torna all’indice del Bollettino 02-03/2006 – Aprile / Settembre 2006

Sezione di Firenze
Il film “Big Daddy” del regista americano
Tennis Dugan (1999), presentato in Italia
con il titolo “Un papà speciale”, racconta,
utilizzando un registro comico e dissacratorio, le vicende di un bambino di nome Julian
abbandonato dai genitori.
Nel film c’è un breve dialogo fra un grasso
assistente sociale e Sonny Koufax, il protagonista adulto della vicenda:
Assistente Sociale : “Il bambino dovrà
andare in una casa-famiglia”
Sonny: “Che cos’è? Un istituto?”
Assistente Sociale: “Non li chiamiamo
più così”.
Questa risposta mi ha fatto sobbalzare e
mi ha ricordato la previsione legislativa che
entro il 31 dicembre 2006 il ricovero in istituto
deve essere superato e che c’è il rischio di
un “mimetismo” degli istituti (solo cambiamento del nome, riorganizzazione interna
mediante raggruppamenti, ecc.).
Alcune strutture hanno da tempo assunto
nuove denominazioni (comunità residenziali
per minori, pensionati giovanili, comunità
educative, case per l’infanzia, case per la
gestante e la madre, comunità-alloggio,
ecc.). Potrebbe trattarsi di cambiamenti di
facciata, soltanto terminologici.
A me pare che, a partire dal prossimo
anno, compito dell’Anfaa a tutti i livelli dovrebbe essere quello di denunziare le strutture assistenziali che non si siano realmente
riconvertite in “comunità di tipo familiare”,
come previsto dall’art. 2, quarto comma,
legge 184/1983 e s.m.
Speriamo che nel frattempo vengano meglio precisati gli standard minimi dei servizi
e dell’assistenza che debbono essere forniti.
Fabrizio Papini
Sezione di Torino
LETTERA APERTA AL SINDACO DI TORINO SERGIO CHIAMPARINO, ALL’ASSESSORE AI SERVIZI SOCIALI DEL COMUNE DI TORINO MARCO BORGIONE,
AI DIRETTORI DELLE ASL DI TORINO,
ALLA PRESIDENTE DELLA IV COMMISSIONE CONSILIARE MARIA TERESA SILVESTRINI, ALL’ASSESSORE AL WELFARE DELLA REGIONE PIEMONTE ANGELA MIGLIASSO, ALL’ASSESSORE ALLA
SANITA’ DELLA REGIONE PIEMONTE
MARIO VALPREDA, AL PRESIDENTE
DEL TRIBUNALE PER I MINORENNI E AL
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
PRESSO IL TRIBUNALE PER I MINORENNI
Abbiamo appreso con sconcerto che il
Comune di Torino (cfr. lettera su La Repubblica del 24/9/2006) ha proposto alla Piccola
Casa della Divina Provvidenza di Torino di
aprire un reparto per bambini malati e/o
portatori di handicap gravi.
Siamo amareggiati ed arrabbiati. Ci
sembra che tutto il lavoro e l’impegno
che abbiamo messo per inserire nella
nostra famiglia bambini in condizioni
analoghe, che tutta l’esperienza che abbiamo accumulato, che tutti i risultati
positivi che abbiamo ottenuto, non abbiano trovato né ascolto né attenzione. Il
Comune vuole voltare pagina ed invece
di lavorare per far uscire dagli istituti quei
bambini che ancora vi si trovano (pensiamo ad esempio ai 40 ancora ricoverati al
Piccolo Cottolengo Don Orione di
Tortona….), torna a lavorare per la loro
segregazione.
Noi come famiglie affidatarie e adottive
abbiamo sempre creduto che ogni minore
abbia diritto di vivere nella propria famiglia
d’origine e, in assenza di questa, in una
sostitutiva, affidataria o adottiva. Se proprio
si rende necessario un ricovero, questo deve
essere effettuato in una piccola comunità,
di tipo familiare, non certo in un istituto o in
una RSA! Il superamento del ricovero in
istituto entro il 31/12/2006 vale anche per
loro!
Se si tratta poi di bimbi con problemi
prevalentemente sanitari, la gestione deve
essere di competenza sanitaria per assicurare loro tutte le cure di cui necessitano, sull’esempio positivo delle comunità
aperte dall’ASL 3.
Tutti hanno diritto a essere amati e accuditi
per poter crescere, e questo vale anche e
soprattutto per i minori portatori di handicap
o affetti da malattie che condizionano le loro
possibilità di vita.

