Sintesi del Convegno a cura di Claudia Roffino
Migliaia di esperienze finora realizzate, che hanno permesso a bambini di ogni età e provenienza di poter crescere in una famiglia diversa dalla loro, e comunque accogliente, solidale, per periodi di tempo più o meno lunghi, a seconda delle necessità dimostrano che l’affidamento familiare è possibile e praticabile.
Partendo da questa realtà si è tenuto a Milano il 26 maggio 2005 il convegno nazionale «Affidamenti familiari: dalla discrezionalità al diritto dei bambini», organizzato dall’Anfaa (Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie), dalla Fondazione Promozione Sociale e da Prospettive Assistenziali, con la collaborazione del C.N.S.A. (Coordinamento Nazionale Servizi Affidi). Hanno partecipato in qualità di relatori Maria Grazia Breda, presidente della Fondazione Promozione sociale, Pasquale Andria, presidente dell’Associazione Italiana dei magistrati per i Minorenni e per la Famiglia, Liliana Burlando, responsabile del Progetto Affido del Comune di Genova e rappresentante del C.N.S.A., Stefania Miodini, responsabile dei Servizi Sociali Azienda USL del Distretto di Fidenza, Donatella Bramanti, sociologa e docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Luciano Tosco, coordinatore delle Politiche Socio-Sanitarie e del Settore Minori del Comune di Torino, Luciana Iannuzzi, presidente dell’Associazione Famiglia Dovuta e socio fondatore della rete «Bambini e Ragazzi al sud», Marilena Garea, del Servizio Affidi del Comune di Milano, Claudio Figini, rappresentante dell’Associazione temporanea di scopo sull’affido professionale, Frida Tonizzo, assistente sociale Anfaa, Emilia De Rienzo, insegnante e condirettore della collana «Persone e società, i diritti da conquistare» della Utet diffusione. Sono inoltre intervenuti alcuni genitori affidatari, che insieme ad un ragazzo affidato ormai adulto hanno raccontato la loro esperienza.
Donata Micucci, presidente nazionale dell’Anfaa, aprendo i lavori del convegno ha riassunto i quesiti cui il Convegno doveva rispondere: perché l’affidamento familiare a scopo educativo non ha avuto lo sviluppo auspicato? Quali iniziative dovrebbero assumere le istituzioni per rilanciarlo? Quali sono le condizioni necessarie per assicurare il sostegno dovuto ai protagonisti dell’affidamento e cioè per fornire il dovuto supporto ai minori, alle loro famiglie di origine e alle famiglie che offrono la loro disponibilità?
Il convegno, oltre a dare risposta a queste domande, intendeva anche individuare le direzioni verso cui orientare l’impegno di tutti i soggetti coinvolti, provando a ridefinire i reciproci ruoli, anche attraverso il confronto con le associazioni e le cooperative che operano in questo settore.
Come ha evidenziato Pasquale Andria: «E’ vero che l’affidamento familiare in questo Paese ha avuto tante esperienze positive e ha accumulato un patrimonio straordinario, ma è anche vero che esso non è diventato una risorsa della quale la comunità e le istituzioni possano servirsi ordinariamente tutte le volte che se ne diano i presupposti e le condizioni (…). Malgrado tutto ciò che si è detto e si è scritto e soprattutto si è praticato in questi 40 anni, nell’affidamento familiare non ci abbiamo creduto abbastanza».«Prima ancora che sull’affidamento familiare – ha quindi precisato Andria – il problema sta «nella difficoltà di trascrivere, non solo sul piano delle enunciazioni di principio, ma sul piano delle prassi amministrative e giurisdizionali, l’interesse del bambino a crescere in una famiglia, in termini di diritto», in modo tale da rendere realmente esigibili tutti gli interventi previsti dalla normativa vigente: «Parlare di diritto non significa soltanto scrivere nelle leggi che esiste il diritto, significa anche rendere il diritto esigibile e quindi, se esigibile, azionabile. Malgrado tutte le audizioni che nel corso dei lavori parlamentari si sono succedute, la incultura del problema denota un approccio rispetto ad esso estremamente approssimativo da parte di una classe politica, che (…) non ha la piena consapevolezza dello spessore etico e culturale delle questioni che il problema propone, perché il problema non comincia oggi: il cammino, il percorso non iniziano da oggi e quindi occorre recuperare il senso della memoria di un cammino per poter fondare un discorso di prospettive. (…) Ora l’impegno collettivo, della società civile, va trasferito nella interlocuzione con le Regioni perché sarà dal livello della legislazione regionale che dipenderà una implementazione della legge 328/2000, che poi, in effetti, è una legge quadro, e in certo modo anche della 149/2001», con cui è stata modificata la 184/1983. Andria ha sottolineato al riguardo le necessità che le istituzioni preposte facciano tutto il possibile perchè, come previsto dalla normativa vigente, il minore non sia allontanato dal proprio nucleo familiare, quando le figure parentali sono un valido punto di riferimento sul piano affettivo ed educativo
Maria Grazia Breda, presidente della Fondazione Promozione Sociale, ha iniziato ad occuparsi di affidamento nel 1973, anno in cui le sono state affidate due adolescenti di 16 e 17 anni, figlie di donne sole e che vivevano in istituto dall’età di due anni.
