(tratto da Prospettive assistenziali n. 159-160-161-162)
LETTERA APERTA SUI SOGGIORNI IN ITALIA DEI MINORI DELLA BIELORUSSIA
Riportiamo la lettera aperta al Ministro della famiglia Rosy Bindi; al Ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero; al Sottosegretario alla famiglia Chiara Acciarini; al Sottosegretario della Solidarietà sociale Cristina De Luca; alla Presidente ed ai Componenti della Cai (Commissione per le adozioni internazionali), inviata dalla presidente dell’Anfaa in data 25 giugno 2007.
Con la presente intendiamo esprimere il profondo dissenso dell’Anfaa in merito al “Protocollo recante integrazioni e modifiche al Protocollo di collaborazione tra il Ministero dell’istruzione della Repubblica di Belarus e la Commissione per le adozioni internazionali” che prevede al punto 1.9 bis: «Gli aspiranti all’adozione che intendono adottare il minore ospitato durante i soggiorni di risanamento, presentano, attraverso gli enti autorizzati, all’organo di tutela e curatela del luogo di residenza (domicilio) del minore la domanda per l’inserimento del minore stesso nell’elenco dei minori nei confronti dei quali è possibile effettuare l’adozione internazionale. Nel caso dell’avvenuto inserimento del minore nell’elenco dei minori, nei confronti dei quali è possibile effettuare l’adozione internazionale, il Centro informa gli aspiranti all’adozione attraverso l’Ente autorizzato».
Esponiamo in breve i motivi del nostro dissenso, precisando che, in merito ai suddetti soggiorni condividiamo l’analisi di Giulia De Marco contenuta nella sua relazione in apertura della sessione “La famiglia che accoglie” in occasione della recente Conferenza nazionale della famiglia.
Dopo un’analisi attenta e critica del fenomeno, Giulia De Marco, ha richiamato «il pericolo sottolineato anche da emeriti osservatori stranieri (…) che attraverso i soggiorni climatici si crei un canale parallelo di adozioni internazionali. Infatti, poiché molti minori sono in condizione di abbandono, istituzionalizzati da anni, si crea un’aspettativa alla loro adozione da parte delle famiglie che li ospitano e che sovente sono prive dei requisiti richiesti dalla Convenzione dell’Aja e dalla nostra legge nazionale. Più volte la Magistratura si è trovata di fronte a richieste di adozione di bambini che non erano stati dichiarati adottabili dal Paese di origine da parte di famiglie italiane che, pur non essendo in possesso del decreto di idoneità, ritenevano di aver maturato il diritto di adottarli per il solo fatto di averli ripetutamente ospitati nel corso degli anni. Richiesta che si scontra con il diritto privato internazionale, con la legge interna del Paese di origine del bambino, con la legge italiana sull’adozione, con la Convenzione dell’Aja ma che ha trovato sovente nell’opinione pubblica e nei mass media un appoggio basato più sul sentimentalismo che non sul doveroso rispetto delle regole che i paesi si danno».
Infatti la Convenzione dell’Aja in materia di adozione internazionale, ratificata anche dall’Italia e dalla Bielorussia, impone – al fine di rispettare il principio di sussidiarietà cui l’adozione internazionale deve rispondere – che ogni procedura inerente l’adozione debba essere avviata successivamente alla dichiarazione di adottabilità del bambino e previa verifica dell’impossibilità di trovare per lui una famiglia adottiva nel suo Paese di origine.
A ulteriore tutela del bambino, la nostra legislazione (legge n. 184/1983 e successive modifiche) ha inoltre previsto la preventiva dichiarazione di idoneità della coppia all’adozione prima che la stessa inizi ogni contatto in vista dell’adozione.
L’articolo 9 bis del Protocollo sottoscritto dalla Presidente della Commissione per le adozioni internazionali, Roberta Capponi, col Ministro dell’istruzione della Bielorussia è, a nostro parere, in contrasto con le norme suddette – che sono state approvate a tutela dei minori in stato di adottabilità – e ne legittima l’aggiramento. Oltretutto questo accordo non si limita solo ad una “sanatoria” nei confronti dei bambini bielorussi già ospitati dalle famiglie che, in base al precedente Protocollo del dicembre 2005, già ne avevano chiesto l’adozione nominativa, ma viene esteso ai bambini che verranno in Italia nei prossimi soggiorni. Ricordiamo che il recente accordo sui soggiorni solidaristici sottoscritto in merito dal Ministro Ferrero riguarda anche, purtroppo, i minori ricoverati negli istituti della Bielorussia.
In merito concordiamo con quanto scritto nella lettera inviata il 24 aprile 2007 al Ministro per la solidarietà sociale da Francesco Santanera, che ha rilevato quanto segue: «Mentre non ci sono problemi (salvo l’idoneità di coloro che li accolgono) per i fanciulli che vivono in famiglia e quindi hanno stabilito rapporti affettivi con i loro congiunti, c’è il reale pericolo di arrecare danni anche gravissimi ai bambini istituzionalizzati.
Due sono soprattutto le conseguenze:
1. Gli effetti negativi dei soggiorni dei bambini istituzionalizzati non vengono da me segnalati solo adesso, ma sono stati oggetto di interventi ripetuti negli anni scorsi, soprattutto nel periodo ’60-’70, ad esempio nei riguardi delle iniziative assunte da alcuni enti, come l’ex-Onmi e varie organizzazioni private. Dette iniziative avevano lo scopo di inserire, per qualche giorno oppure per una o due settimane, presso famiglie bambini ricoverati in istituto. C’è voluto del tempo e tanto impegno da parte nostra, ma dette iniziative sono cessate da anni, soprattutto perché numerosi promotori, dopo le inevitabili resistenze iniziali, ne hanno constatato gli effetti particolarmente negativi. Infatti i bambini, che vivono in istituto, hanno subito e subiscono i deleteri effetti della carenza di cure familiari, come da oltre 50 anni è stato evidenziato da tutti gli esperti; in particolare ricordo la ricerca svolta per conto dell’Organizzazione mondiale della sanità da John Bowlby. Quando il soggiorno termina, il bambino istituzionalizzato vive la separazione da coloro che lo hanno ospitato come un vero e proprio abbandono;
2. Problemi aperti in materia di adozione. Essere adottati significa diventare figli di persone dalle quali non si è stati procreati. Poiché si tratta di un obiettivo che deve essere perseguito nell’assoluto interesse dei minori, occorre che gli aspiranti adottanti siano rigorosamente selezionati e accuratamente preparati. Anche sulla base delle negative e spesso drammatiche esperienze delle adozioni fallite, vi è la necessità di evitare ogni forma di appropriazione dei bambini da parte degli adulti, come d’altra parte è precisato in tutte le Convenzioni internazionali in materia di adozione».
