torna all’indice del Bollettino 03/2004 – Luglio / Settembre 2004

Riportiamo la lettera di Antonia Mancino, mamma adottiva, indirizzata al Corriere della Sera in merito all’inserimento dei bambini portatori di handicap nella scuola di tutti, e il relativo approfondimento.

a cura di Emilia De Rienzo e Costanza Saccoccio

Rispondo alla lettera pubblicata sul Corriere “Handicap, le scuole speciali”. Anch’io sono mamma di una ragazza portatrice di handicap e, a differenza del signor Berenovic, sono contenta di vivere in un Paese dove le scuole speciali sono state abolite.

Se un bambino nasce con un problema non vuol dire che a vita deve essere discriminato e allontanato, io ho sempre cercato di inserire e integrare mia figlia sia a scuola che fuori in gruppi omogenei di bambini “cosiddetti normali”.

Questo ha aiutato maggiormente mia figlia a fare dei progressi e gli altri ad aprirsi e accettare un altro modo di vivere, che è un po’ diverso dal loro. Tutti insieme riescono a capire meglio la solidarietà, la disponibilità ad amare anche la diversità.

Per quanto riguarda poi il sostegno scolastico, questo è un discorso diverso. I tagli che il Governo ogni anno fa sono davvero vergognosi. Si gioca al risparmio sulla pelle dei bambini e dei ragazzi. I politici si riempiono la bocca di tante belle parole quando vengono intervistati, ma poi la realtà è che si taglia sempre sui più deboli, su chi non è in grado di gridare la propria rabbia, ma è un altro discorso.

Tornando al problema delle scuole speciali, sono contenta di vivere in un Paese civile dove almeno non vengono raggruppati tutti insieme come in un ghetto.

Cordiali saluti

Antonia Mancino

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Rispetto – anche se non condivido – l’opinione del sig. Leo Berenovic che nella lettera al Corriere della sera del 17 settembre 2004 si dichiara contento di vivere all’estero dove la figlia handicappata può frequentare una scuola speciale, in cui è seguita individualmente mentre in Italia la riduzione degli insegnanti di sostegno ha tolto “l’unica àncora di salvezza”.

Vorremmo, però, ricordare come la legge sull’integrazione degli allievi con handicap, abbia rappresentato in Italia un passo fondamentale per tutti i bambini portatori di handicap. Forse dobbiamo oggi vigilare di più e meglio su come è stata applicata, continuare la ricerca per affinare gli strumenti e diffondere una cultura più profonda su questi problemi; forse dovremmo tornare a lottare come in quegli anni, perché a questi bambini sia garantito il diritto ad una vita normale, tra i bambini “normali”.

Il passaggio dalle scuole speciali all’integrazione nelle scuole normali è stato un salto di qualità molto importante nella conquista dei diritti delle persone handicappate, nella concezione educativa e nella ricerca di strategie e percorsi didattici che permettessero agli allievi di fare progressi, naturalmente adeguati al tipo di handicap.

Per questa legge negli anni settanta hanno lottato insieme genitori, insegnanti, psichiatri, operatori sociali. Era e rimane un diritto di tutti i bambini, anche quelli con problemi intellettivi o psicologici, quello di vivere e condurre la propria vita in un ambiente normale e di non essere costretti a vivere una “vita separata”. Se oggi, il governo italiano toglie finanziamenti, risorse, se diffonde una cultura più della discriminazione che dell’integrazione, per i nostri bambini dobbiamo tornare a lottare per affermare con forza questi diritti e non arrendersi.

Un bambino portatore di handicap, infatti, come tutti i bambini, deve sentirsi accettato e amato non solo dai suoi genitori, ma anche dalla comunità. Perché ciò avvenga deve vivere in situazioni normali e la prima situazione normale per un bambino è la scuola. E’ più facile per un genitore ritirare suo figlio dalla società per difenderlo dai pregiudizi; è più difficile accettare i rischi che questo comporta e aiutare il figlio a superare i conflitti provocati dalla società piuttosto che separarlo da essa.

E’ l’eterogeneità che fa crescere e non certo l’omogeneità; i bambini imparano non solo dall’adulto ma molto di più dai loro coetanei sia per un processo di imitazione spontaneo sia per sentirsi più accettati. Perché ciò avvenga, però, è necessario che un bambino non sia in classe come un soprammobile, senza cioè che lo si aiuti ad avere relazioni con i compagni e viceversa, senza che questi capiscano che ognuno di loro è diverso dagli altri, che ognuno ha qualcosa da donare ai compagni. Solo se c’è relazione si può parlare di integrazione.

I bambini con handicap, non sono “macchine da aggiustare”, ma persone che hanno diritto di imparare, ma che possono anche insegnare qualcosa agli altri; quello che ci unisce agli altri non è solo la nostra intelligenza, ma in primo luogo la nostra affettività.