Breda, ricollegandosi a quanto sostenuto da Andria ha ulteriormente precisato come la legge 328/2000, anche se afferma che «prima di tutto accedono ai servizi sociali le persone in difficoltà psicofisiche, i minori con disagio ambientale», nega in pratica l’esigibilità di questo diritto quando all’art. 22 prevede che l’erogazione delle prestazioni sia limitata alle risorse disponibili. «Anche la legge 149/2001 – fa notare Maria Grazia Breda – al 2° comma dell’art. 1 prevede per l’appunto che al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia, lo Stato, le Regioni e gli Enti Locali devono sostenere i nuclei familiari a rischio, ma, ancora una volta, «nei limiti delle risorse disponibili». Quindi, ancora una volta, si rinvia alla discrezionalità delle suddette istituzioni , come se fosse scontato il loro agire nell’interesse dei più deboli, e non piuttosto, come spesso avviene, nella ricerca del consenso elettorale, il che li porta ad investire le risorse disponibili (a volte anche fino al loro esaurimento) in beni e servizi utili a soddisfare le richieste della parte più forte della cittadinanza». Su questa fondamentale questione Breda denuncia i fortissimi limiti della recente Relazione su ADOZIONE E AFFIDAMENTO della Commissione interparlamentare sull’infanzia.
Inaccettabile è anche – secondo Breda -l’interpretazione estremamente restrittiva che detta Commissione ha dato in merito alla durata dell’affidamento: si afferma infatti nella suddetta relazione che l’affidamento dei minori «non può superare la durata di ventiquattro mesi» dimenticando che l’ art. 4 della legge 184/1983 e s.m. prevede che l’affidamento consensuale può essere prorogato dal Tribunale per i minorenni, «qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore».
«Tutto ciò – evidenzia Maria Grazia Breda – è in totale contrasto con lo spirito stesso dell’affidamento familiare, che nasce con l’obiettivo di tutelare l’interesse del minore a crescere in una famiglia, fin tanto che la sua non è in grado di provvedervi, per scongiurare il ricorso all’istituzionalizzazione. Le esperienze ormai ultra trentennali in materia di affidamenti familiari (la prima delibera in Italia è stata approvata dalla Provincia di Torino il 17 maggio 1971), hanno dimostrato che una quota rilevante di essi ha una durata non solo prolungata negli anni, ma che spesso non si conclude neppure con il raggiungimento della maggiore età, e il minore, ormai maggiorenne, continua a vivere presso la famiglia affidataria fino al suo autonomo inserimento. A questo riguardo, riteniamo indispensabile che le Regioni, o almeno i singoli Comuni, da soli o associati, deliberino il sostegno dell’affidamento familiare oltre il diciottesimo anno di età e fino al raggiungimento dell’autonomia, sulla base dell’ esperienza positiva del Comune di Torino, che ha deliberato in tal senso».
Pasquale Andria, tornando sulle difficoltà di sviluppo dell’affidamento, ha messo in evidenza che «le disponibilità esistono, solo che vanno aiutate, incoraggiate soprattutto sostenute, qualificate ed accompagnate. E questo si fa attraverso una strategia di intervento sociale affidata a servizi altamente qualificati dal punto di vista della professionalità. Fintanto che non si investe sufficientemente su questo obiettivo nell’ambito del sistema delle autonomie locali e segnatamente dei Comuni; fintanto che l’affidamento non viene assunto e concepito non come una risposta possibile o la risposta possibile, ma come un segmento di una strategia complessiva, le difficoltà permarranno. L’affidamento ha senso nella misura in cui si colloca dentro una strategia che contestualizza la pluralità degli interventi a cominciare soprattutto dall’intervento che investe sulla famiglia d’origine del bambino e che sostiene la famiglia di origine del bambino (…). Occorre un livello di garanzia e il primo, in uno stato di diritto, è quello garantito dalla giurisdizione. Guai a emarginare il controllo della giurisdizione perché questo significa deprivare i cittadini, in questo caso i cittadini minorenni, e anche in qualche modo le famiglie che sono strettamente collegate con il disagio dei minori, di una garanzia irrinunciabile che solo la giurisdizione e la sua imparzialità in uno stato di diritto può garantire. Così come credo che il versante dell’amministrazione, e quindi quello dei servizi, abbia un ruolo non transigibile e non rinunciabile».
Liliana Burlando ha considerato quanto rilievo assumano i Servizi nella realizzazione degli affidamenti, sottolineando gli scambi di conoscenze e le forme di coordinamento tra Operatori dei Servizi Affidi e fra questi ed il Privato Sociale, il tutto non solo a livello nazionale, ma regionale e locale. Nell’affido ognuno degli attori (minore, genitori biologici, affidatari, operatori e amministratori) svolge un ruolo preciso e imprescindibile per la sua buona riuscita. «Deve essere garantito lo svolgimento di diverse funzioni: la promozione, contribuendo a creare una cultura dell’affido familiare e diffondendo la conoscenza delle problematiche che intende affrontare, la tipologia degli interventi realizzati e le modalità di funzionamento dei Servizi competenti, utilizzando a tal fine tutti i canali e i mezzi utili, anche in collaborazione col volontariato; l’attuazione d’iniziative volte al reperimento di famiglie sensibili e disponibili all’affido al fine di costituire una banca di risorse cui attingere, per realizzare i progetti di protezione e tutela del minore; l’incentivazione dell’utilizzo dell’affido come intervento privilegiato nelle situazioni in cui è necessario che un bambino sia accolto e curato; l’accoglienza delle persone disponibili all’affidamento, predisponendo percorsi di informazione-formazione individuale e/o di gruppo sugli aspetti giuridici, sociali e psicologici dell’intervento; la predisposizione della conoscenza e la valutazione di persone e famiglie desiderose di collaborare, utilizzando strumenti valutativi quanto più possibili certi e verificabili; la valutazione delle segnalazioni dei minori per i quali è formulato un progetto di affido per scegliere, all’interno della banca dati, le famiglie ritenute più adeguate; il supporto alla formulazione del progetto mirato di affido in collaborazione con i Servizi di territorio; l’elaborazione, sulla base di un sistema di criteri consolidati e continuamente verificati, d’ipotesi di abbinamento minore/nucleo affidatario, in collaborazione con gli operatori che hanno formulato il progetto; il sostegno e l’accompagnamento delle famiglie affidatarie prima e durante l’affido condividendo con gli altri operatori i momenti di verifica; l’elaborazione degli aspetti tecnici più rilevanti sulla base dei risultati ottenuti attraverso i singoli progetti; la predisposizione, gestione ed aggiornamento della banca delle famiglie nonché quella degli affidi in corso; la predisposizione, per gli operatori, di spazi per la formazione, l’autoformazione, la riflessione, l’approfondimento e la rielaborazione delle esperienze in atto e della metodologia di lavoro; l’avvio e il consolidamento di un rapporto di collaborazione con ogni realtà del volontariato impegnato in questo settore, partecipando a periodici incontri di coordinamento».