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Le nostre esperienze ci hanno insegnato
che bisogna superare il pregiudizio che porta
a definire un bambino “incurabile” in base
al quale si stabilisce un limite di tempo oltre
cui non sarebbe più possibile ottenere risultati positivi. Uno degli stereotipi da combattere è l’eterno ritornello “a questo punto, per
lui, non c’è più nulla da fare”. Non esiste
nessun limite se non nell’idea di chi non sa
come affrontare i problemi o di chi crede di
non poter fare di più.
Non vogliamo certamente negare né l’esistenza di limiti oggettivi nello sviluppo di
determinati bambini né le difficoltà conseguenti: intendiamo piuttosto affermare che
qualcosa si può sempre fare per spostare
tali limiti, ma che questo è possibile farlo
solo se i bambini possono essere inseriti in
un ambiente normale, familiare, che li stimoli,
li affianchi, regali loro il calore necessario
perché si possa mettere in moto la voglia di
provare.
Molti genitori di bambini handicappati
sono oggi attivi, hanno imparato a vivere
la nascita di un figlio handicappato non
come una sconfitta ma come una sfida,
e lottano per affermare i diritti dei più
deboli a vivere una vita degna di questo
nome. Questi genitori si sono ribellati
all’”inevitabile”, hanno cercato percorsi
nuovi mai battuti prima: hanno lottato
per una reale integrazione scolastica, per
un lavoro, per dare, insomma, ai loro figli
una vita il più possibile normale e hanno
ottenuto risultati spesso insperati.
In questa direzione si sono mossi anche
genitori come noi che hanno adottato o
preso in affidamento un bambino handicappato o malato, spinti dal desiderio di un
concreto, quotidiano impegno nella consapevolezza che lottare per questo figlio
“diverso”, vuol dire dare un contributo alla
realizzazione di un mondo più giusto, più
umano per tutti!
Ci aspettavamo e ci aspettiamo più aiuti
dalle Istituzioni, più impegno perché molti
diritti affermati sulla carta diventino finalmente
esigibili; interventi concreti e mirati per sostenere a domicilio le famiglie d’origine,
adottive o affidatarie, sia a livello sociale
che sanitario; più ascolto e attenzione dal
mondo della scuola, nella direzione dell’integrazione piuttosto che in quella della segregazione, l’abolizione delle barriere architettoniche che ancora esistono senza che
nessuno se ne preoccupi…..
Il diritto alla vita tanto declamato in
questi ultimi tempi dovrebbe voler dire
dare il diritto a tutti i bambini non solo di
nascere, ma anche di vivere una vita non
priva di quegli affetti e di quel calore che
solo una famiglia può dare. Un bambino
per quanto menomato sente, soffre, si
emoziona come o molto di più dei bambini
cosiddetti normali!
Certo le famiglie lasciate sole possono
arrivare alla disperazione e chiedere di poter
ricoverare il proprio figlio, sopraffatte anche
dalle quotidiane difficoltà materiali e psicologiche.
Bene, piuttosto, lavoriamo perché le famiglie possano non sentirsi più abbandonate
e possano affrontare con serenità le difficoltà
che man mano si presentano, lavoriamo per
accogliere i bambini soli.
Crediamo che nessuno possa considerare
la vita in istituto una soluzione e di sicuro
nessuno la desidera per il proprio figlio, al
massimo può sceglierla perché disperato e
solo. Perché allora la si vuole offrire a chi
ha già avuto così poco?
Chi ha una responsabilità politica quando
sceglie una soluzione piuttosto che un’altra
rivolta a minori o comunque a persone deboli,
forse dovrebbe chiedersi se è quello che
vorrebbe per il proprio figlio. Se impariamo
a sentirci un po’ genitori di tutti i figli della
nostra generazione forse siamo più attenti
a trovare delle soluzioni giuste e siamo più
in grado di trovare le risorse necessarie per
concretizzare quei diritti che nessuno nega
siano di tutti.
Vilma e Giuseppe Alì, Giulia Basano, Silvia
e Elio Calza, Catia Fanton, Lidia e Giovanni
Giulio e gruppo ANFAA Torino
Hanno aderito: Laura Mughetto, Maria
Rodella, Rita Frassi, Domenico Parisi, Maria
Angela Taccoli, Maria Scaraffia, Elisa Finotti,
Maria Linda Nicoli, Palmira Mondo, Walter
Berardo, Rosanna Taberna, Gianmauro
Brondello, Annamaria Bidoia, Sandro Olivero,
Gabriella Pelissero, Maria Marullo

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