la conoscenza dello spagnolo e delle mie origini.

Il primo giorno del campo è capitato che molti tra gli studenti sudamericani mi fermassero interpellandomi in espanol, o meglio ancora in quecha, un dialetto peruviano. All’inizio trovavo la cosa molto divertente, ma poi questo mi ha fatto riflettere. A forza di ripetere: «Mi spiace ragazzi, non vi capisco, sono italiana» mi sentivo molto ridicola perché è vero che parlo italiano ma di fatto non lo sono, per lo meno agli occhi degli altri. A poco, a poco i ragazzi sudamericani non hanno più tentato di stabilire un contatto con me perché vedevano in me un comportamento, a loro dire, tipicamente “europeo”, come se volessi frapporre barriere tra me e loro visto che per comunicare ero costretta a usare l’inglese, un idioma tipicamente coloniale.

Ho pensato allora che ero una bianca, ma con una faccia nera e che mi esprimevo come i bianchi pur essendo di colore. All’inizio credevo di essere di fronte a un bivio. Era come se mi sentissi in dovere di scegliere tra loro e tutto quello che rappresentava la mia educazione e segretamente temevo che se avessi preso una strada me ne sarebbe stata preclusa un’altra e che, in ogni caso, avrei perso qualcosa.

Successivamente mi sono crogiolata nell’idea che invece nessuno doveva avere diritti su di me e che tanto meno poteva obbligarmi a scegliere una via. In questo modo io non appartengo a nessun posto, ad alcun luogo preciso e di conseguenza ero libera di andare e di essere chi volevo.

Ma è stata un’illusione e un’ingenuità perché tutti noi dobbiamo scoprire chi siamo e da dove veniamo per capire dove vogliamo andare.

Ecco la ragione per cui ora mi spiacerebbe ritornare nella mia terra natia guardando quei luoghi meravigliosi come se fossero di un Paese straniero qualunque, alla pari di una comune turista. Tornare in Perù è uno dei progetti che ho in serbo dopo la laurea e mi auguro di poterlo vivere assieme ai miei genitori, sempre che riesca a convincere mia mamma a salire sull’aereo.