a cura di Emilia De Rienzo e Costanza Saccoccio
Siamo riconoscibili a partire proprio dalla nostra nascita, dalla nostra appartenenza o meno ad un gruppo sociale. Un bambino adottato, lo sappiamo, soprattutto se straniero può dover superare, più di altri, una serie di ostacoli per sentirsi inserito all’interno della propria famiglia e in seguito all’interno del contesto più ampio.
Proprio a scuola il bambino si trova a dover affrontare le domande, le curiosità o le richieste degli insegnanti e dei compagni e può trovarsi in difficoltà nel dare una spiegazione della sua situazione: il genitore non è presente ed è lui che deve trovare le parole per rispondere. La sicurezza che pian piano è riuscito a costruirsi nella sua famiglia può a volte vacillare di fronte al non riconoscimento esterno dell’“altro”.
Potrà allora avere difficoltà a raccontarsi perché è difficile per i bambini capire che al mondo siamo tutti diversi se non è l’adulto ad insegnarglielo e se non è l’adulto a fargli comprendere che ogni diversità contiene in sé una ricchezza. Se i bambini non sono abituati a capire, ad accettare e valorizzare la diversità, nei momenti di conflitto e non solo, potrebbero stigmatizzerla.
Anche se è stato preparato al nuovo ambiente e alle sue regole, gran parte di questo viaggio avviene in solitudine e richiede un grande lavoro interiore. E’ prevedibile che spesso il bambino si troverà smarrito, impaurito e potrà reagire con comportamenti che non sempre sono facili da decifrare (per es. l’isolamento, l’aggressività, l’iperattività, l’accentrare l’attenzione su di sé).
Proprio per seguire questo momento delicato sarebbe importante che ci fosse un lavoro coordinato tra servizi, famiglia e scuola.
Gli operatori sociali, secondo me, dovrebbero prima di tutto intervenire sulla famiglia stessa che, quando il loro figlio entra a scuola, si deve preparare a fare la sua parte, ad accompagnare in questo percorso il figlio senza inutili apprensioni.
E’ importante che i genitori si separino da quell’idea di bambino idealizzato che è dentro di loro per avvicinarsi al bambino reale con la sua storia, i suoi vissuti, le sue precedenti appartenenze. Dovranno imparare a dare risposte alle sue domande e a quelle che potranno fargli nel mondo esterno.
Dovranno essere aiutati nella presa di coscienza che essere famiglia adottiva è essere famiglia a tutti gli effetti, a non sentirsi famiglia di serie B e questo è importante per il rapporto con le altre famiglie e con le insegnanti.
La famiglia tende spesso ad assumere atteggiamenti difensivi o di semplice attacco alla scuola. Dovrà essere, invece, preparata ad attivarsi in modo costruttivo.
Molto importante sarà prepararla a non vivere l’insuccesso scolastico con ansia e apprensione. L’equazione riuscita scolastica uguale riuscita dell’adozione è spesso presente nella famiglia adottiva. In altre parole si potrebbe dire che insieme al bambino si sente promossa o bocciata tutta la famiglia.
I genitori dovranno prepararsi al fatto che il bambino potrà avere difficoltà di apprendimento, soprattutto se ha un passato difficile. Queste difficoltà molto spesso hanno la loro origine in quella che Bowlby definisce la “fatica di pensare”. Egli, infatti, è impegnato nella fatica di vivere il presente e deve tenere a bada il passato, si deve inserire in un contesto completamente nuovo, ha il desiderio e il timore di allacciare legami, sente la paura di non essere accettato e amato. Elaborare l’appartenenza alla sua famiglia, affrontare contesti tutti nuovi costituirà per lui una grossa fatica.
