Si può affermare che il “pallino” dei bambini senza famiglia mi ha accompagnato, per misteriosi motivi, per tutta la mia infanzia e giovinezza, prima ancora di averne consapevolezza; non esiterei, se dovessi usare un lessico religioso, a chiamarlo “vocazione”.
Una volta sposata, questo desiderio di “preoccuparsi” di questi bambini venne fortunatamente accolto e condiviso da mio marito con il quale, di fronte all’impossibilità di avere un figlio nostro, fu facile “passare” automaticamente alla scelta adottiva.
Dopo alcune visite al brefotrofio (trent’anni fa esisteva questo istituto nel quale si trovavano molti bambini “senza famiglia” e quindi adottabili), ci sembrò naturale dedicarci ad un bambino grandicello, anche se noi eravamo ancora molto giovani, perché lo consideravamo il più bisognoso di cure e affetto tra gli sfortunati suoi piccoli compagni.
Alessandro viveva lì già da qualche anno e forse i responsabili dell’istituto erano ormai convinti che non si sarebbe trovata la famiglia adatta per lui ma, di fronte alla nostra precisa scelta, ci indirizzarono verso le necessarie pratiche burocratiche per attivare l’adozione che, ovviamente, venne ratificata dal Tribunale per i Minorenni di Torino. Certamente questo è un iter insolito per l’adozione nazionale, ma occorre dire che quella di Alessandro è un’adozione che oggi viene chiamata “difficile”. Per noi è stato molto facile accoglierlo e amarlo come figlio e lui ci è venuto incontro con grande determinazione, scegliendoci a sua volta come suoi genitori.
Ugualmente, alcuni anni dopo, stimolati in questo da nostro figlio, avviammo un’altra esperienza di accoglienza di una bambina anch’essa non più neonata. Si è trattato in realtà di quella che oggi viene chiamata “adozione a rischio giuridico” (che ha peraltro comportato alcuni incontri con il padre di origine della bambina) ma che dopo qualche anno si è regolarizzata e Chiara è diventata nostra figlia in modo definitivo.
Con entrambi abbiamo sempre parlato con naturalezza della loro nascita adottiva e, mentre Alessandro voleva risposte sempre più puntuali e precise, le esigenze di Chiara su questo tema sono state meno intense.
Questi i fatti ma dire cosa ha significato per noi questo percorso e stenderne un’analisi e un commento è un’impresa di cui non mi ritengo capace. Dico solo che è stata, ed è ancora, un’esperienza di grande spessore e di grande impegno, i cui frutti, in termini umani, non sono certamente calcolabili.
Tuttavia, pur consapevoli dell’inconoscibile mistero delle motivazioni e del valore di tutte le nostre azioni, non è mai venuta meno in me e Riccardo, anche nei momenti più bui (legati principalmente a problemi di salute dell’uno o dell’altro figlio), la fiducia nella bontà delle nostre scelte.
Caso mai possiamo a volte avere avuto dubbi sulle nostre capacità di educatori ma, e me ne rendo conto ora perché sto scrivendone, mai ci siamo “ricordati” che Alessandro e Chiara non sono nati da noi.
Nora, la mamma di Alessandro e Chiara