La stessa Presidente della Cai, Roberta Capponi, alla Conferenza nazionale della famiglia di Firenze ha segnalato il fortissimo divario esistente tra il numero degli aspiranti genitori adottivi e quello dei minori stranieri adottati. Ha ricordato inoltre che, a fronte delle circa 3 mila adozioni internazionali che vengono realizzate ogni anno nel nostro Paese, presso la Cai sono già depositate oltre 12 mila pratiche di coppie che, ritenute idonee all’adozione, hanno conferito l’incarico ad un ente autorizzato. Ci sarebbero quindi già pronti, potenzialmente, i genitori per i minori adottabili nei prossimi quattro anni!
Va pertanto considerato il rischio della “induzione all’abbandono” che questi soggiorni possono presentare e non vanno sottovalutate neppure le conseguenze negative che questa prassi può avere sia sull’accertamento della situazione di adottabilità del minore – che in questi casi avviene a posteriori – sia sulla reale capacità affettiva ed educativa degli aspiranti adottanti. Sono infatti ben diversi i problemi che si debbono affrontare nell’ospitare un bambino per periodi di vacanza più o meno lunghi rispetto a quelli che si presentano quando si diventa a tutti gli effetti genitori di un bambino che, avendo alle spalle molto spesso una storia difficile, porrà inevitabilmente – una volta finita la cosiddetta “luna di miele” – i genitori di fronte ai suoi reali problemi di inserimento.
Significative al riguardo le conclusioni della relazione della dottoressa Alessandra Moro, psicologa psicoterapeuta, responsabile dell’Unità operativa équipe adozioni dell’Ulss 16 di Padova, che al recente convegno “Apprendere dall’esperienza. Attese, realtà e prospettive dell’adozione nazionale e internazionale” (Torino 22, 23 e 24 novembre 2006) ha svolto una relazione sulle adozioni nominative di bambini provenienti dall’area di Chernobyl, evidenziando come esse si collochino «al di fuori e talvolta in senso opposto ai normali percorsi adottivi. Ciò che appare difficile da gestire è il capovolgimento, il paradosso della situazione: i servizi, su mandato del Tribunale, sono chiamati a valutare la genitorialità adottiva di persone che si sentono già idonee e che hanno già il figlio che vogliono adottare. Sono disponibili ad adottare bambini grandi, spesso alle soglie dell’adolescenza, con situazioni di rischio sanitario importanti, che hanno “tenuto in prova” a casa loro per periodi più o meno lunghi, a volte ripetuti negli anni».
Non bisogna dimenticare inoltre le conseguenze negative sui bambini che in Italia vengono accolti in famiglia e che provengono dagli istituti della Bielorussia. Come ha giustamente osservato Pasquale Andria, allora Presidente dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia e attuale Presidente del Tribunale per i minorenni di Potenza, «con l’alibi umanitario di assicurare trattamenti terapeutici o permanenze climatiche favorevoli ai bambini che ne hanno bisogno (così essi nacquero dopo Cernobyl), in realtà procurano ai bambini gravissime sofferenze a causa di una disumana e prolungata instabilità, con reiterati e traumatici distacchi. Tra l’altro, tutto è gestito da associazioni private, fuori da ogni controllo».
Pasquale Andria riferendosi ai disegni di legge sugli affidi internazionali, presentate da alcuni parlamentari nella scorsa legislatura e ripresentati anche nella attuale, ha quindi precisato: «Una legge che preveda un istituto quale quello progettato, conterrebbe una sorta di messaggio a continuare su questa linea e finirebbe per reintrodurre surrettiziamente una nuova forma di adozione “fai da te”, forse ancora più deregolata di quella che abbiamo conosciuto in passato». Circa questi soggiorni in Italia di minori stranieri, segnaliamo anche quanto sostenuto in merito da Padre Wielsaw Stepien, direttore della Caritas nazionale della Chiesa cattolica latina d’Ucraina (cfr. Avvenire del 27 aprile 2002). Dopo aver ricordato che il movimento dell’accoglienza – che in Italia mobilita centinaia di organizzazioni, cattoliche e laiche, e migliaia di volontari e famiglie – “fattura” ogni anno oltre 40 milioni di euro di spese, Padre Wielsaw sottolinea che «noi [la Caritas, ndr] gestiamo quattro centri in aree non contaminate dell’Ucraina. In detti centri dal 1997 abbiamo cominciato ad accogliere bambini da 7 a 13 anni, selezionati in relazione ai problemi sanitari, al grado di esposizione alle radiazioni, alle condizioni economiche delle famiglie. Ospitiamo spesso intere classi provenienti da orfanotrofi statali. Per tutti prevediamo turni di 23 giorni, durante i quali garantiamo analisi e cure mediche, ma anche programmi educativi, di ricreazione, di formazione religiosa. L’anno scorso siamo arrivati ad accogliere 2.700 bambini, ognuno dei quali ci costa 7 euro al giorno, circa 150-160 euro a soggiorno».
Poiché con la spesa che si sostiene per la permanenza in Italia di un bambino, in Ucraina ne potrebbero essere ospitati dieci, non sarebbe preferibile, come propone Padre Wielsaw, che venissero finanziati gli interventi locali? E questo anche perché, come osserva ancora il direttore della Caritas, i soggiorni terapeutici in patria non solo hanno effetti collaterali benefici sull’occupazione e sull’economia ucraina, ma soprattutto «evitano ai bambini un doppio choc: l’impatto con una realtà socio-economica completamente altra e poi il rientro in un contesto meno ricco e più problematico (soprattutto quando si tratta di un orfanotrofio). Questo doppio choc può essere causa di disagio, disorientamento e insoddisfazione, nella psicologia del minore e nelle relazioni familiari».
Deve poi anche far riflettere tutti anche il fatto che agli inizi del 2007 l’associazione “Legambiente solidarietà”, che era stata inizialmente una delle più grandi e convinte promotrici dell’esperienza e che da ben tredici anni organizzava soggiorni terapeutici, abbia decisamente cambiato indirizzo di rotta, decidendo di sospendere i soggiorni in Italia per i bambini di Chernobyl, promuovendo e finanziando invece sostegni concreti in loco alle Ong (Organizzazioni non governative) e alle istituzioni locali onde favorire un più efficace intervento. Angelo Gentili, responsabile del Progetto Chernobyl, ha affermato che “Legambiente solidarietà” è giunta a questa conclusione affermando che «pur riconoscendo il valore solidaristico dell’ospitalità, soggettivamente motivato, occorre interrogarsi sulle ricadute per quanto riguarda le modalità e le finalità con cui questi progetti di accoglienza vengono realizzati. È importante attivare un percorso di verifica e controllo da parte delle autorità competenti del nostro Paese per garantire una maggiore tutela dei minori».
