a cura di Emilia De Rienzo e Costanza Saccoccio
Handicap! A chi serve l’integrazione? Questa è la domanda che si pone Tonia Mancino, la mamma di Ilaria, una bambina portatrice di handicap che il giugno scorso ha superato gli esami di licenza media. Ci ha inviato stralci dei temi scritti dai suoi compagni – alunni della classe III N della scuola Media Leonida di Taranto – all’esame di licenza media, che hanno voluto in tal modo darle il loro affettuoso saluto. Li riportiamo qui di seguito con le riflessioni in merito di Emilia De Rienzo.
«Ma un’altra esperienza o meglio una cosa importante per me è stata Ilaria. Lei è una ragazzina che ha degli handicap, ma che in fondo è come noi. Lei è una ragazzina dal viso dolce e che ti riempie d’attenzioni, come se fossi la persona più importante. Lei è stata così, sin da quando bussò alla porta della nostra classe in prima e dopo esserci presentati a lei per dimostrarle la nostra simpatia le cantammo le canzoni del suo cantante preferito cioè Nek.
Oggi devo dirti che lasciare Ilaria è stata la cosa che più mi è dispiaciuta».
«La classe mia è molto affezionata a una bambina di nome Ilaria che purtroppo è disabile, però questo fatto non ci ha particolarmente interessato perché noi tutti l’abbiamo accolta come se fosse una bambina normale come noi. Con lei abbiamo scherzato, giocato insieme anzi forse abbiamo dedicato più tempo a lei che non al nostro gruppo della III N».
«Avrei voluto finire il triennio in bellezza, piangendo e abbracciando tutti, be’ magari sarà così, ma è molto improbabile. E’un pensiero che mi ossessiona, mi sembra di aver buttato tre anni di vita, maaah….., che dico? Questi anni sono stati importantissimi per la mia formazione, soprattutto grazie alla presenza di una ragazza portatrice di handicap in classe. Ilaria ha addolcito i nostri caratteri e ci ha reso più disponibili».
«Ad esempio c’è stata un’esperienza bellissima, l’arrivo di Ilaria. Lei è una ragazza con dei problemi, ma per tutti è come noi. La riempiamo sempre di attenzione e lo stesso fa lei per noi. Lei è di una dolcezza unica, ti dà baci sempre e in ogni momento. Questa esperienza ci ha fatto crescere e maturare, perché io quando arrivò, avevo paura di toccarla e prendere delle infezioni, poi mi sono affezionata tanto a lei tant’è che le uniche persone che mi dispiacerà lasciare saranno Ilaria e Maria».
«Una cosa che mi ha un po’ turbato, è stata la presenza di una bambina disabile in classe, avere una ragazza disabile in classe è un lavoro anche per noi alunni, perché bisogna starle vicino; io in questi tre anni non sono stato attaccato affettivamente come alcuni compagni a Ilaria e credo di aver sbagliato; in prima media non mi avvicinavo a lei perché credevo che se mi avvicinavo diventavo come lei, ma ora ho capito che non è vero».
La prima considerazione che ci viene da fare è che sicuramente l’inserimento di questi bambini nella scuola ha lasciato e lascia segni di cui forse troppo poco sappiamo far tesoro.
E’ interessante leggere ciò che i suoi compagni hanno scritto, le loro riflessioni sincere e non guidate dalla mano di un adulto. Sempre bisognerebbe far esprimere i ragazzi, farli parlare, raccontare come vivono il loro rapporto non solo con bambini considerati «diversi», ma anche fra di loro nella quotidianità. Potremmo scoprire le loro difficoltà, i valori da cui sono guidati, i pregiudizi che noi adulti abbiamo inculcato in loro.
Ciò che emerge da queste testimonianze è l’iniziale paura di fronte all’incontro con Ilaria quando «bussò alla porta della loro classe». La paura della diversità, la paura addirittura del contagio («Quando arrivò avevo paura di toccarla e di prendere delle infezioni»), la paura di diventare come lei «se mi avvicinavo».