Stefania Miodini, attraverso il racconto del lavoro da loro svolto nel distretto di Fidenza, evidenzia come la famiglia di origine non debba essere lasciata sola. «La famiglia d’origine di uno o più minori che devono essere collocati al di fuori del proprio nucleo familiare viene definita in genere multiproblematica, in quanto famiglia «fragile», spesso gravata da problemi personali e relazionali dei loro componenti: è una famiglia che non è in grado di rispondere ai bisogni dei figli in modo adeguato anche se non è quasi mai d’accordo con l’attivazione di un progetto di affido (queste famiglie preferiscono l’istituto, soluzione di certo meno minacciosa per l’identità familiare), a volte svantaggiata dal punto di vista socio-economico e socio-culturalmente deprivata. Molto spesso in queste famiglie l’allontanamento del figlio è l’ultimo anello di una catena di interventi, che peraltro non sono riusciti a produrre cambiamenti significativi, dove per «cambiamento» non si intende un’azione di «controllo sociale» e/o di «normalizzazione» (termine peraltro non proprio nella logica del servizio sociale), ma il raggiungimento di una soglia minima di consapevolezza delle proprie difficoltà e lo sforzo di indirizzarsi in un percorso che tenga conto di una genitorialità affettiva e contenitiva nei confronti dei propri figli. Non sempre il nucleo familiare è capace di svolgere la sua fondamentale funzione personalizzante e socializzante, ma può, anzi, essere gravemente disturbante e distorcente. Le insufficienze familiari sono spesso alla radice di trascuratezze e violenze psicologiche nell’infanzia e di devianze preadolescenziali e adolescenziali, che possono condizionare tutta la vita. Possono delinearsi varie tipologie di famiglie talmente disturbanti da essere distruttive (conflittuale, silente, narcisistica, abdicante, esigente, violenta, deviante)… Nel lavoro con le famiglie multiproblematiche s’incontrano situazioni così profondamente dolorose, con esiti così pesanti, tali da suscitare negli operatori forti ansie, continuo senso d’emergenza e costanti preoccupazioni; a tali condizioni ognuno reagisce in maniera differente e personale ed è, perciò, fondamentale imparare a capire e a distinguere quali siano le reazioni individuali e quali le reali esigenze dell’intervento. Se, nel costruire il quadro di una situazione familiare per formulare un progetto d’intervento, ci si muove spinti dal dolore che viene comunicato dal padre o dalla madre, significa che è in atto un’identificazione con loro e con i loro sentimenti. Si tenderanno a prendere decisioni che subordinano il benessere del bambino a quello di uno dei due genitori. Se, invece, si è completamente focalizzati su ciò che manca al bambino e dal desiderio di mettere fine alla sua sofferenza, i genitori appariranno come intollerabilmente cattivi e scarsa sarà la valutazione di una loro possibilità di recupero. Un altro aspetto particolarmente importante è il fattore tempo. Spesso si lascia scorrere il tempo attuando mille interventi di sostegno in accordo con la famiglia, nell’inconsapevole speranza che prima o poi «tutto si aggiusti»… Il rapporto con la famiglia d’origine da parte degli operatori dovrebbe avvenire all’insegna della massima trasparenza, dell’assoluta sincerità relativamente alla situazione nella quale si trova il bambino o alle sue possibili cause. Si parte da un momento di sofferenza, in cui il servizio non dovrebbe porsi come spalla su cui piangere un’irreparabile perdita, ma come capacità adulta di guardare insieme alla situazione, di pensare e di realizzare insieme delle soluzioni. Per realizzare un affido e contemporaneamente sostenere la famiglia d’origine bisogna costruire una dimensione progettuale su più livelli. Il progetto è soprattutto pensiero, prima ancora che organizzazione: avere lo spazio per pensare, soprattutto per pensare «insieme», aiuta a immaginare e costruire una nuova realtà pur di fronte a situazioni molto difficili e poco agganciate ai servizi» … «E’ fondamentale – sottolinea Miodini – attivare un lavoro psicologico e pedagogico nei confronti della famiglia di origine, anche nelle situazioni in cui si evidenziasse l’impossibilità di un recupero delle competenze genitoriali, per aiutarla a comprendere ed accettare le ragioni della sua incapacità a prendersi cura del figlio, permettendo che altri lo facciano al suo posto e per mantenere il massimo della genitorialità residua di cui è capace. La famiglia di origine dovrà essere preparata e sostenuta anche nella fase di rientro del bambino in famiglia, dovrà essere aiutata a ridefinire regole e a stabilire nuovi equilibri relazionali. Tenere in seria considerazione la famiglia d’origine significa offrire una opportunità in più di una «vita buona» per i minori, anche quando il percorso di affido non porta al rientro in famiglia».
