In un mondo dove si può nascere ormai in tanti modi, da un ovulo diverso, da un freezer, creati in un laboratorio, io sono nata grazie al vecchio e supercollaudato metodo naturale. Sono stata concepita da un uomo e una donna diversi dai miei attuali genitori.

I miei primi anni di vita sono come il buio: per la mia famiglia e per me è come se io fossi nata tre anni dopo, quel 30 maggio 1971 in cui sono diventata figlia dei miei genitori e sorella di un bambino, Simone, nato dai miei.

La mia storia è il frutto di quelle prime adozioni internazionali, così poco conosciute in Italia alla fine degli anni Sessanta.

Mamma e papà scelsero la bambina, che in Corea non sarebbe stata curata perché malata di tubercolosi polmonare, in un istituto, in cui sono tornata più tardi in una sorta di “gita alla ricerca delle fatidiche origini”.

Crescere è molto duro e io ho sofferto parecchio durante l’adolescenza. In quel periodo di sconvolgimento mi sembrava che l’unico rifugio fossero quelle persone che mi avevano concepito, ma che non mi avevano amato, e quel paese da dove venivo, ma che non conoscevo.

Siamo partiti una sessantina di persone, tra famiglie intere, figli soli, parenti e amici, per vedere quella benedetta Corea e scoprire perché dentro me stessa pur parlando piemontese, pensando e muovendomi come i miei coetanei, gli altri per strada mi guardavano come se fossi un marziano.

Arrivammo a Seul: la Corea, questo paese così affascinante e misterioso che mi aveva catapultata nella vita attraverso un enorme Boeing bianco e che mi ha fatto desiderare caffè, pasta e pizza per tutti i quindici giorni di permanenza. Lì ho trovato i miei simili: fisicamente uguali a me, ma che non capivo. Non ho più nulla di coreano, non parlo coreano, non mi piace la cucina coreana, né mi muovo o mi vesto come un coreano: ho solo l’etichetta che mi dà la gente.

Siamo andati presso l’istituto dove ero stata ricoverata: non ricordavo nulla e nessuno, sia perché l’istituto era stato rimodernato, sia perché le persone che vi lavoravano quando c’ero io non c’erano più. Ancora oggi l’istituto è un ricovero per bambini abbandonati e noi ci siamo rivisti come in un film: è stata una fitta al cuore vedere quei bambini che volevano essere presi in braccio e ti si aggrappavano con tutte le loro forze….li avrei presi tutti.

Al ritorno in aereo incontrammo dei bambini coreani che andavano in adozione in Francia ed è stato come fare quello stesso viaggio che mi portò dai miei genitori.

È naturale che ci sia il desiderio di scoprire chi si è, da dove si viene e dove si vada, ma credo che sia importante vedere e sapere con serenità, come pura acquisizione di informazioni, quindi conoscere il proprio passato senza crearsi chissà quali aspettative, perché a nessuno, nemmeno ai figli biologici, è dato scegliere di nascere o da chi nascere.

Crearsi aspettative basate sul desiderio di scoprire chi si è si rivela dunque un errore; c’è un trascorso umano ed emotivo che lascia il segno perché è tuo, perché è parte del tuo bagaglio di esperienza, come il fatto di non ricevere affetto per tre anni o di non camminare bene perché nessuno ti stimola a farlo. Il cosiddetto stato di abbandono, prima che una formula giuridica, è una situazione di fatto che segna dentro, nel profondo del tuo io; è una ferita che si cicatrizza, ma che lascia un segno, un dato di fatto con il quale so che dovrò sempre convivere, con l’aiuto dei miei genitori.