Ricordo un mio allievo, si chiamava Massimo ed era affetto da tetraparesi spastica, era seduto in carrozzella e parlava con molta fatica. Una compagna in seconda media aveva scritto di lui:

Quando sono stata inserita in una classe con un ragazzo portatore di handicap, ero spaventata, non sapevo cosa dirgli, come trattarlo, mi faceva impressione. Ero tentata di chiedere a mia mamma di cambiarmi di sezione, ma meno male che non l’ho fatto. Massimo mi ha insegnato ciò che nessuno avrebbe saputo insegnarmi: la capacità di gioire delle più piccole cose, la capacità di dare amore senza condizioni, la capacità di lottare di fronte anche a difficoltà che a me sarebbero sembrate insormontabili. Stare con lui è bellissimo, ti comunica tante emozioni belle che non so descrivere… forse è il senso della vita”.

Su questa premessa, a mio parere e non solo, si inserisce un lavoro didattico che tende a sviluppare l’apprendimento.

In tutte le situazioni in cui è stato fatto ciò si sono avuti dei risultati, i bambini sono cresciuti sia dal punto di vista intellettivo che dal punto di vista della loro personalità.

Negli anni settanta c’è stato un mutamento radicale di mentalità nella società, si è diffusa una maggiore coscienza e socializzazione della problematica dell’handicap, si sono avviati reali processi di integrazione, di comprensione e di accettazione. Sono così sorte esperienze che hanno saputo valorizzare l’handicappato come persona e indiscussi e inaspettati sono stati i miglioramenti..

Oggi, purtroppo, si ha l’impressione che ci sia un ritorno indietro: la tendenza che sta vincendo a scuola è, per esempio, quella di portare i bambini fuori dalla classe in nome di un insegnamento specializzato che non tiene di nuovo conto di quanto la sfera affettiva sia strettamente legata alla sfera cognitiva tanto più in questi ragazzi.

Troppe questioni fondamentali non sono state risolte e le famiglie sono sempre più sole e senza sostegno.

L’inserimento di bambini “diversi” non fa bene solo a loro, ma anche a tutti gli altri. “Educarsi alla frequentazione del diverso è la prima condizione che dispone psicologicamente a intendersi con chi non è nato nella propria culla dove siamo nati noi. Questa disposizione psicologica eviterà in seguito di escludere dal proprio universo morale stranieri, avversari, membri di gruppi svantaggiati, e indurrà a riconoscere a loro gli stessi obblighi morali che sentiamo per i nostri amici e familiari” così dice Galimberti.

La scuola può insegnarci a ripudiare l’indifferenza, il menefreghismo, l’egoismo se si avrà la possibilità “di sperimentare il “diverso” come “prossimo tuo”” (1).

E la parola prossimo va intesa proprio nel senso latino come “vicinissimo”: il mio compagno di classe, il mio compagno di banco, il mio vicino di casa…

Certo la scuola deve attrezzarsi, deve avere modo di seguire i ragazzi anche individualmente e per questo deve avere risorse e mezzi. Lo ripeto bisogna lottare perché ciò avvenga, non rinunciare.

Indubbiamente il lavoro di un insegnante di sostegno è fondamentale per l’individualizzazione dell’insegnamento, ma l’integrazione non si esaurisce lì.

Non si può, non si deve relegare tutto quanto riguarda il bambino con handicap all’insegnante di sostegno e, quando questi viene a mancare e il bambino deve stare in classe, egli rimane parcheggiato; il consiglio di classe nella sua interezza deve farsi carico dell’integrazione.

Quando un bambino ha frequentato una scuola speciale vivrà tutta la sua vita in un contesto speciale o ad un certo punto dovrà in qualche modo essere calato nella realtà di tutti? Come sarà possibile questo se lui è stato abituato a rapportarsi solo con altre persone come lui? Come sarà possibile per gli altri rapportarsi con lui? Gli altri ne avranno semplicemente paura, saranno diffidenti come con qualunque cosa che non si conosce e necessariamente lo emargineranno.

Bisognerebbe stare sempre tutti insieme in mezzo alla gente normale che ti aiuta a sentirti bene…il fatto di essere lì e non in un posto normale era per me una cosa ingiusta…”. Così commenta la sua vita un ragazzo insufficiente mentale, che non aveva potuto frequentare la scuola normale, ma solo un centro speciale e poi un laboratorio protetto. La sua vita cambia quando viene inserito in un lavoro, ma avrebbe potuto cambiare molti anni prima.

Una scuola speciale forse può essere molto efficiente sul piano tecnico, ma quale percezione di sé darà al bambino, che tipo di autostima? Quella di un bambino che vede gli altri vivere, giocare, stare insieme, mentre lui può stare solo a guardare.

Forse bisognerebbe tornare a riflettere su queste tematiche, recuperando quello che di buono si è perso per strada, ma anche elaborando idee nuove che diano ad un bambino con handicap l’opportunità di vivere una vita dignitosa.