Nel corso dei lavori hanno preso la parola anche i diretti protagonisti dell’affidamento. Ecco le loro testimonianze:
Stanislao Scuteri è stato affidato insieme alla sorellina (avevano rispettivamente sei e tre anni) nel 1981, in seguito alla morte della mamma, mentre il fratello maggiore di undici anni è rimasto con il padre. La maestra della scuola materna segnalò la loro situazione ai servizi sociali, che si sono attivati. Ricorda: «Io e mia sorella abbiamo iniziato questa esperienza e il fatto di essere in due ci ha aiutato molto. Questa coppia che attualmente è la mia famiglia, è stata molto attenta alla nostra situazione, non ha mai fatto forzature, mi ha messo molto a mio agio per cui non ho mai patito troppo l’allontanamento». I due bambini vedevano, secondo quanto predisposto dal giudice, il padre e il fratello un week-end al mese: «nella mia esperienza, questo non è stato un problema fino ai 16,17 anni, quando ho cominciato ad avere l’esigenza di conoscere un po’ di più quella che era la mia famiglia di origine, sentivo molto l’attaccamento verso mio fratello e mio padre, che riconoscevo come padre, ma che conoscevo poco. Allora mi sono rivolto al giudice esponendo il mio problema e ho ottenuto di vedere mio padre una volta alla settimana. Quindi succedeva che il lunedì, uscito da scuola, andavo da lui, pranzavo, passavo lì tutto il pomeriggio, cenavo, dormivo e il giorno dopo tornavo a scuola. In quel periodo è iniziata una mia riflessione interiore sul concetto di famiglia. Perché comunque avevo a che fare con due famiglie distinte, che riconoscevo entrambe come mie. Questo mi ha disorientato molto quando all’età di 18 anni dovevo decidere io cosa fare:ero diventato maggiorenne e avevo la possibilità di tornare nella mia famiglia d’origine o di rimanere lì. È stato un anno abbastanza difficile durante il quale ho elaborato un mio concetto di famiglia (che non coincide con quello di molti altri…) e che non deve necessariamente essere una sola. Ho quindi scelto di non cambiare la mia situazione perché comunque io abitavo con questa famiglia da 12 anni, nel frattempo i miei affidatari avevano avuto una figlia, che è mia sorella a tutti gli effetti: l’ho vista nascere, crescere e le sono affezionatissimo, l’ho sempre vissuta così…Mia sorella di origine continuava a vivere con me, c’era anche questo elemento che giocava a favore del rimanere nella famiglia affidataria ….Quindi dopo quest’anno io ho continuato a vivere con loro, con cui in dodici anni avevo costruito e consolidato un rapporto affettivo e allo stesso tempo era cresciuto il rapporto affettivo con la mia famiglia d’origine. Dopo qualche anno, ho deciso di andare a vivere per conto mio e nel frattempo ho continuato a vedere sia la famiglia affidataria che i miei. Questo è il breve riassunto di vent’anni di storia. Per quel che mi riguarda è stato molto utile l’affidamento, mi ha dato molte chances.Né mia sorella né io saremmo quello che siamo se fossimo finiti in istituto».
La famiglia Andreoli ha iniziato la sua esperienza di affido, in modo molto casuale, dopo la nascita del primo figlio, e la scelta è nata «sicuramente da un background delle nostre famiglie che in qualche modo ci hanno trasmesso delle forti motivazioni, dei messaggi, poi sono sicuramente cose che facilitano avere una casa grande, una rete di amici, una disponibilità affettiva…». C’era in loro la convinzione che i bambini hanno una serie di diritti, che devono essere affermati «non solo a parole ma soprattutto nei fatti, diventando attori, partecipi di un progetto di solidarietà». «L’affido dei neonati – a loro parere – va realizzato non solo per evitare che restino troppo tempo ricoverati in ospedale o inseriti in comunità o – peggio – in istituto, ma per offrire quel calore, amore e attenzioni, che sono caratteristiche primarie di una famiglia». Rispetto al progetto ed al rapporto con i servizi la signora Andreoli precisa «noi siamo una famiglia-ponte, cioè noi siamo un momento di passaggio per questi bambini. I tempi che il tribunale poi si prende non sono più ormai solo i sei mesi ipotizzati dal Comune, ma si prolungano di molto: questo aspetto può diventare logorante perchè il progetto può variare dato che il giudice può disporre improvvisamente una CTU (consulenza tecnica d’ufficio), può sospendere per un periodo gli incontri che il bambino ha con la famiglia in un luogo neutro, può cioè assumere decisioni che sono impreviste per noi e il più delle volte anche per i servizi…». I coniugi Andreoli hanno collaborato, nelle loro numerose esperienze di affido, a diversi progetti: «le prime due bimbe sono state adottate e quindi noi abbiamo potuto fare un percorso di affiancamento con le due famiglie adottive: le bambine tra l’altro continuiamo a vederle ed è questo un elemento molto importante non solo per loro ma anche per noi. Per la terza bambina era stato fatto un progetto di affido a lungo termine, nei confronti di un’altra famiglia, che poi si è trasformato in adozione: anche questa bambina continuiamo a vederla. Per Marco, l’ultimo arrivato, abbiamo in corso un progetto di accompagnamento al rientro nella famiglia biologica, famiglia con un insieme di problemi, che necessiterà di un supporto costante».