Quando un bambino va in adozione già grandicello non soltanto perde i riferimenti ambientali precedenti, perde spesso anche il proprio nome; perde pure delle relazioni e dei ruoli che aveva nella famiglia o nell’istituzione in cui viveva, i modelli culturali interiorizzati, prima ancora di riuscire a stabilire legami sicuri e affidabili nella realtà di accoglienza. Per lui all’inizio l’adozione è un salto nel buio che non può che essere vissuto con paura e apprensione
Non per questo però bisognerà pensare, anche di fronte a grosse difficoltà, che non ce la può fare, che sia un bambino segnato per sempre. L’esperienza ci ha invece insegnato che i bambini hanno grandi risorse, risorse insperate che aspettano solo di essere attivate. Hanno però bisogno di tempi a volte lunghi e interventi appropriati.
Bisogna aiutarlo a capire che apprendere è un’esperienza positiva, e per questo è importante aiutarlo nei suoi momenti di scoraggiamento con la comprensione, e stimolarlo a superare le difficoltà passo per passo.
Non deve, invece, sentire l’adulto impaurito o arrabbiato di fronte ai suoi insuccessi, ma deve, invece, percepire la sua fiducia in lui per quello che lui è in grado di dare in quel momento.
Il bambino ha prima di tutto bisogno della serenità, dell’ottimismo di chi è accanto a lui, deve sentirli vicini, attenti, e soprattutto fiduciosi. Bisogna che si senta riconosciuta la sua fatica e che sia rafforzato nel continuo pensiero che ce la potrà fare.
Soprattutto la scuola non deve rubare spazi alla relazione affettiva tra genitori e bambini, spazi per parlare, dialogare, stare insieme.
Sarebbe importante che gli operatori facessero anche parallelamente nella scuola con il capo d’istituto e con gli insegnanti un lavoro preventivo di informazione su che cos’è l’adozione, sulle buone prassi nel rapportarsi sia al bambino che alla famiglia adottiva, su come si può informare la classe dove è inserito un bambino adottivo su cos’è la genitorialità in generale e sulle sue varie forme.
Alla luce poi dei cambiamenti della composizione familiare bisogna sollecitare gli insegnanti all’attenzione nell’affrontare l’argomento nascita e famiglia. I programmi, gli argomenti da svolgere dovrebbero tener conto degli alunni e della loro storia, della loro sensibilità e delle loro difficoltà. Bisogna accostarsi in punta di piedi alla storia del bambino ed evitare di fare richieste inopportune come quella di portare fotografie, ricordi del proprio passato per ricostruire la propria storia.
Le nuove sfide che la scuola deve affrontare, richiedono una diversa organizzazione per andare incontro ai problemi che man mano si presentano.L’immigrazione, l’interculturalità, sono degli esempi sotto gli occhi di tutti.
La gestione dell’accoglienza implica all’interno dell’istituto un lavoro costante di formazione del personale, attraverso gli strumenti che la scuola nella sua autonomia può adottare. Potrebbe essere utile, come risulta da molte esperienze, una commissione di lavoro formata da un gruppo di docenti che preveda dei momenti di confronto con gli operatori del territorio.
Insomma la scuola deve diventare accogliente e non fare solo accoglienza i primi giorni di scuola. Anche negli spazi dovrà essere visibile il clima e l’attenzione con cui si lavora. Troppe scuole, soprattutto a partire dalla scuola media, sono anonime, fredde, senza anima. I muri devono parlare, come si vede in molte scuole materne ed elementari.
Ci dovrebbero essere spazi al di là delle aule e dei laboratori. Spazi per incontrarsi, per ricevere i genitori… Scritte in tutte le lingue…
L’ideazione, la creazione e la gestione di alcuni spazi dovrebbero a mio avviso essere progettati e condivisi dagli allievi e dai loro genitori perché siano percepiti da tutti come luoghi comuni di cui tutti fanno parte e sono responsabili. Questo aiuterebbe tutti i bambini indistintamente, perché l’accoglienza deve diventare una cultura, non solo qualcosa che si fa ogni tanto, ma qualcosa che si è.
