a cura di Emilia De Rienzo e Costanza Saccoccio
Siamo i genitori di tre bambini adottivi, con storie diverse, che frequentano la classe IV della scuola primaria in un paese di provincia.
La classe rappresenta un piccolo spaccato della società odierna che vede convivere molte “diversità”: figli adottivi, in affido, di colore, di religioni diverse, di genitori separati, bimbi con problemi comportamentali.
In tale contesto le insegnanti hanno manifestato la loro intenzione di affrontare in classe l’argomento della “diversità”, e hanno chiesto il nostro sostegno.
Riteniamo il tema estremamente delicato, da affrontare in maniera strutturata e completa, considerando che le diverse situazioni familiari non sono apertamente chiarite all’interno della classe.
Vorremmo che fosse impostato un lavoro che consentisse a tutti i bambini di crescere in armonia e di riconoscersi, nelle proprie diversità, uguali per dignità e diritti.
Come è possibile trattare questo tema in una classe quarta, sempre tenendo presente la tutela dei bambini?
Come rispondere alle insegnanti?
Grazie e cordiali saluti
Mirella, Norma e Paola
Ogni individuo ha bisogno di riconoscersi e di sentirsi riconosciuto. Nasciamo, cresciamo all’interno di una comunità che ci definisce e a cui sentiamo di appartenere.
Siamo “catalogabili e riconoscibili” a partire proprio dalla nostra nascita, dalla nostra appartenenza o meno ad un gruppo sociale.
Per determinate caratteristiche, però, possiamo essere soggetti a pregiudizi, a volte a discriminazioni.
Per esempio un bambino adottato può dover superare, più di altri, una serie di ostacoli per sentirsi inserito prima nella propria famiglia e poi nel contesto più ampio di appartenenza.
Quando un bambino raggiunge la sicurezza psicologica di appartenere ad una famiglia in quanto si prende cura di lui, questa sicurezza a volte può vacillare di fronte al non riconoscimento esterno dell'”altro”.
Quando, infatti, il bambino a scuola si trova a dover affrontare le domande, le curiosità o le richieste degli insegnanti e dei compagni, può trovarsi in grosse difficoltà nel rispondere, nel dare una spiegazione della sua situazione: il genitore non è presente ed è lui che deve trovare le parole per dire, per raccontarsi.
Nella scuola sono frequenti le occasioni in cui i bambini debbano raccontare la loro origine, la loro storia. A volte gli viene richiesto dall’insegnante stesso, a volte dai compagni, ma quello che conta è il contesto in cui il bambino si trova quando si deve porre davanti agli altri con la sua “diversità”. Per un bambino essere nero è normale, ma diventa un problema se gli altri non lo riconoscono come tale. Non è la diversità ad essere un problema, ma il modo in cui la diversità viene recepita dagli altri.
Il problema non è essere figlio adottivo, straniero o portatore di handicap, il problema è se gli altri ci percepiscono come diversi e a questa diversità danno una connotazione di inferiorità. E se i bambini non sono abituati a capire, ad accettare il diverso, nei momenti di conflitto, tenderanno a rimarcare la diversità dell’altro, stigmatizzeranno la diversità del compagno, nasceranno problemi interpersonali fra di loro.
Nel bambino preso in giro potranno crearsi sensi di inferiorità, momenti di aggressività o addirittura l’autoesclusione dal gruppo.
Ed allora il problema non è tanto parlare della diversità, di cosa vuol dire essere bambino adottivo, affidato o straniero, ma creare le condizioni perché ognuno possa stare bene con l’altro al di là delle sue caratteristiche, della sua nascita, del colore della sua pelle, del suo modo di comportarsi.
Andrea, un figlio adottivo, per esempio racconta:
“Quando ero bambino non avevo nessuna difficoltà a dire che ero un figlio adottivo. I miei mi avevano insegnato che essere figli adottivi era la stessa cosa che essere figli biologici.
Io non sentivo la diversità, anzi per me era una cosa bella. Poi alcuni miei compagni hanno cominciato a prendermi in giro e a dirmi che io ero senza famiglia, che mia mamma non era la mia mamma vera. Non ho avuto il coraggio di parlarne agli insegnanti, anche perché li sentivo distanti, non mi ispiravano confidenza. Da quel momento sono diventato più prudente e non ho più parlato così facilmente della mia adozione”.
Ciò che secondo noi dovrebbe essere la prima preoccupazione di un insegnante è quella di creare prima di tutto un clima di classe dove ognuno possa trovare una propria collocazione e possa sentirsi a suo agio.
E’ un lavoro lungo, continuo, attento ai legami che si creano nella classe, a come si percepiscono fra di loro, a parlare con loro quando si creano momenti di difficoltà e di incomprensione, ad insegnare loro che scherzare non vuol dire prendersi in giro. E’ compito di noi adulti far comprendere la differenza tra scherzo e offesa, tra divertimento e aggressione dell’altro, far notare che ciò che noi soffriamo è sofferenza anche nell’altro, che la sensibilità può essere diversa, che qualcuno può essere più vulnerabile di un altro. Bisogna educarli alla responsabilità, a rendere conto a tutti dei loro comportamenti, all’affettività e al rispetto dell’altro.