Paolo ha in affidamento giudiziario dal 1993 un bambino che all’epoca aveva nove mesi ed era ricoverato all’Istituto degli Innocenti. Fu fatto tutto l’inserimento tradizionale durato un mese e mezzo. Paolo ha ricordato come «per il primo anno e mezzo di affidamento non abbiamo avuto rapporti con la famiglia di origine, perché secondo il tribunale e i servizi questo avrebbe comportato dei problemi; dopodiché, fortunatamente, questi incontri sono cominciati: dapprincipio in luogo «neutro», alla presenza dell’assistente sociale e della psicologa. Senonché c’erano forti frizioni tra la famiglia d’origine e gli operatori. Questo sinceramente non per colpa dei servizi, ma perché, specialmente il padre del bambino in affidamento, non ha mai visto di buon occhio le assistenti sociali, non so perché, le cacciava di casa, inveiva contro di loro… Dopo un paio di incontri di questo genere, abbastanza brutti, proposi ai servizi di gestire noi direttamente gli incontri, da soli, con la famiglia del bambino. Suo padre (la sua mamma non è purtroppo in grado neanche di badare a se stessa), le prime volte che andavamo, non parlava quasi mai, se non per domandarci continuamente quando avremmo restituito il bambino, come se fosse colpa nostra se il bambino era in famiglia da noi, come se fossimo stati noi a decidere quel tipo di situazione …. Il babbo dall’età di tre anni stava da solo in un campo a badare a un gregge di pecore, per cui potete immaginare le relazioni sociali che lui ha avuto e quanto affetto abbia ricevuto dai suoi genitori: ve lo dico per farvi capire che tipo di atteggiamento questo babbo ha inevitabilmente costruito poi col figlio, non per colpa sua. Quando andavamo a far gli incontri a casa loro abbiamo cercato di andare lì nella maniera più semplice possibile, di cercare di trovare quei punti di contatto da cui far cominciare un certo tipo di rapporto. Nel corso del tempo la situazione sotto questo aspetto è decisamente migliorata, ora siamo quasi una famiglia allargata, cioè c’è quasi un rapporto di tipo familiare».
Negli ultimi due anni, in seguito ad un cambiamento di casa (è andato ad abitare in un altro comune), Paolo ha avuto grossi problemi con i servizi sociali che li hanno di fatto abbbandonati. «Nonostante abbia scritto, sia ai servizi dove abito io, sia ai servizi dove abitano i genitori del bam-bino in affido della situazione, non ho visto nessuno».
Nonostante le ultime difficoltà, Paolo riconosce il ruolo fondamentale dei servizi sociali nella gestione dell’affido e questo anche per la diffusione sul territorio di questo intervento.
Gabriella e suo marito hanno due figli e nel 2001 hanno conosciuto in una comunità alloggio una giovane mamma col suo bambino, lei aveva appena compiuto 18 anni e il piccolo aveva 5 mesi, ma la coordinatrice della comunità aveva detto loro che «era una brava mammina, però di fatto non ce l’avrebbe fatta da sola: lavorava, si impegnava… però le sarebbe servita una famiglia». Lei stessa infatti prima di aspettare un bimbo sarebbe dovuta andare in affido, ma la famiglia che si era proposta ed era stata scelta, avendo saputo che era incinta «se l’era data a gambe». Nell’aprile 2002 i coniugi C. hanno iniziato ad invitare la ragazza con la bambina a casa loro e come ricorda Gabriella: «Abbiamo trascorso così qualche week-end, abbiamo trascorso anche una vacanza insieme, e ovviamente nella nostra testa questa idea di creare una famiglia allargata entrava sempre più, nel senso che alla fine si trattava di imparare un po tutti: mio marito ed io a crescere i nostri due piccoli e lei a crescere il suo, magari facendolo insieme». E così nel giugno 2003 vengono affidate insieme: «Continuava ad essere una brava madre. In questa sua troppa bravura – ma anche troppa chiusura – avevamo cominciato a notare dei cambiamenti repentini di umore: da momenti di entusiasmo a momenti di forte depressione, di chiusura, di arrabbiatura. Cos’era tutto ciò? Avevamo anche capito, perché lei poi ce lo aveva detto, che era rimasta un po’ delusa da noi, perché lei aveva pensato che l’andare in una famiglia in qualche modo la sostituisse nel suo ruolo, non aveva ben capito che lei avrebbe dovuto continuare a fare la mamma, aiutata, supportata, ma che comunque la mamma era lei». Gabriella e il marito capiscono come sia importante comprendere meglio e rispettare tutte le sue diverse dimensioni, perché la ragazza era allo stesso tempo mamma, lavoratrice, ragazza adolescente desiderosa di amicizia e amore, figlia: «Una delle grandi fatiche, ma proprio grandi grandi fatiche, che abbiamo avuto con lei è stato capire cosa avesse mai dentro, perché c’era tanto del passato suo che non conosciamo, e che forse anche lei ha un po’ messo da parte. Qualche volta, io per prima da sola, poi insieme a mio marito, abbiamo dovuto, per così dire, metterla con le spalle al muro, dicendole «no, adesso parli!». Come dire: cerchiamo in questo modo di aiutarla ad affrontare questo suo vissuto davvero tremendo che a volte l’allontana un po’ da sé, l’allontana anche un po’ dal suo bambino…. Noi siamo consapevoli che questo affido è un’opportunità e un appoggio ed un aiuto ad un altro nucleo famigliare. E’ vero: lei è un po’ figlia, è un po’ mamma, un po’ tante cose…. ma siamo ben consapevoli che il nostro è un aiuto per entrambi nel loro insieme». Gabriella ricorda come gli operatori del servizio affido siano entrati in gioco un po’ dopo rispetto alla loro decisione. Quando gli operatori della comunità li hanno informati che avrebbero dovuto mettersi in contatto con loro, «la prima reazione di mio marito è stata: «ma adesso questi cosa vogliono?»: gli ho risposto di provare a sentire. Ci siamo sentiti fortemente tutelati fin dall’inizio. Quando telefonai l’operatrice sociale che mi rispose mi chiese se sapevo perché dovevamo vederci e io replicai dall’alto del mio gradino, che, certo, dovevano valutarci ma lei rispose che loro non dovevano valutare nessuno, che erano lì per tutelare la famiglia affidataria. Questa risposta ci ha dato davvero molta sicurezza, non ci siamo sentiti né valutati né giudicati, ma supportati: era la nostra prima esperienza di affido e da allora abbiamo avuto davvero tanti incontri utilissimi con i servizi. Noi abbiamo anche parecchi problemi burocratici per la nostra mamma che è extracomunitaria, quindi c’è un operatore che ci sta fortemente sostenendo in questo iter ed è un compito che gli lasciamo volentieri, perché non ci capiamo proprio niente, così come c’è uno psicologo che ha avuto la preziosissima idea di offrire alla nostra giovane mamma degli incontri individuali, proprio per permetterle di dire delle cose fuori dalla famiglia. Col servizio ci vediamo, ci telefoniamo, veniamo chiamati, e questo è davvero un grossissimo aiuto».
