torna all’indice del Bollettino 02-03/2006 – Aprile / Settembre 2006

Star bene insieme a scuola si può? di Emilia De Rienzo, Postfazione
di Andrea Canevaro, Utet Editore

Due anni fa si è tolta la vita un ragazzo adottato a 8 anni e proveniente dall’India.
Aveva sedici anni e viveva con la sua famiglia adottiva a Firenze. Prima di suicidarsi
ha scritto una lettera-testamento che ho letto e riletto con un gran senso di angoscia.
Nelle sue parole c’era tutta la sofferenza di un ragazzo che ce l’aveva messa tutta, che
aveva una gran voglia di vivere, ma non in un mondo che sentiva essere stato tanto
ingiusto con lui. Nonostante l’aiuto e l’affetto dei suoi genitori che ribadisce continuamente
non ce l’ha fatta. Nella lettera non accusa la famiglia, ma la scuola e la società.
Anthony è morto con una speranza, di trovare nel regno dei cieli “più fratellanza
fra gli uomini”.

Questo era il suo sogno. Questo dovrebbe essere il sogno di tutti noi,
questo dovremmo saper dare ai nostri figli:
la speranza del cambiamento. Sembra, però, che ci manchi sempre il tempo per la riflessione, per fermarci e guardare cosa sta accadendo dentro di noi, per guardarci indietro e per capire come procedere nel nostro cammino.
La lettera di Anthony è stata per me un appello, ha come risvegliato la mia coscienza. Ho sentito l’urgenza di rispondere ad un ragazzo che è morto senza sapere perché
tanto dolore è toccato proprio a lui. Non volevo che il suo gesto, come quello purtroppo di tanti altri, fosse archiviato. E’ per questo che ho deciso di scrivere. La sua
lettera è stata per me un appello alla riflessione, ad un ripensamento serio e profondo
sul mondo che stiamo costruendo, un appello perché ci impegniamo a renderlo più a misura di uomo, più attento a chi è debole e fragile e in particolare su cosa possiamo
fare nella scuola perché venga rispettato il diritto di tutti non solo a frequentarla, ma a
trovare in essa un luogo che aiuti tutti, ma proprio tutti a esprimere il meglio di se stessi.
È per questo che, guardando ogni giorno negli occhi i miei alunni, non ho più smesso
di pensare ad Anthony.