Il ragazzo di fronte a un insegnante che sa prendersi cura di lui non stenterà quasi mai a riconoscere le proprie responsabilità, perchè non si sentirà giudicato o peggio squalificato.
I bambini hanno bisogno di sentire la solidarietà dell’adulto e che questo sta lavorando per creare un’atmosfera di solidarietà nella classe.
La parola solidarietà ha la stessa derivazione di “solido” che è detto di “un corpo che mantiene forma e volume costanti nel tempo per l’elevata forza di coesione delle particelle che lo compongono”. Solidarietà non è fare un piccolo gesto slegato dalla quotidianità, ma agire per creare un gruppo in cui ognuno si senta legato ad un altro senza perdere la propria peculiarità, ma imparando a confrontarsi con l’altro. Conoscendo l’altro come individuo, insegnerà ad ognuno che siamo diversi l’uno dall’altro, ma che possiamo stare insieme, creare insieme una rete solidale dove ognuno si sente aiutato e sostenuto da tutti gli altri.
Solo in questo modo la scuola può diventare un luogo di confronto, dove ogni bambino si incontra con altre realtà di vita e può ritrovare la propria diversità in mezzo ad altre diversità, i propri problemi in mezzo ad altri problemi.
E’ l’atteggiamento di dialogo con l’altro, con quello che può venire dall’altro come esperienza sempre individuale, che deve essere valorizzato nella relazione educativa.
Solo se le emozioni e i sentimenti degli allievi sono accolti e riconosciuti come aspetti strettamente legati all’esperienza e non come ostacolo o disturbo allo svolgimento del programma, il bambino può trovare la forza di raccontarsi, di appropriarsi della propria storia, anche se a volte dolorosa, come un valore e non come un motivo di esclusione da tutti gli altri.
Questo approccio educativo potrà aprire la mente all’apprendimento di un sapere che il ragazzo non sentirà più come estraneo, ma che sarà vissuto come un aiuto alla sua crescita.
Bisogna, quindi, pian piano far parlare i bambini, dare spazio ai loro vissuti, alle loro domande. Bisogna che i problemi vengano fuori in modo spontaneo, senza forzature, ma neanche senza aver paura di dare risposte, senza paura di sbagliare. I bambini non si aspettano da noi la perfezione, ma la nostra disponibilità. Devono sentire che con noi si può parlare, che noi siamo sempre pronti ad ascoltarli, ad accompagnarli nelle loro difficoltà. Devono sentirsi protetti quando si sentono deboli e devono imparare ad affiancare loro stessi chi sentono in un momento di difficoltà.
E’ per questo che è importante creare un clima collaborativo e non competitivo, non perché ci si rifiuti di cimentarsi, ma perché le proprie capacità sono utili a se stessi, ma anche a tutta la comunità.
Ma siamo noi insegnanti e noi adulti che dobbiamo per primi non fare delle differenze, delle classificazioni che portano a delle divisioni: per quanto un bambino sia diverso da un altro, c’è sempre solo un bambino. Ogni bambino è diverso dall’altro e a volte i problemi più grossi si nascondono sotto un’apparente “normalità”.
Il problema non è quindi spiegare che siamo tutti uguali e tutti diversi (è anche questo), ma è soprattutto guidare i bambini ad apprezzarsi per quello che sono con le loro caratteristiche. Ma i primi ad apprezzare e valorizzare ogni bambino dobbiamo essere noi e crederci realmente. Solo cosi il nostro atteggiamento sarà quello giusto e la nostra attenzione riuscirà a cogliere i momenti opportuni per intervenire e non ci mancheranno le idee per costruire anche percorsi didattici rivolti a cogliere che la diversità è ricchezza e a stimolare il racconto di sé.
Avere uno tempo e uno spazio fisico, un certo modo di disporsi possono essere di aiuto. Ci si può periodicamente mettere in cerchio per raccontarsi, per conoscersi, si possono sollecitare i bambini a scrivere lettere tra di loro, all’insegnante in cui possano raccontarsi, dire qualcosa che desiderano sia conosciuto anche dagli altri, invitarli a dire quando si sentono isolati, quando stanno vivendo un momento difficile.
I bambini sperimenteranno che possono parlare di quello che succede tra di loro, che c’è spazio per i loro vissuti, per i loro piccoli e grandi problemi. Ogni cosa che succede nelle loro relazioni può essere un punto di partenza per fermarli a riflettere, ad assumere il punto di vista dell’altro e a capire che tante cose che si fanno o si dicono, senza l’intenzione premeditata, possono ferire l’altro.
La narrazione è ricca di opportunità: una semplice storia raccontata dal punto di vista dei vari personaggi può aiutare a capire l’altro e ad uscire dall’egocentrismo; una storia che si può concludere in tanti modi diversi può aiutare a capire che le realtà possono essere tante. Ma è l’attenzione alla quotidianità e alle varie individualità che ci suggeriscono cosa fare.
Emilia De Rienzo, Costanza Saccoccio
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