Ogni bambino anche quello con più difficoltà, con una storia alle spalle più problematica dovrà capire che il posto, dove è entrato, è un posto speciale dove anche lui, che si sente a volte triste, arrabbiato, solo, senza spesso neanche capire fino in fondo perché, troverà un luogo caldo e disponibile ad ascoltarlo, ad ascoltare non solo quello che sa, ma anche quello che sente.
Ogni famiglia dovrà percepire che il luogo, dove è entrato suo figlio, è un posto dove si può parlare, affrontare insieme i problemi che via via si presentano.
Prima accoglienza
Un bambino adottato può arrivare ad anno iniziato. Più è grande più diventa problematico l’inserimento. Del resto capita sempre più spesso che nella scuola arrivino bambini da paesi stranieri. La scuola in quanto tale deve essere preparata a questo tipo di evento.
• Il primo problema che si pone è quando inserirlo. Qualcuno dice che può essere utile che per un po’ di tempo il bambino adottato rimanga nella sua famiglia per cominciare ad adattarsi al nuovo ambiente, per poter creare i primi legami con i suoi genitori, la famiglia allargata, la cerchia di amici. Può essere opportuno che non sia sottoposto a troppi stimoli e a troppe fatiche.
Altri, invece, sostengono che la scuola sia un luogo importante per aiutarlo ad integrarsi meglio da subito nella società di appartenenza. Non ci sono regole precise, dipende dai casi che vanno valutati nella loro individualità e particolarità
• Il secondo è in quale classe. E’ anche qui difficile dare una risposta precisa. Non deve essere solo la mancata conoscenza della lingua a costituire il problema. Dipende dal grado di maturità del bambino, dalla scuola che ha frequentato precedentemente, dalle competenze che ha acquisito… Può prevalere l’idea che il bambino abbia bisogno di confrontarsi con bambini della sua età. Del resto nella scuola sono già presenti bambini di diversi livelli e la prassi dovrebbe essere quella di saper condurre un lavoro di tipo individualizzato.
• Quando il bambino arriva sarebbe opportuno fermare le lezioni e mettersi in cerchio per presentarsi inventando modi per farsi capire, per iniziare a parlarsi anche senza conoscere la lingua dell’altro. E’ la fantasia, la creatività dei bambini stessi a mettersi in moto, là dove però c’è già il desiderio di conoscersi perché già sperimentato nella classe.
• Alcuni psicologi affermano che può essere utile, in certi casi, un intervento della famiglia all’interno della classe e suggeriscono la costruzione di un cartellone che racconti la storia della loro famiglia, come cioè i genitori siano arrivati all’adozione, i vari passaggi, l’incontro col bambino etc. Io credo che questo tipo di intervento debba essere ben vagliato, perché può anche essere controproducente.
Ciò di cui abbiamo parlato ora sono primi gesti significativi, esempi concreti di intervento.
Ciò che però è fondamentale è il tipo di atteggiamento e di lavoro che assumerà l’insegnante nei momenti successivi. Su questo deve concentrarsi la formazione e una ricerca condivisa. Gli strumenti non vanno confusi con la soluzione dei problemi. I problemi si esprimono in tutta la loro complessità e richiedono di essere affrontati come tali nella quotidianità.
Ma soprattutto bisogna aver chiaro che non è sufficiente fare “informazione.
L ’informazione è necessaria in quanto può contribuire a cambiare mentalità, modi di pensare la realtà. Informare è però molto differente da “sensibilizzare”, cioè rendere sensibili ai problemi. E su questo sarebbe opportuno che si continuasse a lavorare insieme: scuola, famiglia, servizi.
L’informazione ha un inizio e una fine. La sensibilizzazione è un processo, è un modo di porsi, di vivere la relazione con l’altro; è un processo che continua nel tempo e che attiva le nostre menti e i nostri cuori, che fa nascere quella che la filosofa Zambrano chiama l’intelligenza del cuore o come lo definisce Flaubert il cuore intelligente.
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