Ha aperto il dibattito del pomeriggio Donatella Bramanti che ha concordato con quanto detto in mattinata affermando «la legge 184/83 quando è nata era una legge molto innovativa nel nostro ordinamento e in un certo senso è rimasta anche per molto tempo l’unica di questo tipo, una legge che in un certo senso riconosce alle famiglie di essere dei soggetti attivi nel sociale, delle famiglie che hanno non soltanto una caratteristica di essere utenti o in qualche modo portatori di disagi e di difficoltà, ma anche di essere delle risorse». E ha aggiunto: «Se noi proviamo a ragionare un po’ su quali sono i soggetti deputati, che hanno la responsabilità e il compito di comunicare e di mettersi in rapporto con le famiglie per quanto riguarda appunto il tema dell’affido, noi possiamo fare riferimento ad una sorta di continuum che va da servizi di tipo specialistico a servizi che potremmo chiamare in maniera un po’ più generale servizi di comunità».
La Professoressa Bramanti ha esaminato l’affidamento anche e soprattutto sotto l’aspetto sociologico e della comunicazione, al cui riguardo dice: «l’affidamento è o può essere inteso come una forma specifica della prosocialità famigliare, cioè della capacità di quei soggetti che sono all’interno delle famiglie di uscire dai propri confini famigliari e di offrire aiuto, supporto ai membri di un’altra famiglia. Naturalmente questa disponibilità ad uscire dai propri confini, ad offrire un aiuto e un supporto ai membri di un’altra famiglia non è una cosa scontata, non è propria di tutte le famiglie: per questo la comunicazione va pensata e mirata:, la comunicazione che voglia raggiungere queste specifiche famiglie va progettata. Non è qualcosa che si può improvvisare e dall’altra parte la comunicazione non è un fatto che si limita a dei contenuti cognitivi, informativi», ma coinvolge le famiglie stesse nel loro insieme.
La Tavola Rotonda è stata introdotta da Frida Tonizzo, assistente Sociale dell’Anfaa, che ha ricordato come nella mattinata fosse emerso, anche in base alle testimonianze delle famiglie, il ruolo degli affidatari, «essi sono cittadini volontari che danno la loro disponibilità ai servizi e che, attraverso un necessario percorso di valutazione da parte degli stessi servizi socio sanitari, accolgono nella loro casa uno o più bambini; questo ruolo non è intercambiabile con quello degli educatori». Frida Tonizzo, portavoce dell’associazione, riferendosi anche al progetto sperimentale di «Famiglie Professionali» della Provincia di Milano, ha precisato che «la capacità di accoglienza passa non attraverso una maggiore professionalizzazione delle famiglie, che certamente devono essere preparate e sostenute in questo loro ruolo, ma attraverso una maggior professionalizzazione dei servizi, ancora carenti in molte realtà del nostro Paese e anche attraverso la riflessione e il confronto tra affidatari; l’affidamento riesce se ognuno svolge la sua parte: amministratori, operatori, giudici e famiglie».
Luciana Iannuzzi è presidente dell’Associazione Famiglia Dovuta, così chiamata «volendo sottolineare il diritto di tutti i bambini ad avere famiglia, ma anche il dovere da parte di tutti gli adulti, di dare una famiglia ai bambini e ai ragazzi». L’Associazione ha «sentito l’esigenza di uscire dalla solitudine e diventare interlocutrice delle istituzioni per richiamare l’attenzione sulle famiglie di origine che da noi ahimé, una volta allontanato il bambino, vengono lasciate abbandonate a se stesse. Gli obiettivi sono sempre stati quelli di lavorare «in rete» perché siamo convinti che se è vero che non tutti noi dobbiamo diventare affidatari, è altrettanto vero che tutti gli adulti responsabili devono attivarsi perché si rimuovano le cause di disagio delle famiglie in difficoltà e dei bambini e quindi è necessario lavorare «in rete» con i servizi territoriali, con i tribunali. Noi poi abbiamo scelto di operare come Associazione creando una rete più allargata che ha messo insieme oltre 25 associazioni della Puglia, Basilicata, Calabria, Campania e qualche volta anche della Sicilia… In queste realtà si è riconosciuto che era poco efficace la sensibilizzazione fatta solo dai tecnici, che quindi è stata affidata alle associazioni che operano in stretto contatto col pubblico».