Sono tante le storie, i drammi, le fragilità che si nascondono dietro
a molti di loro, che nessuno vuol vedere e di cui nessuno vuole farsi carico. “Non spetta
a noi” ci diciamo troppo spesso noi insegnanti, è compito della famiglia, degli psicologi…
Anthony mi ha aiutato a pensare a tutti questi anni trascorsi in qualità di insegnante,
a tanti anni di esperienze intense e ricche, di incontri con ragazzi che sempre mi hanno
regalato qualcosa di loro. Ho la piena consapevolezza che noi insegnanti non dobbiamo rimanere estranei alle sofferenze che attraversano le nostre aule e di una cosa
sono certa: che è assolutamente importante, anche ai fini di un buon apprendimento, la
relazione tra alunno e insegnante e tra alunno e alunno.
Non condivido chi tenta di racchiudere in categorie i giovani, chi pensa di poter tracciare le loro caratteristiche, il loro modo di essere, il loro modo di pensare racchiudendoli in una ricerca statistica. Certo sono figli del loro tempo oltre che dei loro genitori, ma
prima di tutto sono individui, persone che, anche se spesso tendono a nascondersi
dentro il “gruppo”, hanno ognuno la propria anima, la loro personalissima storia, il proprio
modo di reagire a ciò che la vita gli ha dato o gli ha tolto.
È con questo rispetto che dobbiamo porci davanti a loro o meglio al loro fianco, non
per assecondarli in ogni richiesta, ma per intessere con loro un dialogo; un dialogo
anche acceso che nessuno di loro rifiuta, quando non si sentono sovrastati dalla nostra
“ragione di adulti” che ormai sanno tutto e che nulla hanno più da imparare. E invece
si impara eccome da loro e loro possono imparare molto da noi; la cultura è molto
importante per la loro crescita e la loro maturazione. Non però una cultura che
appare ai loro occhi lontana e morta, ma una cultura che sa rivivere, anche se antica,
nel mondo contemporaneo. Perché la cultura è viva, è ricca, può parlare ancora ai giovani,
ma l’apprendimento deve avvenire non per accumulo, ma attraverso il dialogo e la relazione. Non sono solo loro a non recepire, ma forse siamo anche noi che non riusciamo
a comunicare passione per quello che stiamo insegnando.
Per questo motivo in questo scrittotestimonianza non ho affrontato il problema
dell’apprendimento vero e proprio, di cosa, cioè, la scuola debba insegnare, dei programmi, di quali materie, di quali contenuti, non ho parlato di riforme. Ho voluto affrontare, invece, ciò che sta a monte dell’apprendimento, cosa i ragazzi devono trovare per
mettere in moto le loro menti, per essere motivati ad apprendere, per non sentirsi,
appena arrivati nella scuola, già fuori. Non è stata mia intenzione in questo lavoro
esaurire nessun argomento, né convincere a tutti i costi, volevo prima di tutto riflettere
io stessa sulla mia esperienza, interrogarmi partendo da un episodio drammatico che ci
dovrebbe scuotere sempre: il suicidio di un ragazzo che ci ha lasciato una lettera testimonianza. Mi sono lasciata interrogare dalle sue parole.
In questi ultimi anni ho parlato con genitori, con insegnanti, ho partecipato a molti convegni dedicati a questo problema. Molti di essi erano indirizzati a genitori adottivi che
lamentavano la mancanza di attenzione nei confronti dei figli, della loro storia peculiare,
delle loro difficoltà. Quello che è alla base di questo problema è la mancanza di attenzione ai bambini, ai ragazzi nella loro individualità, il voler svolgere un programma
indipendentemente da chi si ha di fronte, invece di adattare il programma ai ragazzi.
Ho constatato come sia sempre più difficile il dialogo tra genitori e insegnanti che, invece,
dovrebbero costruire un’alleanza solidale, ognuno nella propria peculiarità, nella ricerca
di un cammino che aiuti il bambino a crescere.

Nella scuola ci sono ottimi insegnanti, grandi conoscitori della loro materia, ma
questo purtroppo non basta ad esercitare questa professione. Non possiamo semplicemente “travasare un sapere”. Dobbiamo metterci in gioco, entrare in relazione con
loro, cercare punti di incontro, diventare loro riferimenti.
Troppo spesso l’adulto appare come spaventato davanti ai giovani, davanti alla loro
fragilità o aggressività e li guarda, ma da lontano, come se fosse davanti ad un vetro:
da una parte noi adulti, dall’altra loro. Dobbiamo imparare a stare “in mezzo” e ricordarci che spetta a noi imparare a capirli, che spetta a noi, se vediamo qualcosa che non
funziona, trovarne le cause e aiutarli a cercare pian piano le soluzioni. È a questo che,
chi si appresta a fare questo lavoro, deve prepararsi.
Solo se le emozioni e i sentimenti degli allievi sono accolti e riconosciuti come aspetti
strettamente legati all’esperienza e non come ostacolo o disturbo allo svolgimento del
programma, il ragazzo potrà aprirsi all’apprendimento che di per sé è un percorso
difficile.
Pensare la scuola, pensare a come porsi in essa, vuol dire iniziare un’ attività che,
mentre la facciamo, ci trasforma, vuol dire attivare una ricerca che non ha mai fine. Il
libro lascia la porta aperta. Sarebbe bello che nessuno di noi pretendesse di dire cose
definitive, ma che si desiderasse aprire un dialogo, un confronto che abbia però il rigore
di un punto di partenza fondamentale: garantire a tutti il diritto allo studio.
Proprio perché la ricerca non ha mai fine vorrei che questo libro fosse l’inizio di un
dialogo costruttivo con genitori e insegnanti che abbiano ancora voglia di mettersi in
discussione.

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