Concludendo, in base a quanto esposto, chiediamo che il Protocollo integrativo in questione venga modificato limitando la “sanatoria” agli “abbinamenti” già avvenuti e, contemporaneamente, avviando i necessari rapporti con il Ministro della solidarietà Paolo Ferrero, affinché i soggiorni di minori stranieri in Italia siano limitati a quelli che vivono in famiglia
CONVEGNO NAZIONALE SULL’AFFIDAMENTO FAMILIARE di minori a scopo educativo ORGANIZZATO DALLA REGIONE PIEMONTE A TORINO IL 21 E 22 FEBBRAIO 2008
Al fine di contribuire alla conoscenza e al confronto sulla variegata realtà dell’affidamento oggi, anche attraverso esperienze messe in atto in altre realtà territoriali e dal privato sociale, la Regione Piemonte organizza a Torino, il 21 e 22 febbraio 2008, un convegno nazionale sul tema dell’affidamento familiare.
Gli obiettivi si possono così sintetizzare:
– ridefinire il ruolo e le potenzialità dell’affidamento nell’ambito delle priorità definite dalla legge n. 184/1983, tenendo conto che deve essere disposto nei casi in cui non sia praticabile, anche temporaneamente, un supporto alla famiglia d’origine tale da consentirvi la permanenza del minore e non sussistono le condizioni per la dichiarazione dello stato di adottabilità;
– ribadire il valore dell’affidamento familiare quale strumento per aiutare un minore in difficoltà e sostenere nel contempo la sua famiglia di origine;
– mettere in evidenza le competenze istituzionali riguardanti le condizioni occorrenti per la realizzazione degli affidamenti come presupposti per la loro riuscita (Parlamento, Governo, Regioni, Comuni, Magistratura minorile, ecc.);
– presentare buone prassi di affidamento, attraverso testimonianze dirette da parte dei soggetti interessati.
Nell’ambito di questo evento sono previste le seguenti iniziative:
1. una mostra sulle iniziative di sensibilizzazione ed informazione sull’affidamento organizzate dai servizi pubblici e dalle associazioni, allo scopo di documentare la storia e l’evoluzione dei linguaggi, delle immagini e dei messaggi utilizzati nel corso degli anni. La mostra prevede la possibilità di esporre materiale informativo (dépliant, volantini, manifesti) e di proiettare video;
2. uno stand di raccolta bibliografica delle pubblicazioni in materia di affidamento familiare predisposte dagli enti ed associazioni in indirizzo. Lo stand sarà allestito dalla Regione Piemonte sulla base dei volumi ricevuti;
3. al fine di consentire la massima divulgazione di quanto realizzato dai destinatari della presente, la Regione Piemonte mette inoltre a disposizione degli stand presso la sede del convegno che, per motivi organizzativi, dovranno essere allestiti e curati dagli aderenti.
Per ulteriori informazioni: dottoressa Antonella Caprioglio, Ufficio Minori, Direzione Politiche sociali e Politiche per la famiglia della Regione Piemonte (tel. 011.432.48.86; e-mail: antonella.caprioglio@regione.piemonte.it)
Seminario di studio
COME “CURARE L’ADOZIONE”
Si è tenuto a Torino il 6 novembre 2007 il seminario di studio “Curare l’adozione” promosso dalla Regione Piemonte, dal Centro di terapia dell’adolescenza di Milano e dalla Cooperativa Paradigma di Torino.
Riportiamo la lettera aperta distribuita dal Csa (Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base), cui l’Anfaa aderisce, agli organizzatori, ai relatori e ai partecipanti del seminario.
Anche in materia di adozione occorre non solo curare le situazioni di disagio ma anche garantire le attività di prevenzione
Per tutti i minori, e non soltanto per i bambini adottati, devono essere attuate tutte le necessarie misure di prevenzione del disagio.
Per i minori adottabili dette attività riguardano:
– la puntuale segnalazione, da parte degli operatori dei servizi socio-assistenziali e sanitari, all’autorità giudiziaria dei minori in situazione di privazione di assistenza morale e materiale;
– la tempestività delle dichiarazioni dello stato di adottabilità e le loro appropriate motivazioni sui fatti accertati, anche in relazione alla sostenibilità delle decisioni assunte nei casi di ricorso alle Corti di appello e di Cassazione;
– l’oculata valutazione delle famiglie adottive e la loro preparazione, concentrando le attività sulle coppie più giovani e quindi, in linea di principio, più adeguate alle esigenze dei bambini;
– il sostegno alle famiglie adottive, con particolare attenzione a quelle che hanno accolto minori con handicap o malattie gravi o grandicelli o problematici a causa delle vicende sofferte (si veda al riguardo quanto previsto dalla delibera della Giunta della Regione Piemonte del 3 agosto 2007 n. 109/6736);
– la ponderata scelta degli affidatari in tutti i casi in cui vi è anche una minima probabilità che il minore possa essere adottato senza dover subire il trauma di una nuova separazione. Qualora questa soluzione non sia praticabile va assicurato il passaggio graduale ad un’altra famiglia ed il mantenimento dei rapporti del minore con la famiglia affidataria, secondo modalità da definirsi in base alle specifiche situazioni.
È urgente superare la discrezionalità degli enti socio-assistenziali e attuare i diritti esigibili sanciti dalla legge della Regione Piemonte n. 1/2004
Occorre quindi che al più presto possibile gli enti gestori delle attività socio-assistenziali (Comuni singoli e associati) recepiscano mediante appositi provvedimenti, come ha fatto il Cisap (Consorzio dei Comuni di Collegno e Grugliasco) con la deliberazione del 22 febbraio 2006, le norme della legge della Regione Piemonte n. 1/2004, in particolare quelle in cui:
a) viene identificato «nel bisogno il criterio di accesso al sistema integrato di interventi e servizi sociali»;
b) è sancita la priorità di intervento a favore dei «soggetti in condizione di povertà o con limitato reddito o con incapacità totale o parziale di provvedere alle proprie esigenze per inabilità di ordine fisico e psichico, con difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro», nonché dei «soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che rendano necessari interventi assistenziali» e dei «minori, specie se in condizione di disagio familiare»;
c) è previsto che «la valutazione del bisogno si conclude con la predisposizione di un progetto personalizzato, concordato con la persona e la sua famiglia, finalizzato ad indicare la natura del bisogno, la complessità e l’intensità dell’intervento, la sua durata e i relativi costi»;
d) viene stabilita l’esigenza di «riconoscere a ciascun cittadino il diritto di esigere, secondo le modalità previste dall’ente gestore istituzionale, le prestazioni di livello essenziale di cui all’articolo 18» la cui corretta e tempestiva erogazione consentirebbe il superamento di gran parte delle attuali carenze di intervento del settore assistenziale;
e) consente ai cittadini la presentazione di ricorsi «contro l’eventuale motivato diniego» delle prestazioni richieste.
È altresì di notevole rilievo il 3° comma dell’articolo 35 della Legge regionale n. l/2004 che dispone quanto segue: «I Comuni che partecipano alla gestione associata dei servizi sono tenuti ad iscrivere nel proprio bilancio le quote di finanziamento stabilite dall’organo associativo competente e ad operare i relativi trasferimenti in termini di cassa alle scadenze previste dagli enti gestori istituzionali».