Una mentalità atavica che faceva, non molto tempo fa, del genitore di un portatore di handicap addirittura uno che doveva aver commesso qualche colpa, qualche peccato per meritare «questo castigo», la mentalità che questi ragazzi dovessero, quindi, essere nascosti, segregati in istituto, tenuti lontani dagli altri.
Oggi non abbiamo ancora perso l’abitudine di classificare, di etichettare, di fare una gerarchia di valori che vedono l’intelligenza, la bellezza, la ricchezza e il successo ai primi posti.
Quante madri di ragazzi portatori di handicap hanno, per esempio, visto, andando ai giardini con i loro figli, molte mamme allontanarsi con i loro bambini perché non entrassero in contatto loro! Quanti bambini ancora oggi, nonostante le leggi vivono nei corridoi delle scuole insieme ai loro insegnanti di appoggio perché «disturbano» l’andamento della classe! Quanto sono rispettate le leggi contro le barriere architettoniche?
Ricordo una mia allieva che un giorno mi aveva detto che voleva molto bene ad una sua compagna costretta purtroppo a vivere in carrozzella, che ammirava il suo coraggio, la sua capacità di lottare, che le piaceva tanto parlare con lei, ma che temeva di perdere l’amicizia dei suoi compagni se stava troppo con lei. Avevamo riflettuto insieme in classe su quell’affermazione e molti si erano riconosciuti nell’atteggiamento di quella compagna. La presenza di Chiara (così si chiamava la ragazza handicappata) aveva favorito una discussione molto profonda, sincera, aperta senza paternalismi e pietismi. Erano i ragazzi cosiddetti «normali» che scoprivano la loro debolezza, la loro mancanza di coraggio, la loro incapacità ad affermare valori che dentro di sé sentivano più veri e più validi anche per la loro stessa vita.
Chi è allora normale? Che cos’è la normalità? Domande difficili, ma che ci dobbiamo porre per uscire da schemi vecchi, da pregiudizi che costringono ancora troppa gente, troppi bambini a vivere ai margini della vita degli altri.
Sarebbe uno sbaglio pensare che aprirsi alla diversità sia una cosa facile. Dobbiamo essere molto coscienti che il nostro modo di pensare, di vivere, di vedere l’altro è come uno spazio che ha dei confini ben precisi, un segno ben visibile, una sorta di orizzonte che ci costruiamo vivendo, o che ci viene imposto dalla cultura a cui apparteniamo.
Ma i confini possono essere più o meno rigidi. Dobbiamo verificare se questi confini sono muri dietro cui ci rifugiamo per proteggerci dai pericoli che possono venire dall’esterno, se sono il nostro riparo interiore da cui non vogliamo uscire o se sono confini disposti all’apertura, all’avventura della conoscenza dell’ «altro» e che può voler dire cambiamento anche di se stessi.
Varcare i confini vuol dire lavorare per uscire dai preconcetti, dai pregiudizi, entrare nel territorio dell’altro con l’atteggiamento umile di chi vuole conoscere, di chi sa di non sapere.
I compagni di Ilaria, vivendo vicino a lei pian piano arrivano ad una conclusione: «è come se fosse normale come noi», ed in quel «come se» si nasconde ancora l’insicurezza, ma nello stesso tempo si comincia a non vedere nell’»altro» il «monstrum» nel senso latino, ma qualcosa che si avvicina per lo meno a noi, che in qualcosa per lo meno ci assomiglia. Si intravede una mentalità in cammino, una cultura che faticosamente sta cambiando grazie alle lotte che molti genitori hanno fatto per conquistare il diritto per i loro figli ad una vita il più possibile «normale».
Ma una testimonianza più di tutti ci rivela quello che succede a chi si accosta veramente alla fragilità: «Ilaria ha addolcito i nostri caratteri e ci ha reso più disponibili». Ilaria, infatti, sa essere affettuosa, sa arrivare ai loro cuori senza mediazioni, in modo diretto, cerca il loro affetto e, nonostante le diffidenze iniziali, riesce ad ottenerlo da alcuni di loro. E in questo avvicinamento i bambini scoprono di sentirsi migliori, non perché «più buoni», ma perché qualcosa dentro di sé cambia.