Luciana Iannuzzi ha raccontato anche la sua esperienza di affido di un bambino, da due anni nella sua famiglia, colpito da meningite grave, idrocefalo e sordomuto: «non abbiamo riconoscimenti dall’istituzione pubblica, la mia esperienza è l’esperienza comune a tanti amici: per un bambino sordomuto non è detto che la famiglia affidataria sia attrezzata con i linguaggi della Lis!… A questo bambino, visto che è straniero, non viene neanche riconosciuto il diritto, di essere accompagnato periodicamente nel suo paese d’origine, l’Albania, dalla sua mamma: il suo paese non è strutturato in maniera sufficentemente adeguata per curare la gravità della sua malattia, per questo motivo noi l’abbiamo accolto». Da qui l’importanza e la necessità di essere sostenuti. Luciana Iannuzzi ha poi spostato l’attenzione sulla sperimentazione relativa all’affidamento professionale, considerandolo anche dal punto di vista delle famiglie di origine dei bambini: «Noi facciamo anche sostegno alle famiglie d’origine con gruppi che non sono certo quelli delle famiglie affidatarie, e abbiamo spiegato loro negli anni, riscontrando ampi consensi, che l’affido è l’espressione della solidarietà fra famiglie. Adesso che siamo tutte sullo stesso piano (non esistono le famiglie più brave e quelle meno brave, ma solo quelle più fortunate), arriva l’affido «professionale» che manda, ci sembra, un messaggio senza speranza a queste famiglie, nel senso che per essere buoni genitori bisogna professionalizzarsi! (…). Il nostro timore è che, se non si metteranno paletti seri, quella famiglia che ha scelto di essere professionale, anche per dare una risposta a un bisogno lavorativo proprio, poi potrà abbandonare quel bambino per scegliersi un altro lavoro. Questa è anche una preoccupazione che va contestualizzata nei nostri territori del Sud, dove molto del privato sociale è nato come funghi per incoraggiamento di questo o quell’altro amministratore, per cui temiamo molto che possa diventare un carrozzone politico e non veramente una risposta di solidarietà, di vicinanza e di crescita della comunità tutta».
Marilena Garea, responsabile del coordinamento centrale affidi del Comune di Milano ha ricordato come secondo l’ultimo protocollo siglato da Comune e ASL di Milano «l’affido costituisce per il minore un’esperienza complessa di separazione dalla famiglia d’origine e di incontro con nuove figure di adulti. È un’esperienza che si può sviluppare positivamente se dall’inizio la famiglia viene adeguatamente aiutata e supportata dal punto di vista psicologico e sociale». «Il cittadino che è incuriosito ed interessato a questa strana cosa che è l’affido si ritrova come interlocutori: un assistente sociale e una psicologa, dipendente una dal comune di Milano, l’altra dall’Asl-Città di Milano. Per permettere di poter progettare affidi, per permettere di far sperimentare a questi bambini affidi, l’amministrazione comunale con una sua delibera di giunta si è orientata su un protocollo di intesa sperimentale col terzo settore che prevede una serie di fasce di interventi che vanno dalla sensibilizzazione (che è una sensibilizzazione concordata), alla possibilità di fornire agli affidatari e alle famiglie di origine supporti di sostegno da parte del terzo settore. Rimarrà però la titolarità del progetto all’Ente locale. C’è dietro questo protocollo l’esigenza di meglio tutelare l’affido: è stata più volte ribadita stamani la necessità della tutela del bambino, della famiglia d’origine, della famiglia affidataria, ma» ha precisato Garea «operiamo per «tutelare» l’affido, perché sia ben usato, con discrezionalità e con tatto». Una discrezionalità che, come ha precisato Frida Tonizzo, non deve essere intesa come libera scelta del singolo operatore, ma come il risultato di una attenta valutazione delle complesse situazioni dei bambini in rapporto alle priorità di intervento previste dalla legislazione per garantire il diritto del bambino a crescere in una famiglia.
Claudio Figini, in rappresentanza di ATS, COMIN, CBM ha contestualizzato il tema dell’affido professionale, ricordando che «la sperimentazione dell’affido professionale per noi vuole essere soprattutto il tentativo di riuscire a vedere se questa può essere una possibilità in più per garantire il diritto a crescere in una famiglia ai minori che invece stanno in comunità o che in una famiglia non possono andare per diversi motivi. Non è sicuramente, almeno nei nostri intenti, il tentativo di costruire una strada diversa dall’affido volontario, è solo quello di costruire un’ipotesi differente, in più, che si può connotare per diversi aspetti…. Necessario in ogni caso è il ruolo di tutela di un terzo pubblico, addirittura della tutela giuridica del tribunale per i minorenni quando si agisce in un contesto così delicato come il passaggio di un minore da una famiglia, spesso non dotata di risorse e di strumenti, ad una che ne è più dotata. Quindi, all’interno di questo contesto, noi riteniamo sia necessario ed insostituibile il ruolo che deve essere giocato da un terzo, che deve essere pubblico, che deve essere in grado di garantire alla comunità sociale che il tutto avviene nei binari della correttezza, del diritto e della giustizia». Luciano Tosco, dirigente del Settore minori del Comune di Torino ha ricordato che non esistono soluzioni universali, «ma – ha affermato -: il problema è che dobbiamo aver la capacità di definire, in qualche modo, tutte queste varie forme criticamente, nel senso kantiano del termine, quindi conoscendone, valutandone i limiti e le possibilità e utilizzadole in relazione a quelli che sono i bisogni…. C’è sicuramente una criticità negli affidi in questo periodo in termini di quantità, almeno rispetto alla nostra città, non stanno aumentando con il trend con cui aumentavano negli anni precedenti, forse perché ormai avendone seicento, non riusciamo ad andare oltre, però comunque c’è una certa staticità. Ma ci sono anche delle criticità che non vorrei chiamare qualitative, ma comunque il fatto stesso che aumentino gli affidamenti non conclusi, (io non voglio chiamarli falliti), che portano spesso all’inserimento successivo all’affido in comunità, è un indicatore di criticità». Tosco si è chiesto inoltre perché l’affidamento sotto l’aspetto qualitativo e quantitativo sia in crisi ed individua le possibili risposte nel reperimento di nuove famiglie affidatarie, nell’autoesclusione e nella difficoltà di attivare affidi poiché questi sono principalmente «sine die», a lungo termine.