Occorre promuovere una nuova cultura della genitorialità e della filiazione
Dalle nostre esperienze ultraquarantennali (l’Anfaa funziona ininterrottamente dal 1962) emergono in modo inequivocabile le nefaste conseguenze sui figli e sui genitori adottivi derivanti dalla concezione secondo cui la genitorialità e la filiazione sono sempre e solo legate alla procreazione.
Nuovo concetto di maternità, di paternità e di filiazione
Ritenere ancora oggi che la personalità di ognuno di noi dipenda prevalentemente dal Dna di coloro che ci hanno messi al mondo è una concezione arcaica.
È invece vero ed accertato che le nostre caratteristiche salienti (capacità o meno di stabilire rapporti con gli altri, cultura, autostima, visione del mondo, carattere, ecc.) dipendono essenzialmente dall’ambiente familiare e dal contesto sociale in cui ognuno di noi (figlio biologico o adottivo) è cresciuto.
L’adozione di un bambino è equiparabile all’innesto di un pesco su un susino o su un mandorlo. I frutti, belli o brutti, buoni o cattivi, sono sempre e solo pesche, allo stesso modo di quel che avviene quando le radici sono di pesco.
Le parole di Papa Giovanni II
Il 5 settembre 2000 Papa Giovanni II ha affermato che «adottare dei bambini, sentendoli e trattandoli come veri figli, significa riconoscere che il rapporto tra genitori e figli non si misura solo sui parametri genetici. L’amore che genera è innanzitutto dono di sé. C’è una “generazione” che avviene attraverso l’accoglienza, la premura, la dedizione».
Il ruolo culturale degli operatori sociali e sanitari
Affinché si diffonda la nuova cultura della vera genitorialità e della vera filiazione è indispensabile anche l’apporto dei magistrati e degli operatori sanitari e sociali.
Compete a tutti comprendere che il vero valore della filiazione e della genitorialità consiste essenzialmente nei rapporti educativi e reciprocamente formativi fra figli (biologici e adottivi) ed i loro genitori (biologici e adottivi) ed attivarsi affinché a livello culturale, scolastico e sociale questi principi vengano recepiti.
In realtà siamo tutti figli adottivi!
CONGEDI ESTESI A TUTTI I LAVORATORI CHE ADOTTANO O ACCOLGONO UN MINORE IN AFFIDAMENTO INDIPENDENTEMENTE DALL’ETÀ del suo ingresso IN FAMIGLIA
Finalmente un positivo risultato conseguito dopo anni di rivendicazioni dell’Anfaa!
Nuove regole per i periodi di congedo per maternità e sui congedi parentali in caso di adozione o affidamento sono stati inseriti nella finanziaria 2008 (articolo 2, commi 452-456 della legge 24 dicembre 2007 n. 244) (*).
Il congedo di maternità spetta alle lavoratrici per un massimo di cinque mesi. In caso di adozioni nazionali il congedo deve essere fruito durante i primi cinque mesi successivi all’effettivo ingresso del minore in famiglia, mentre in caso di adozioni internazionali può essere fruito anche prima dell’ingresso del minore in casa, nel periodo di permanenza all’estero richiesto per incontrare il minore e per gli adempimenti legati alla procedura di adozione (il congedo può essere fruito anche nei primi cinque mesi successivi all’ingresso del minore in Italia). Può essere anche fruito dal padre se la lavoratrice rinuncia.
La lavoratrice e il lavoratore che adottano un bambino se nel periodo di permanenza all’estero per l’adozione non usufruiscono del congedo di maternità hanno diritto al congedo non retribuito, senza diritto a indennità. L’ente autorizzato che cura la procedura di adozione deve certificare la durata di permanenza all’estero della lavoratrice o del lavoratore.
In caso di affidamento di un minore il congedo può essere fruito entro i primi cinque mesi dall’affidamento, per un periodo massimo di tre (non cinque) mesi.
Il congedo parentale spetta anche in caso di adozione nazionale o internazionale e di affidamento e può essere fruito dai genitori adottivi e affidatari, qualunque sia l’età del minore entro otto anni dall’ingresso del minore in famiglia e, comunque, non oltre il raggiungimento della maggiore età.
L’indennità, pari al 30 per cento della retribuzione, è dovuta, per un periodo massimo complessivo tra i genitori, di sei mesi; è fruibile nei primi 3 anni dall’ingresso del minore in famiglia.
IL GRUPPO DELLE FAMIGLIE AFFIDATARIE DI NEONATI RACCONTA
Nel corso del convegno nazionale “Affido: legami per crescere”, tenutosi a Torino il 21-22 febbraio 2008, è stato presentato questo significativo e toccante intervento del gruppo delle famiglie del progetto affidi neonati del Comune di Torino, alcune delle quali associate all’Anfaa.
Per approfondimenti sul progetto rimandiamo alla delibera istitutiva del Comune di Torino in Prospettive assistenziali, n. 113, 1996, al Protocollo operativo, pubblicato nel Notiziario Anfaa, Ibidem, n. 138, 2002 e all’articolo “Il progetto neonati del Comune di Torino: la testimonianza di una famiglia affidataria”, Ibidem, n. 144, 2003.
Buongiorno a tutti.
Ci presentiamo: siamo 2 mamme affidatarie e oggi qui rappresentiamo e diamo voce al gruppo di famiglie che in questi anni hanno accolto un neonato nella loro casa, ma soprattutto nei loro cuori.
Abbiamo pensato di proporvi il nostro intervento articolandolo in due parti: una parte di relazione ed una di testimonianze delle famiglie.
Ci siamo chiesti, nel preparare questo intervento, che cosa avremmo voluto trasmettervi, quale messaggio volevamo lanciare, cosa di importante e significativo potevamo raccontare di tutte le nostre esperienze e anche che cosa vi sareste aspettati da noi…
Non è stato facile preparare questo contributo: le cose da dire sono tante, tantissime le esperienze ed era arduo condensarle in pochi minuti, ma ci proviamo…
Dal confronto fra di noi è emerso che il punto di partenza di tutto quello che oggi vi diremo è sicuramente il progetto in sé (progetto fortissimamente voluto e rilanciato negli ultimi anni dal Comune di Torino, dalle associazioni e dalle famiglie affidatarie), il valore grandissimo di questa esperienza, che mette al centro un piccolo esserino che si affaccia alla vita, una vita che presenta già al suo inizio una serie di situazioni critiche difficili (l’abbandono, la tossicodipendenza, la malattia psichica, le difficoltà educative…).
Oggi abbiamo saputo che ci sei. Ci sei e non sai che nel tuo destino è scritto che farai “un pezzo di strada” con noi…
Stasera, senza sapere nulla di te, penso a come sarai, all’emozione che proveremo quando ti vedremo e un mare di sensazioni si alternano nel mio cuore.
