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Riportiamo, tratta da “Ucipem News” n. 82 del 31.3.2006, un’intervista al professor Alberto Gambino, Docente Ordinario, che tiene il corso di Istituzioni di Diritto Privato presso l’Università Europea di Roma.

La prima sezione civile della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6.078, ha rigettato la richiesta di una donna, d’origini rumene, ma cittadina italiana, sposata con un italiano e residente in Italia dal 1992, la quale aveva ottenuto nel 2003 in Romania la sentenza d’adozione di una bambina nata nel 2002. La signora aveva chiesto al Tribunale per i minorenni il riconoscimento della pronuncia dei magistrati rumeni così da poter portare la bambina in Italia. I giudici hanno escluso che questo caso rientrasse nelle previsioni della legge italiana sull’adozione. Nel rigettare la richiesta ha affermato che il legislatore “ben potrebbe provvedere, nel concorso di particolari circostanze tipizzate dalla legge o rimesse di volta in volta al prudente apprezzamento del giudice, ad un ampliamento dell’ambito d’ammissibilità dell’adozione di minore da parte di una singola persona, anche qualificandola con gli effetti dell’adozione legittimante, ove tale adozione sia giudicata più conveniente all’interesse del minore”.

La Corte di Cassazione ha altresì precisato che ciò non deve però arrivare a “fondare il riconoscimento di una generalizzata ammissibilità di tale adozione da parte di persona singola”.

Intervista al Prof. Alberto Gambino:

I temi toccati dalla sentenza della Cassazione sono due: i casi d’adozione di minori da parte di chi non è coniugato e il riconoscimento delle sentenze di Paesi stranieri in tema d’adozione (rispettivamente art. 44 e art. 36, 4° comma).

Sul primo punto è necessaria una premessa. La legge italiana consente, come eccezione alla regola, l’adozione a chi non è coniugato in tre situazioni specifiche: nel caso in cui si sia uniti al minore “da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di padre e di madre”(art. 44, 1° comma, let.a); nel caso in cui il minore sia affetto da handicap e sia orfano di padre e di madre (art. 44, 1° comma, lett. C; nel caso in cui “vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo” (art. 44, 1° comma, lett. D).

Come si vede sono situazioni in cui o preesiste un forte legame con l’adottante oppure vi sia una reale difficoltà o addirittura impossibilità a trovare una coppia disponibile ad adottare. Nel caso deciso dalla Cassazione ci troviamo invece davanti ad una signora che non è riuscita a dimostrare un preesistente “rapporto affettivo e genitoriale di fatto ormai consolidato”, per usare l’espressione della stessa Corte. Secondo la legge italiana l’adozione pronunciata in un Paese straniero viene riconosciuta in Italia se i richiedenti “dimostrino al momento della pronuncia di aver soggiornato continuativamente nelle stesso (cioè nel Paese straniero e di avervi avuto la residenza da almeno due anni”. Nel caso specifico, peraltro, la donna, cittadina italiana, è stata residente a Roma, senza interruzioni, a partire dal maggio del 1992, il che appare incompatibile con il fatto di aver soggiornato con la bambina rimena, residente in Romania.

Tale norma evidentemente mira ad evitare che si posano adottare minori rispetto ai quali non ci sia stata un’effettiva comunione di vita, come avviene abitualmente nel periodo dell’affidamento preadottivo, nonché per evitare di utilizzare l’istituto dell’adozione soltanto per far ottenere la cittadinanza italiana a cittadini stranieri.

Premetto che, da giurista, ritengo non corretto che nelle sentenze i giudici “suggeriscano” al legislatore ciò che deve fare. Il luogo per fare le leggi è il Parlamento e in quella sede sono abitualmente consultati gli esperti delle materie su cui legiferare. I giudici dovrebbero attenersi all’applicazione della legge, specie per evitare che il loro ruolo venga strumentalizzato con finalità politiche. Comunque, osservo che il caso specifico è davvero particolare poiché è difficile pensare che una donna che risiede stabilmente e continuativamente in Italia da quindici anni, sposata con un cittadino italiano, abbia un legame così forte con un minore a lei estraneo, residente in un Paese straniero, tale da richiederne l’adozione. Mi sembra un caso limite, che può avere una sua dignità concreta, ma che certo non può essere usato come un “cavallo di Troia” per forzare il nostro sistema normativo e aprire indiscriminatamente all’adozione dei single, che poi significa concretamente allargare l’adozione anche ai conviventi siano essi etero od omosessuali.

Peraltro questo non è neanche l’orientamento della Cassazione che ha sottolineato come l’eventualità dell’adozione da pare di una singola persona deve essere giudicata come la “più conveniente all’interesse del minore” e, comunque, resta ferma “la previsione di un criterio di preferenza per l’adozione da parte della coppia di coniugi, determinata dall’esigenza di assicurare al minore stesso la presenza d’entrambe le figure genitoriali, e di inserirlo in una famiglia che dia sufficienti garanzie di stabilità”.

Il problema va allora visto dalla parte dei bambini. L’adozione non è un diritto soggettivo di chi vuole adottare. E’ piuttosto il bambino ad avere il diritto, per crescere e svilupparsi armoniosamente, ad una mamma e un papà. Aggiungo che oggi l’alternativa non è tra il rimanere in un istituto o l’essere adottato da un single: infatti il numero delle coppie coniugate pronte ad adottare è, anche sul fronte internazionale, di gran lunga superiore al numero dei bambini dichiarati adottabili. E’, dunque, davvero un falso problema: non si comprende, infatti, perché si dovrebbe dare al bambino un solo genitori quando si ha la concreta possibilità di dargliene entrambi.

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