a cura di Emilia De Rienzo
Dopo una serie di incontri tenuti sia a Milano sia in altre parte di Italia, mi sembra opportuno sintetizzare alcuni punti fondamentali emersi nei vari dibattiti che sono sempre stati ricchi e coinvolgenti.
Le nuove sfide che la scuola deve affrontare richiedono un serio ripensamento, una diversa organizzazione e nuovi percorsi didattici.
In particolare bisogna tener presente che le famiglie sono cambiate: sono presenti le famiglie adottive, quelle affidatarie, le famiglie separate, le famiglie monoparentali e le famiglie di immigrati e di questo non si può non tener conto.
Nella scuola, a partire a volte anche dalla materna, viene molto spesso richiesto di “ricostruire l’albero genealogico della famiglia o di ricostruirne la storia…” Si richiedono fotografie, in alcuni casi perfino l’ecografia, si fanno domande sulla primissima infanzia, su come si sentiva la mamma in gravidanza e così via.
Il fatto che questo tipo di attività sia ancora molto presente nelle scuole rivela quanto ancora venga poco presa in considerazione la presenza di bambini adottati, affidati, ma in generale i cambiamenti che ci sono stati nella famiglia ed è quindi importante lavorare sull’informazione e sulla sensibilizzazione degli insegnanti.
E’ necessario pertanto che le proposte didattiche sappiano tener conto dei problemi che possono provocare incontrando le storie e le sensibilità dei bambini.
Un’insegnante ha fatto la proposta di sostituire la storia della famiglia con la storia del quartiere, un’altra insegnante quella di costruire un albero genealogico fantastico con personaggi inventati.
Sulla storia dei bambini sono emersi alcuni punti fondamentali di cui tener conto.
I bambini amano parlare di sé, qualcuno lo fa più spontaneamente, altri meno, ma tutti vorrebbero nel profondo del loro animo che la loro storia fosse conosciuta, apprezzata e valorizzata per quello che è. Ma bisogna avvicinarsi in punta dei piedi, aspettare che siano loro a parlare, a raccontarsi Per aiutare i bambini a raccontarsi bisogna aver ben presente che non per tutti è facile farlo, che ogni forzatura è inopportuna proprio perché si entra in un campo molto delicato e sensibile.
Quando un bambino pensa alla propria storia entra anche in contatto con la parte di sé più profonda: ogni ricordo evoca emozioni, l’assenza di ricordi può evocare una mancanza, qualcosa che non si può ancora dire.
E’ importante conoscere la storia di un bambino, che però, non è semplicemente una raccolta di dati anamnestici. Il passato si incide nei cuori, nell’anima, si trasforma in dolore, sofferenza o gioia e serenità, si trasforma in un linguaggio che non è sempre quello della parola ma quello dei gesti, dei comportamenti (quando un bambino è per esempio aggressivo, svogliato, disattento, quando si sente inadeguato, quando si isola dagli altri, o parla troppo… sta raccontando qualcosa di sé).
Conoscere la storia di un bambino significa capire quali segni questa storia ha lasciato in lui, non fermarsi a quello che appare che ci porta spesso a dare giudizi affrettati e rigidi.
Il bambino quindi ha bisogno di parlare di sé, ma non sempre è pronto a raccontare la propria storia.
Su questo tema abbiamo quindi individuato un percorso di lavoro.
L’insegnante può cominciare parlando di emozioni e sentimenti. Si può iniziare con letture scelte e aprire una discussione con i bambini.
I bambini cominciano a parlare e imparano nello stesso tempo ad ascoltare.
Se qualcuno tace inizialmente non lo si deve forzare. Si potrà parlare con lui individualmente per capire le ragioni del suo silenzio o per aiutarlo a vincere la sua timidezza.
Alcuni obiettivi da raggiungere:
• I bambini imparano ad ascoltare l’altro senza giudicarlo.
• Imparano a parlare di emozioni e di sentimenti vincendo gradualmente quel senso di vergogna che spesso impedisce loro di aprirsi.
• Solo imparando ad ascoltare, possono imparare a dialogare, cioè a scambiarsi opinioni, idee, a farsi domande l’un con l’altro.
• Prendono coscienza che ognuno è unico e irripetibile.
• Ognuno dovrà essere guidato a vedere la diversità come ricchezza e non in modo gerarchico (chi è migliore o chi è peggiore).
E’ fondamentale però che da parte dell’insegnante sia chiaro un presupposto: le emozioni e i sentimenti degli allievi devono essere accolti e riconosciuti come aspetti strettamente legati all’esperienza e non come ostacolo o disturbo allo svolgimento del programma, solo allora il bambino può trovare la forza di raccontarsi, di appropriarsi della propria storia, anche se a volte dolorosa, come un valore e non come un motivo di esclusione da tutti gli altri.
Un altro passaggio importante è aiutarli a costruire un buon clima di classe:
I ragazzi potranno interrogarsi su cosa vuol dire per loro “star bene insieme”, quali sono le cose che aiutano ognuno a sentirsi a proprio agio con gli altri, cosa invece glielo impedisce.
Dovranno essere guidati a fare esempi concreti, non generici. Solo dalla concretezza dell’esperienza vissuta potranno rendersi conto di cosa fa bene e di cosa fa male.
L’insegnate dovrà imparare a mettersi in gioco nella relazione educativa con ognuno di loro e con la classe nella sua interezza
Non dobbiamo dimenticare che prima di tutto, tutti i bambini, anche quelli apparentemente più equilibrati hanno bisogno di atmosfere calde ed umane per crescere sani e che comunque la quotidianità è terapeutica di per sé, senza una buona quotidianità non esiste cura che tenga.
In questo contesto proprio il bambino più difficile, con una storia alle spalle più problematica dovrà capire che il posto dove è entrato, è un posto speciale dove anche lui, che si sente a volte triste, arrabbiato, solo, senza spesso neanche capire fino in fondo perché, troverà un luogo caldo e disponibile ad ascoltarlo, ad ascoltare non solo quello che sa, ma anche quello che sente.
Non è tanto importante cosa ti dicono, ma come si sentono con noi
Questo vuol dire fare della scuola un luogo dove “non si chieda di essere ‘forti’, ma una scuola che sappia vedere nelle persone individui non etichettabili, che riconosca “la molteplicità”: ogni individuo si può esprimere in diversi modi e questo riconoscimento, ossia non etichettare, è vantaggioso anche per quei bambini che si considerano “normali” per poter assumere e abitare le molteplici dimensioni della fragilità.
Ogni bambino ha bisogno di dialogare anche con la parte più debole di se stesso per potersi rafforzare e per poter affrontare con serenità i propri problemi o accettare i propri limiti.
Se il bambino sa che ogni vita ha la sua dignità, ogni storia può essere raccontata e trovare degli ascoltatori e non dei giudici, dentro di sé potrà tentare di indagare su se stesso, di accettare ciò che dentro di sé è ancora un’ombra. Non racconterà necessariamente una storia, ma comincerà a dialogare con gli altri sui propri ed altrui vissuti perché c’è uno spazio psicologico in cui farlo.
Questo è un punto fondamentale: prima di poter parlare della propria vita bisogna chiedersi se il terreno in cui va a cadere la propria storia è preparato ad ascoltare e a comprendere.
Col tempo ogni bambino potrà imparare a raccontarsi e a ritessere le fila della sua vita e sarà possibile l’accettazione della sua storia e quindi di se stesso, se ci sarà cioè il riconoscimento dell’altro e sentirà l’appartenenza al gruppo non come gregario, ma come attore e individuo nella sua autonomia.