Penso che ti vogliamo già bene e che faremo per te tutto ciò che meriti. So che sarà per poco tempo, ma va bene così: “Nulla e nessuno ci appartiene per sempre”, ma possiamo sperare che il tempo insieme sia un buon tempo e che l’Amore che diamo lasci una traccia che, lei sì, può essere per sempre…
Quando andiamo a prendere Paolo in ospedale ha due mesi: dà grande emozione sapere che i bimbi escono e “respirano l’aria” per la prima volta con te, che il sacchetto che porti a casa è la loro valigia e che quando andranno via avranno una valigia vera piena di cose, sì, ma, soprattutto, di sentimento e di affetto…
Esperienze e commenti
Abbiamo passato con Giulia Natale e Santo Stefano ed ecco finalmente il 27 dicembre arriva a casa. R. esulta dicendo: “È proprio il giorno del mio compleanno!”. La coincidenza è che anche lei era arrivata da noi in affido un anno prima proprio il giorno del compleanno di nostra figlia…
Questa esperienza, l’accoglienza dei bimbi, è anche un pezzo della nostra vita, è il nostro essere totalmente genitori per un arco di tempo breve/brevissimo e ciò che ci muove in questa direzione e che emerge quando (soprattutto nel gruppo di sostegno) ci raccontiamo è la consapevolezza di quanto, nella costruzione della storia dei piccoli, sia fondamentale creare per loro delle relazioni affettive significative così importanti nei primissimi mesi di vita e per quello che sarà poi la loro vita futura.
Giada ha 5 mesi, è catatonica, dorme molto, mangia e quando si sveglia non piange, ma resta nel lettino immobile a fissare il soffitto, i giochini. Impiega 2 mesi per iniziare a gorgogliare e a sorridere. Andiamo continuamente a vedere se è viva… Quando lo raccontiamo ci sentiamo dire: “Chissà quanto ha pianto… forse sa che è inutile, è rassegnata”.
Francesco è arrivato da noi un mattino del 2003 all’ora di pranzo: aveva circa 20 mesi. Proveniva da una comunità per mamma e bambino dove era vissuto fin dalla nascita. Non ci eravamo mai incontrati prima. Era accompagnato dall’assistente sociale e da un’educatrice della comunità. Il bambino ha fatto subito il giro della casa e si è soffermato in cucina. Avevamo preparato per lui le cose che gli piacevano (lo avevamo chiesto all’ assistente sociale). Terminato il pasto ha ricominciato a girare per la casa, mentre l’assistente sociale suggeriva all’educatrice che era ora di dire a Francesco che quella sarebbe stata la sua casa per un po’ di tempo… Il piccolo è ritornato, ha preso mio marito per mano e se ne sono andati in camera: è stato chiaro per tutti che per loro era ora di andare…
Siamo consapevoli di quanto il legame che si crea con il piccolo sia coinvolgente ed anche di quanto questo coinvolgimento sia fonte di preoccupazione per gli operatori e i giudici, ma vogliamo rassicurarvi/tranquillizzarvi, perché oggi ci sentiamo di dire che quello che fa funzionare questo progetto è proprio quel legame, è proprio la possibilità che i bimbi hanno di sperimentare questa intensità di relazione, di amore e di attaccamento.
I primi mesi con Miriam sono stati una lotta o, almeno, è così che li ricordo. Miriam urlava spesso: forse era la rabbia per la gravidanza piena di sostanze stupefacenti, rabbia per la solitudine in ospedale, dolore e ancora rabbia perché le attenzioni erano intermittenti. Io mi sono imposta: sopportavo con fatica il suo addormentarsi improvvisamente, quasi volesse apposta evitare gli incontri con gli adulti, preferivo che non succhiasse il pollice in una sorta di consolazione continua che mi estraniava. L’ho tenuta in braccio sempre: mentre facevo da mangiare, mentre aiutavo le mie figlie nei compiti… e mentre curavo l’orto o facevo le pulizie la tenevo nel marsupio. Il suo carattere imperioso, prepotente, forse non le avrebbe permesso di entrare in sintonia con il mondo…Ci siamo stati anche quando molti intorno ci dicevano che la viziavamo, ma le sue erano provocazioni per imparare che si può essere amati così come siamo e che vale la pena amare qualcuno, fidarsi, attaccarsi ad un’ancora che ti farà sentire sicuro di affrontare l’acqua del bagnetto e il cucchiaino… le scarpe per camminare e i bambini con cui giocare. L’ancora cambierà viso, avrà un’altra voce, ma è un’ancora e Miriam sa cosa significa…
Vogliamo sottolineare quanto sia importante lavorare tutti insieme, servizi e famiglie (ognuno sicuramente per la parte che gli compete), per costruire insieme la storia del bambino, sapendoci ascoltare e dandoci reciprocamente fiducia. Instaurando un dialogo costruttivo costante, come deve avvenire in particolare nel luogo neutro, in modo che la famiglia possa riferire anche i problemi che il bambino evidenzia prima e dopo le visite. Questo confronto consente di integrare gli elementi di professionalità con la quotidianità che la famiglia affidataria raccoglie stando a stretto contatto, vivendo con il bambino.
Dopo qualche giorno di conoscenza in comunità Paola è entrata a far parte della nostra famiglia. Tutto il periodo dell’affido è stata un’esperienza bellissima: molto intenso il rapporto con la bimba, molto proficui i rapporti con tutti i vari soggetti del progetto. Abbiamo avuto la netta sensazione di lavorare insieme per il bene della bambina. Durante l’affidamento molto importanti sono stati gli incontri con il gruppo di sostegno, perché è lo spazio dove abbiamo potuto “raccontarci” sapendo di essere ascoltati e capiti e perché abbiamo imparato molto anche ascoltando le esperienze delle altre famiglie.
Ci muove la consapevolezza che “guardiamo tutti nella stessa direzione” e che siamo tutti parte di una rete intorno al bambino: la funzione della rete è di protezione, di sostegno, è una rete tessuta che non deve avere buchi e ogni punto deve essere collegato agli altri.
Gli incontri di Carlo con la mamma andavano male, malissimo, sempre peggio. Lo comunichiamo all’ assistente sociale e, anche se era il 1° di agosto, lei e la responsabile del Servizio ci accompagnano al luogo neutro. Come vedono la reazione del bambino prendono una decisione. È bello vedere il bambino al centro del progetto! Daniele è arrivato da noi a 8 mesi, dopo essere stato in comunità mamma-bambino sin dalla nascita. I rapporti con i Servizi sono stati molto buoni: l’assistente sociale si è dimostrata competente e decisa a fare in modo che i tempi fossero i più brevi possibili. La psicologa ci ha seguiti da vicino, con frequenti visite domiciliari e telefonate, occupandosi anche del benessere di nostra figlia.