Bisognerebbe impedire che le difficoltà determinate dai tagli economici ci facciano piano piano, quasi senza consapevolezza, scivolare nel passato. Per questo è necessario che genitori, insegnanti, operatori tornino a lottare per difendere le opportunità che rischiano di essere perse. Una vita può essere completamente diversa a seconda delle opportunità che le vengono offerte.

E’ la società che stabilisce i criteri per dividere in categorie gli uomini. E tra queste passa una lunga barriera invisibile ma molto solida che divide i “normali” dai cosiddetti “handicappati”; questi in quanto “mancanti di qualcosa” non sono considerati proprio uomini. Queste persone nella nostra mente vengono così declassate da “persona completa” a persona “segnata, screditata” da quello che Goffman chiama “stigma”.

Partendo da queste premesse si mettono in opera discriminazioni che di fatto riducono le possibilità di vita di chi è considerato “diverso”.

Sono loro stessi che vengono condizionati a tal punto da credere di non poter condurre una vita come tutti gli altri.

La cultura dominante oggi è ancora quella classificatoria, e con i suoi test e le sue diagnosi evidenzia solo i deficit, frantuma la persona, riduce ed incasella gli aspetti molteplici della realtà in schemi rigidi e precostituiti.

Non sempre, dice Laing, l’uomo ha bisogno di sbarre per costruire gabbie. Le porte della nostra mente sono le più difficili da aprire” (2).

Dentro di noi esistono pregiudizi che non sono il frutto di un atteggiamento psicologico individuale, quanto dell’espressione dei valori della società. E difficile pensare al di fuori delle categorie di cui disponiamo, delle parole che siamo abituati ad usare e a cui siamo soliti attribuire un determinato significato.

Alla parola “handicap” siamo abituati ad associare altri concetti che relegano ai margini individui di cui pochi hanno voluto scoprire le potenzialità. E se una persona ha un basso quoziente intellettivo è facile che ogni sua difficoltà venga più o meno sempre attribuita al “deficit intellettivo”.

Queste sono le sbarre, i rigidi confini che non ci permettono di percorrere strade nuove: “II fatto che le persone normali – dice Goffman – sono in grado di muoversi, di vedere, di udire, non vuol dire che vedano o ascoltino” (3). Può capitare però, a volte, che delle sbarre siano spezzate e che i percorsi mentali che prima di allora credevamo obbligati subiscano dei cambiamenti. E’ questo il momento in cui delle certezze si aprono al dubbio e lasciano intravedere orizzonti diversi.

Si può vedere – dice Sacks – una stessa persona come irrimediabilmente menomata o così ricca di promesse e di potenziale” (4).

Riconoscere, accettare la propria diversità non deve necessariamente voler dire essere etichettati, emarginati, appartenere ad una “categoria” che non conosce al suo interno differenziazione, che non permette la costruzione di una propria identità, di una propria soggettività. Non vi può essere un autentico soggetto laddove l’esistenza si risolve nello svolgere un ruolo predisposto da altri al posto tuo. Si diventa soggetti quando c’è possibilità di scelta. E quanto più le tue scelte sono limitate per le tue condizioni fisiche, mentali o psichiche, tanto più quello spazio di libertà va assicurato, difeso e protetto.

Le “diagnosi”, le classificazioni a volte inevitabili, non devono mai enunciare una situazione irreversibile, né tanto meno uno “status sociale”.

Bisogna sempre riportare al centro dell’attenzione la persona con la sua identità e individualità. Solo allora avremo un “chi” e non un “che cosa” come dice Oliver Sacks.

“Bisogna uscire dal pregiudizio che sta alla base delle definizioni “incurabili”, “irrecuperabili” le quali stabiliscono un limite di tempo oltre il quale non è possibile il recupero. Non esiste nessun limite se non nell’idea di chi non sa come affrontarlo, di chi crede di non poter fare di più” (5).

Chi è portatore di un handicap ci consegna come valore importante la scoperta della lentezza come indispensabile prerogativa per l’ascolto e la costruzione di rapporti veramente e profondamente validi. Chi non ritrova questo valore, difficilmente saprà ritrovare il dialogo, non quello che scavalca l’altro, ma quello che si mette in ascolto degli altri e di se stessi.

Emilia De Rienzo e Costanza Saccoccio

 

 

NOTE

1 – Da La Repubblica del 12/05/04: Umberto Galimberti – Ma noi non siamo vittime.

2 – Ronaid D. Laing, La politica dell’esperienza, 1980, Feltrinelli, Milano.

3 – Erving Goffman – Stigma. L’identità negata. – 1970, Laterza, Bari.

4 – Oliver Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, 1986, Adelphi, Milano

5 – Giulia Basano, Nicola. Un’adozione coraggiosa, 1999, Rosenberg & Sellier, Torino così dice Giulia Basano, madre adottiva di un bambino gravemente handicappato.

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