Frida Tonizzo ha concluso la tavola rotonda con la speranza che questa abbia ottenuto lo scopo di sollecitare il desiderio di andare ad approfondire la tematica molto complessa dell’affido professionale ricordando anche che c’è una bella differenza tra i rimborsi spese alle famiglie affidatarie in relazione alla gravità della situazione dei minori accolti ed un contratto di lavoro, sia pure a tempo parziale o a progetto, con l’ente affidante. E ricorda che «se le famiglie affidatarie vengono seguite dai servizi, ne troviamo… Credo che noi le associazioni di famiglie come l’Anfaa, abbiano anche il compito di vedere e valutare quali possano essere gli impatti e le ricadute di queste sperimentazioni nella diverse realtà».
Anche la scuola ha un ruolo importante poiché i bambini vi trascorrono buona parte della loro giornata. La scuola deve per questo essere accogliente come ha ricordato Emilia De Rienzo. «Quasi sicuramente un bambino affidato è un bambino provato, un bambino che ha avuto una storia difficile e che ha subito traumi più o meno profondi che lo hanno segnato. Sono bambini insicuri, che manifestano il proprio disagio sotto varie forme. La funzione della famiglia affidataria è quella di fornirgli un appoggio cui potersi aggrappare, ridargli la speranza in un riscatto, ridargli la voglia di desiderare. Ma la famiglia non basta: anche la scuola deve fare la sua parte. La scuola deve essere una comunità che li accolga con tutta la loro storia perché possano accettarla anche loro, che accetti la loro diversità e ne faccia tesoro. Sono bambini che hanno bisogno di prendere, ma anche di dare, di trovare cioè un posto che gli restituisca dignità tra gli altri». È necessario anche un rapporto solidale tra genitori ed insegnanti nell’interesse del bambino per cui «quello che professionalmente si chiede ad un insegnante è la capacità di essere persona adulta e matura, in grado di esprimere la propria genitorialità, di prendersi cura di sé e degli altri, di essere una figura di riferimento al fianco di soggetti in crescita. Quello che si chiede ai genitori è un dialogo costruttivo e paziente nella consapevolezza che il ruolo dell’insegnante è difficile e delicato. Anche i servizi dovrebbero entrare in relazione con tutte le parti».
La capacità di mediare tra fedeltà a ciò che è veramente essenziale e necessità di rispondere alle sfide di una società in cambiamento, la capacità di mediare tra queste due esigenze è anche questa la grande sfida che a diverso titolo, pubblico e privato sociale, giurisdizione e amministrazione, servizi e volontariato hanno di fronte in questi anni duemila e soprattutto in questo primo scorcio degli anni duemila, rispetto al quale la cadenza del 31 dicembre 2006 sarà la cartina di tornasole, il vero banco di prova con il quale ci dobbiamo misurare. Guai se questa scadenza passasse registrando una inattuazione del dettato legislativo o, peggio ancora, una riverniciatura e un lifting di vecchie strutture ripresentate come novità e come adempienza formale della legge.
Nel corso del Convegno sono anche intervenuti altri affidatari che hanno arricchito il dibattito con le loro esperienze, non sempre felici anche a causa delle carenze dei Servizi e dei «pregiudizi» degli stessi operatori sociali nonché di parte della Magistratura, che sottovalutano le conseguenze negative di una precoce deprivazione affettiva (bambini piccolissimi lasciati in famiglie inadeguate o dimenticati nelle comunità…) oppure che non tengono conto della esigenza di continuità «affettiva» dei bambini che, concluso l’affidamento, rientrano nella loro famiglia oppure vengono adottati: in questi casi è inammissibile un «passaggio» rapido non graduale, non preparato e con la proibizione di qualunque contatto del bambio con chi lo ha accolto e amato per anni….
Deve essere costruito un «ponte» (per usare il termine adottato dalla famiglia di Genova) fra le famiglie che consenta al bambino di non vivere questi momenti come dei nuovi, ingiustificati abbandoni.
Le positive esperienze finora realizzate e le prassi operative sperimentate da molti Enti locali, solo in parte documentate nel dossier distribuito al Convegno, confermano che gli affidamenti si possono fare e se ne possono fare di più. Sta anche a noi, famiglie affidatarie e associazioni sollecitare le istituzioni, valorizzando quanto si sta facendo, ma anche denunciando le carenze che impediscono ancora a migliaia di bambini e ragazzi di crescere in famiglia.
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