Noi siamo “famiglie ponte”, siamo un tassello di collegamento nella storia dei piccini.
Sappiamo quanto sia importante accogliere il bambino e sappiamo anche quanto lo sia lasciarlo andare, tirarsi indietro, permettendo ad altri genitori (naturali, adottivi o parenti) di subentrare nel ruolo.
Oggi abbiamo saputo che andrai via. Ancora una settimana e poi il nostro viaggio insieme finirà. E’ da quando abbiamo saputo che saresti arrivato che ci prepariamo a questo momento ma, devo dire la verità, non è facile essere preparati. Ci mancherai molto, ma sappiamo che altri ora ti ameranno e ti faranno crescere e questo ci dà tanta serenità. L’assistente sociale ci ha chiesto due foto della piccola… Stanno preparando l’abbinamento… Che emozione! Che dire?
Nessuno appartiene ad un altro e questo deve essere sempre presente nei rapporti tra marito e moglie, nel rapporto con i figli, nelle relazioni amicali o parentali.
Gli altri sono tutti affidati. Affidati alle nostre cure, affidati al nostro ricordo se lontani, alla nostra tenerezza. L’affidamento rammenta questa verità in ogni momento.
Francesca a dicembre, dopo 4 mesi e mezzo, in occasione delle vacanze di Natale lascia la famiglia affidataria per trasferirsi definitivamente dagli zii. So che è il posto giusto per lei, ma Francesca ha occupato il suo spazio nella mia vita e ha lasciato un piccolo buco… È il momento di lasciarsi un po’ andare… Sono andata da Mari (del mio gruppo di Auto mutuo aiuto) per piangere…
Noi lavoriamo affinché al più presto (e sottolineiamo al più presto per il bene dei bambini) prendano il volo: non c’è abbandono perché noi li accompagniamo e i bambini lo sentono, hanno fiducia nei grandi, una fiducia che hanno “assorbito”/sperimentato nella relazione d’amore.
“Mi presti la tua famiglia?” – “Volentieri!”, è la nostra risposta ed è proprio quel “prestare” che non rende il distacco un “lutto”.
Ecco! Ci sentiamo di dire che per noi non c’è lutto: c’è sofferenza, c’è nostalgia, ma, come avviene nel parto, c’è la gioia di “vederlo alla luce” della sua vita che continua.
Per Natale la famiglia adottiva ci ha inviato un biglietto: “‘Per fare un bambino ci vuole un intero villaggio’ , dice un proverbio africano, ed è proprio vero: c’è bisogno del contributo di tutti. Con Marco è stato così! Grazie!” I genitori adottivi di Lucia coltivano fiori. Come augurio per il primo Natale che il bambino ha trascorso con loro ci hanno portato una bella pianta di orchidee con questo biglietto: “Tanti auguri con uno dei fiori più belli che abbiamo a chi con tanto amore ha saputo coltivare il fiore più bello del nostro giardino. Grazie…”
Certo vorremmo, saremmo felici di poter continuare con leggerezza, discrezione, sensibilità il rapporto con la famiglia e con il bambino, per far sì che la sua storia appena iniziata non sia e non diventi una storia frammentata, spezzata, interrotta o negata, perché pensiamo che sia importante per il bambino poter continuare per un certo tempo, sfumando magari pian piano…, a vedere le persone con cui è vissuto, magari anche i luoghi, perché non perda i suoi riferimenti e la fiducia e non debba ricostruire sull’abbandono per strategia di sopravvivenza.
Si può anche provare ad essere amici per il bene dei bambini.
Quando venne aperta l’adottabilità di Antonio fummo coinvolti nell’organizzazione del passaggio e, dal momento della conoscenza della coppia al momento del distacco, fummo sempre supportati efficacemente dalla psicologa e dagli educatori. Anche se il distacco da Antonio, che aveva ormai 13 mesi, è stato particolarmente doloroso, siamo riusciti dopo 15 giorni di convivenza con i genitori adottivi a far sì che il bimbo vivesse con serenità questo momento e che si instaurasse un ottimo rapporto tra noi e la sua nuova famiglia, rapporto che continua tuttora in modo molto equilibrato e sereno. Siamo “amici” per il bene del bimbo che cresce sereno.
La famiglia di Alessandra la conosciamo ai Servizi. Sono ansiosi, sanno che inizierà il periodo di conoscenza ma quanto durerà? La loro assistente sociale gli dice: “Fidatevi della famiglia affidataria, vi aiuteranno e saprete vedere quando la bambina sarà pronta”. Facciamo un programma e dopo alcuni giorni ci accorgiamo che Alessandra “è figlia loro”! Gli assomiglia persino! Vanno a casa con il suo seggiolino, la sua culla, con tutto ciò che la circondava e vengono a trovarci tutti i giorni. Ci telefonano dicendoci di aver messo la culla nella cameretta, così si abitua a vedere la stanza nuova da un luogo conosciuto. Il 6 ci salutiamo definitivamente: Alessandra compirà un anno il 9. Con grande sorpresa tornano l’8 con una grande torta e una candela: “La prima candelina vogliamo la spenga anche con voi”, ci dicono… Claudio è arrivato quando aveva sei mesi ed è rimasto con noi fino ai dodici, quando è tornato con la sua mamma. I rapporti sono continuati anche quando lei è tornata nel suo paese di origine. Li ho ospitati e aiutati. Ora il bambino ha quattro anni, ci sentiamo ancora e dice sempre che vuole venirci a trovare.
Qui c’è molto di quanto abbiamo raccolto dalle nostre esperienze, la strada fatta è tanta ma, purtroppo, non tutte le esperienze finiscono bene e allora, sì, siamo tristi.
Siamo tristi quando un bambino da una famiglia affidataria va in comunità, siamo tristi quando il rientro in famiglia di origine non è abbastanza sostenuto e allora non ce la fanno…
Siamo tristi quando da una famiglia affidataria il bambino va in una famiglia affidataria a rischio giuridico, per poi tornare nella famiglia naturale.
Siamo tristi quando il bambino non è al centro del progetto e tutti si contendono la soluzione del problema.
Ci chiediamo perché. Cerchiamo insieme le risposte…
Ci sentiamo pienamente inseriti, attori nel progetto, un progetto in cui crediamo davvero e siamo consapevoli di svolgere un ruolo sociale nel lavorare per i bambini, perché sono loro il punto focale/centrale attorno a cui tutto deve ruotare.