I bambini handicappati come dice una compagna richiedono «un lavoro in più», è in effetti un lavoro difficile perché non è rivolto all’esterno, ma all’interno di se stessi; richiede di rompere le gabbie in cui è intrappolato il nostro pensiero, ci chiede di farla finita con i pregiudizi, gli sbarramenti, i muri che non lasciano libera la nostra anima e il nostro cuore; ci richiede di scoprire i valori veri, non quelli materiali, ma quelli del nostro spirito; ci richiede soprattutto di non aver più paura di accostare la sofferenza e la fragilità.
Forse molti genitori di figli normali non hanno capito e insegnato ai loro figli che la sofferenza e la fragilità non ci devono far paura né negli altri né in noi stessi.
Oggi mangiando un panino in un bar-libreria ascoltavo un padre interrogare il proprio figlio (che non aveva più di 10 anni) su vari pittori: chi è questo, chi è quell’altro, cosa hanno dipinto?… Il bambino rispondeva come un soldatino, il padre era tutto fiero di lui. Poi il padre ha cominciato a parlare con un suo amico e il bambino ha ripreso le sue attività preferite, prima scrivere un messaggino sul telefonino e subito dopo impegnarsi a fondo nel gioco di un gameboy.
Forse i genitori si dovrebbero preoccupare di più di insegnare ai loro figli la solidarietà, non come atteggiamento pietistico, ma come senso di responsabilità. Quella responsabilità che appartiene all’essenza dell’uomo, alla sua originaria attitudine alla relazione e al dialogo, a quel dialogo che significa ogni volta rispondere, lasciarsi sollecitare dalla presenza dell’altro, dal suo appello, rispondere a lui e di lui. Quel dialogo che si ottiene nella capacità dell’incontro non solo con chi è come noi, non solo con chi ha i nostri interessi, fa i nostri giochi, ma con chi ci può arricchire di nuovi valori e di nuove idee.
Un valore sopra ogni altro ogni bambino dovrebbe far suo: nessuno dovrebbe sentirsi solo. Per questo dobbiamo saper lavorare tutti in uno spirito solidale. La solitudine, invece purtroppo, è oggi un sentimento molto diffuso nel mondo giovanile. E questa solitudine non è la stessa cosa che rimanere isolati su di una montagna: vuol dire non sentirsi percepiti, non avere un senso in mezzo alla gente, sentirsi soli tra tante persone. E si ritrova solo colui a cui nessuno attribuisce un significato, colui che vive ma è o si sente inutile.
Non può, cioè, esserci sviluppo del singolo individuo se questo non è all’interno di una rete, di una situazione di aiuto.
Questo modo di vedere dovrebbe sollecitare gli insegnanti a fare della scuola un luogo dove «non si chieda di essere «forti», ma in cui sia possibile non essere né forti né deboli, e accettare insieme la fragilità della vita». Una scuola che sappia vedere nelle persone individui non etichettabili, che riconosca «la molteplicità»: ogni individuo si può esprimere in diversi modi e questo riconoscimento «non dovrebbe riguardare solo le persone che hanno problemi, ma anche quelle che si considerano «normali», affinché possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e dolorosa etichetta di «normale», per poter assumere e abitare le molteplici dimensioni della fragilità (…) Infatti è proprio là dove nessuno guarda, in quel ‘niente da segnalare’ della norma, che una serie di esseri umani vive nella paura permanente di «dover essere forti», «all’altezza»» recidendo «ogni legame con le dimensioni della propria fragilità e complessità» (1).
Ed in questo sta la risposta alla domanda posta dalla mamma di Ilaria. «A chi serve l’integrazione?» a tutti noi, per ritrovare una gerarchia dei valori che metta al primo posto il diritto di tutti a vivere nella società, il rispetto della diversità, l’apertura all’ascolto e alla comprensione dell’altro. Un diritto che non toglie niente a nessuno, ma che arricchisce tutti. Un diritto per cui meriterebbe, come dice la signora Tonia Mancino, ritornare a discutere, a parlare, a lottare, perché una scuola, una società che ha attenzione per i più deboli, ha attenzione per tutti noi. Invitiamo tutti a riflettere su questo.
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