Sappiamo di avere una grande responsabilità e di poter essere per i piccoli una grande ricchezza: una mamma, un papà, un fratello, una sorella, una famiglia “in più”… “in prestito” per un tratto di strada…
La famiglia adottiva, alla vigilia della partenza, ci ha scritto: “Questa è la nostra ultima notte da soli e la vostra ultima notte insieme… Abbiamo letto le prime pagine del diario e siamo rimasti ancora una volta colpiti dall’amore, la generosità, la pazienza che avete dimostrato nei confronti dei bambini. Avete preso due creature spaventate e diffidenti e siete riusciti a trasformarle in due bimbi sani, sorridenti e solari, preparandoli per una nuova avventura con una famiglia tutta loro. Vorremmo tenervi informati sullo sviluppo dei bimbi strada facendo… Questo è l’inizio di un nuovo capitolo in una lunga storia ancora tutta da vivere, con la speranza che questo legame viva e continui nel futuro di tutti noi. Non ci stancheremo mai di ringraziarvi per aver dimostrato la forza dell’amore che viene dato senza chiedere nulla in cambio.”
Noi speriamo che questo nostro contributo sia servito per chiarire meglio le nostre sensazioni, le nostre emozioni, i nostri pensieri di famiglie affidatarie.
Ogni giorno è una pagina del libro della vita dei bambini: non strappiamo nessuna pagina, facciamo in modo, come esprime bene il titolo di questo convegno, che ci sia continuità nei loro “legami per crescere”.
SONO 191 I minori DICHIARATI ADOTTABILI E dimenticati dalle Istituzioni
Finalmente, dopo sette anni, sappiamo che sono 191 i minori dichiarati adottabili e non adottati nel nostro Paese. Il Capo dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia, Carmela Cavallo, ha segnalato nella lettera inviata il 17 marzo 2008 al presidente dell’Osservatorio nazionale sull’infanzia e l’adolescenza, Franco Occhiogrosso che, secondo i dati forniti dai Tribunali per i minorenni, sono 191 i minori «adottabili in via definitiva per i quali non era intervenuto da almeno sei mesi, per la difficoltà a reperire una idonea collocazione familiare, un provvedimento di affidamento preadottivo». Il loro «mancato affidamento a scopo di adozione è dovuto, in primo luogo, alle condizioni sanitarie gravi o gravissime del minore, le quali, in alcuni casi, comportano la necessità di assistenza medica specialistica e, in secondo luogo, all’età adolescenziale». Alcuni di loro sono stati affidati a famiglie o inseriti in comunità, di moltissimi non viene specificata l’attuale collocazione (viene utilizzata sovente la generica formula “in struttura”) (1).
Prime considerazioni sui dati
Possiamo quindi incominciare a conoscere più da vicino le situazioni di questi minori, per i quali dal 2001 l’Anfaa (2) sollecita l’attivazione della Banca dati prevista dall’articolo 40 della legge 149/2001, non ancora operativa a distanza di sette anni, anche per poter assumere le necessarie iniziative per cercare loro una famiglia.
Scorrendo le brevissime descrizioni fatte dai tribunali, sovente si constata che è contenuta solo una diagnosi medica, che li “etichetta” ma che non fornisce gli elementi necessari per capire le loro potenzialità e per poter quindi attivare le eventuali disponibilità da parte di famiglie o di persone singole.
Ad esempio, che prospettive possiamo immaginare per la minore di sesso femminile, nata il 3 dicembre 2002, con «tramedilia-micrognazia ora-acral-syndrome, in struttura», segnalata dal Tribunale per i minorenni di Bologna o per il minore nato il 4 aprile 1992 affetto da «colostomia definitiva e cistostomia e problemi renali», segnalato da quello di Venezia?
L’indicazione di ben 67 minori da parte del Tribunale per i minorenni di Catania pone preoccupanti interrogativi in quanto buona parte di loro ha ormai un’età adolescenziale (molti i nati agli inizi degli anni novanta), ma non si sa da quanti anni sono stati dichiarati adottabili.
Lo stesso vale per quello di Palermo: su 11 segnalati, due sono nati nel 1990, tre nel 1991, uno nel 1993, tre nel 1994, uno nel 1998 ed uno nel 1999; fra di cui sei sono stati dichiarati adottabili negli ultimi anni, quindi già preadolescenti o adolescenti. Dei 16 minori segnalati dal Tribunale per i minorenni di Napoli, 7 hanno dai 14 anni in su, due fratelli hanno 11 e 13 anni, tre fratelli un’età non precisata; è anche preoccupante il fatto che il mancato inserimento familiare di due di loro è attribuito dal Tribunale alla loro volontà «di non essere adottati».
Nelle schede, anonime, non viene indicato chi è il tutore dei minori segnalati: questa è una grave lacuna, considerate le funzioni che dovrebbero svolgere a favore del loro tutelato, prima fra tutte quella di attivarsi, d’intesa con il tribunale competente, per trovare loro il più presto possibile una accoglienza familiare secondo le priorità di intervento previste dalla stessa legge 184/1983.
Le riflessioni di alcune famiglie che li hanno accolti
Come rilevato nella lettera aperta del 2 ottobre 2006 scritta da alcune famiglie adottive e affidatarie di Torino contro la creazione di un repartino per bambini malati e/o portatori di handicap gravi presso il Cottolengo di Torino, «se tutti hanno diritto a essere amati e accuditi per poter crescere, questo vale, anche e soprattutto, per i minori portatori di handicap o affetti da patologie anche gravi che condizionano le loro possibilità di vita. Le nostre esperienze ci hanno insegnato che bisogna superare il pregiudizio che porta a definire un bambino “incurabile” , pregiudizio in base al quale si stabilisce un limite di tempo oltre cui non sarebbe più possibile ottenere risultati positivi. Uno degli stereotipi da combattere è l’eterno ritornello “a questo punto, per lui, non c’è più nulla da fare”. Non esiste nessun limite se non nell’idea di chi non sa come affrontare i problemi o di chi crede di non poter fare di più. Non vogliamo certamente negare né l’esistenza di limiti oggettivi nello sviluppo di determinati bambini né le difficoltà conseguenti: intendiamo piuttosto affermare che qualcosa si può sempre fare per spostare tali limiti, ma che questo è possibile farlo solo se i bambini possono essere inseriti in un ambiente normale, familiare, che li stimoli, li affianchi, regali loro il calore necessario perché si possa mettere in moto la voglia di provare. Molti genitori di bambini handicappati sono oggi attivi, hanno imparato a vivere la nascita di un figlio handicappato non come una sconfitta ma come una sfida, e lottano per affermare i diritti dei più deboli a vivere una vita degna di questo nome. Questi genitori si sono ribellati all’“inevitabile”, hanno cercato percorsi nuovi mai battuti prima: hanno lottato per una reale integrazione scolastica, per un lavoro, per dare, insomma, ai loro figli una vita il più possibile normale e hanno ottenuto risultati spesso insperati. In questa direzione si sono mossi anche genitori come noi che hanno adottato o preso in affidamento un bambino handicappato o malato, spinti dal desiderio di un concreto, quotidiano impegno, nella consapevolezza che lottare per questo figlio “diverso” vuol dire dare un contributo alla realizzazione di un mondo più giusto, più umano per tutti! Ci aspettavamo e ci aspettiamo più aiuti dalle istituzioni, più impegno perché molti diritti affermati sulla carta diventino finalmente esigibili; interventi concreti e mirati per sostenere a domicilio le famiglie d’origine, adottive o affidatarie, sia a livello sociale che sanitario; più ascolto e attenzione dal mondo della scuola, nella direzione dell’integrazione piuttosto che in quella della segregazione; l’abolizione delle barriere architettoniche che ancora esistono senza che nessuno se ne preoccupi. Il diritto alla vita, tanto declamato in questi ultimi tempi, dovrebbe voler dire dare il diritto a tutti i bambini non solo di nascere, ma anche di vivere una vita non priva di quegli affetti e di quel calore che solo una famiglia può dare. Un bambino per quanto menomato sente, soffre, si emoziona come o molto di più dei bambini cosiddetti normali! Ma se le famiglie sono lasciate sole possono arrivare alla disperazione e chiedere di poter ricoverare il proprio figlio, sopraffatte anche dalle quotidiane difficoltà materiali e psicologiche».
Che fare per dare loro una famiglia
Sono urgenti e necessarie disposizioni (leggi e delibere) che rendano finalmente obbligatorio il sostegno, anche economico, delle famiglie che hanno adottato o adottano minori ultradodicenni o con handicap accertato, nati in Italia o provenienti da altri Paesi. Purtroppo il comma 8 dell’articolo 6 della legge 149/2001 recita: «Nel caso di adozione dei minori di età superiore a dodici anni o con handicap accertato ai sensi dell’articolo 4 della legge 5 febbraio 1992 n. 104, lo Stato, le Regioni e gli enti locali possono intervenire nell’ambito delle proprie competenze e nei limiti delle disponibilità finanziarie dei rispettivi bilanci, con specifiche misure di carattere economico, eventualmente anche mediante misure di sostegno alla formazione e all’inserimento sociale, fino all’età di diciotto anni degli adottati» e quindi non impegna le istituzioni a fornire gli aiuti previsti in quanto gli stessi sono subordinati alle «disponibilità finanziarie dei rispettivi bilanci».
Finora la Regione Piemonte è l’unica che abbia assunto provvedimenti per rendere queste disposizioni un diritto realmente esigibile erogando, attraverso gli enti gestori degli interventi assistenziali, un contributo spese equiparato alla pensione minima Inps a favore dei genitori adottivi di minori sopra i 12 anni o con handicap accertato, sino alla maggiore età.
Le famiglie che adottano questi bambini non devono essere abbandonate a loro stesse! La loro disponibilità deve essere accompagnata e sostenuta da tutta la società civile e, in primo luogo, dalle istituzioni. E lo stesso principio dovrebbe valere per gli affidatari. La necessità di un sostegno fattivo era stata ribadita anche da Giulia De Marco già presidente del Tribunale per i minorenni di Torino, che nella sua relazione di apertura della sessione “La famiglia che accoglie” all’interno della Conferenza della famiglia del maggio 2007 a Firenze, ha segnalato la difficoltà a trovare famiglie che adottino bambini portatori di handicap e grandicelli, rilevando però anche che «è necessario certamente sensibilizzare maggiormente le famiglie che aspirano all’adozione verso i bisogni di questi bambini ma non si può prescindere dal dato di realtà costituito dal maggiore impegno che essi richiedono. Vanno quindi previste per le famiglie che danno la loro disponibilità alla loro adozione specifiche forme di sostegno fino alla maggiore età, sia di carattere economico che in termini di servizi. L’art. 6 della legge m. 149/2001 lo prevede come possibilità; io penso che debba diventare un obbligo (…). Se ripetiamo a noi stessi e agli altri che la genitorialità adottiva è diversa da quella biologica, se pensiamo e crediamo nella necessità di una giusta motivazione, di un’adeguata preparazione prima e di un sostegno per il post adozione, non dobbiamo aver paura di richiedere per le adozioni difficili interventi di aiuto a lungo termine. Non si tratta di privilegiare le famiglie adottive; si tratta di consentire a bambini particolarmente sfortunati di essere accolti in una famiglia che va sostenuta nella sua scelta di generosità».
a) In base a quanto esposto chiediamo quindi al Parlamento e al Governo di prevedere che, nel caso di minori di età superiore ai 12 anni o con handicap accertato ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 104/1992, ai genitori adottivi venga erogato, indipendentemente dal loro reddito, un contributo economico almeno pari al rimborso-spese corrisposto agli affidatari fino al raggiungimento della maggiore età dell’adottivo. Questo rimborso spese dovrebbe essere aggiuntivo rispetto all’indennità di accompagnamento e di ogni altra prestazione previdenziale. Per supportare inoltre i genitori o gli altri parenti che provvedano direttamente al loro congiunto minorenne con handicap accertato ai sensi dell’articolo 4 della legge n. 104/1992, e per prevenire l’allontanamento e l’istituzionalizzazione e/o ospedalizzazione del bambino, dovrebbe essere corrisposto loro un contributo di identico importo;
b) la stessa richiesta è estesa alle Regioni e agli Enti locali;
c) è necessario che il Governo attivi la Banca dati, fornendo per ogni minore dichiarato adottabile una scheda che riassuma non solo le sue condizioni personali ma anche le sue potenzialità per poter impostare le azioni necessarie per cercargli una famiglia;
d) è necessario che gli operatori socio-assistenziali e sanitari segnalino tempestivamente all’autorità giudiziaria i minori in possibile situazione di privazione di assistenza morale e materiale (quanti bambini sono ancora lasciati in famiglie a scopo “terapeutico”?);
e) chiediamo alla magistratura minorile di provvedere con la massima sollecitudine possibile alla dichiarazione dello stato di adottabilità.
(*) Vedere al riguardo anche la circolare Inps n. 16 del 4 febbraio 2008.
(1) Come è noto l’articolo 9 della legge 184/1983 prevede al comma 2 quanto segue: «Gli istituti di assistenza pubblici o privati e le comunità di tipo familiare devono trasmettere semestralmente al procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni del luogo ove hanno sede l’elenco di tutti i minori collocati presso di loro con l’indicazione specifica, per ciascuno di essi, della località di residenza dei genitori, dei rapporti con la famiglia e delle condizioni psicofisiche del minore stesso. Il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni, assunte le necessarie informazioni, chiede al tribunale, con ricorso, di dichiarare l’adottabilità di quelli tra i minori segnalati o collocati presso le comunità di tipo familiare o gli istituti di assistenza pubblici o privati o presso una famiglia affidataria, che risultano in situazioni di abbandono, specificandone i motivi». Non è prevista invece l’obbligatorietà della segnalazione dei minori ricoverati negli istituti psicomedico pedagogici o in strutture sanitarie (ospedali, case di cura, ecc.).
(2) Cfr. in particolare i notiziari dell’Anfaa, n. 136, 2001 e 146, 2004.