torna all’indice del Bollettino 01/2004 – Gennaio / Marzo 2004

Proseguiamo il discorso iniziato nello scorso numero del nostro Bollettino di Informazione, augurandoci di poterlo trasformare presto in un dialogo con chiunque (genitori, insegnanti, ragazzi, educatori) voglia offrirci il suo contributo in merito all’ampia tematica dell’inserimento scolastico con particolare riferimento ai temi dell’adozione e dell’affidamento familiare.

Devo ringraziare tutte quelle persone, insegnanti, genitori, operatori che ho incontrato in questi ultimi mesi in alcune città di Italia (a Milano, a Monza, a Lucca, a Genova, a Vicenza). In questi incontri ho sentito di iniziare un dialogo che vorrei continuasse. Sono sicuramente emersi dei punti fermi e irrinunciabili.

Ciò che mi sembra di poter dire è che molti desiderano costruire una scuola dove l’apprendimento non sia slegato dall’aspetto emotivo e relazionale, una scuola dove si incontrino anime e non solo menti, dove i programmi si modulino sui ragazzi e non viceversa, dove la valutazione non suoni come una condanna, ma come un momento in cui si studiano insieme agli allievi strategie per progredire.

L’esperienza ci ha insegnato che qualunque contenuto disciplinare prende senso dentro una relazione, che le materie non devono essere materie morte, ma vivere nell’incontro con chi viene in contatto col sapere.

Ho sentito, però, che tra gli insegnanti, ma anche tra i genitori serpeggia molto scoraggiamento. Ed è chiaro che ci sono buoni motivi per esserlo.

Si fa, quindi, un gran parlare di ragazzi demotivati, senza ideali, senza progetti, ma dobbiamo chiederci quanti adulti non sono esattamente così. Quali sono i nostri valori. Chi di noi è disposto a spendere in entusiasmo e speranza per dare alle nuove generazioni degli obiettivi, degli ideali? La delusione, il malessere dei grandi non contrastano di certo il pessimismo che sembra aleggiare tra i giovani d’oggi.

Eppure molti sono convinti che i bambini, i ragazzi devono essere per definizione “felici”, che è la loro età a renderli tali, non quello che vivono e vedono intorno a loro. Come se crescere fosse un mestiere facile. Come se fosse facile essere felici quando si arriva a casa e si trovano adulti frustrati e scontenti. I giovani esprimono ciò che respirano. I ragazzi, purtroppo, ci fanno da specchio.

Bettelheim nel curare ragazzi molto problematici dice che il suo compito principale era “ridare significato alle loro esistenze” e che “se i bambini erano allevati in modo da renderne la vita ricca di significato per loro, non avevano bisogno di un particolare aiuto” e aggiunge “nulla è più importante dell’impatto dei genitori e di altre persone che si prendono cura del loro bambino”

I ragazzi hanno bisogno del nostro ottimismo anche nelle difficoltà, della nostra serenità nell’affrontare i problemi, di un nostro sguardo al futuro carico di speranza anche quando tutto sembra andare storto.

Ed allora prima di dire che non capiamo i giovani, dobbiamo chiederci se non siamo noi i primi a non capire noi stessi, a non trovare più il senso di quello che facciamo. Abbiamo smesso di farci domande, viviamo troppo spesso come automi, senza aver più la voglia di rinnovarci, di scrollarci di dosso un mondo che ci ingabbia.

I ragazzi vivono sempre di più tra adulti che guardano ciò che li circonda con distacco, senza farsi toccare o commuovere. Passano vicino a uomini e a cose come “vicino ai muri”. E’ come se si allenassero ad essere insensibili a tutto ciò che li circonda per paura di soffrire troppo. La vita in questo modo diventa insignificante, perché “apatica”, priva di quella che i greci chiamavano “pathia“, di quella partecipazione emotiva che sola ci può rendere veramente vivi. Il senso della vita, infatti, io credo che non lo si trovi allontanandoci dagli altri, dai problemi, dalla sofferenza, ma nell’incontro con gli altri, nel sentire, nel patire insieme.

Ed è proprio la volontà di educare i bambini in modo tale da farli diventare uomini migliori che può far scattare dentro di noi la voglia di rinnovarci. Diceva giustamente Laing che i bambini hanno “una parte altrettanto importante nella crescita e nello sviluppo degli adulti come noi l’abbiamo nella loro“.

Prima di tutto siamo noi adulti che dobbiamo avere il coraggio di chiederci se siamo in grado di cercare, interrogarci e costruire il nostro star bene in ogni situazione di vita o se l’abitudine alla routine ci ha fatto dimenticare le finalità del nostro stare nella scuola. Non si può negare che molto spesso nella scuola i primi a non star bene sono proprio gli adulti: gli insegnanti e spesso anche i genitori. Tra di loro non sempre c’è armonia né si costituisce quella alleanza solidale che possa tendere al benessere del bambino. I motivi per cui l’adulto non sta bene sono tanti e intricati, ma non dovrebbero più essere taciuti, dovrebbero essere espressi, non per raccogliere le lamentele o per piangersi addosso, ma, al contrario, per ritrovare i sensi del nostro agire, il significato del nostro lavorare e vivere nella scuola con i bambini.

Abbiamo bisogno di motivazioni salde e forti ed è nostro dovere ritrovarle, se le abbiamo perdute, come è dovere dei padri e delle madri quello di ritrovare giorno per giorno, al di là delle grandi difficoltà, i sensi del loro essere genitori. Insegnanti e genitori, quelli che hanno ancora la voglia e la forza di reagire dovrebbero lavorare insieme per costruire una scuola migliore.

I ragazzi hanno bisogno di sentire intorno a loro non “anime perfette” che non sbagliano mai, ma “anime vive” che sappiano porsi di fronte all’altro in modo vitale. Persone che sappiano stabilire una relazione senza averne paura e che insegnino ai loro alunni a relazionarsi fra di loro, che sappiano essere persone mature e che dimostrino loro di sapersi prendere cura dell’altro senza dimenticare se stessi, per poterli aiutare a crescere e a diventare a loro volta persone.

Perché il genere letterario che i bambini amano tanto sono le fiabe? “la fiaba rassicura, infonde speranza nel futuro e offre la promessa di un lieto fine. Per questo Lewis Carrol la chiamò un “dono d’amore…”

E’ questo “dono d’amore” che ci chiedono i nostri ragazzi: aiutarli a sperare.

Un’insegnante a Genova mi ha detto qualcosa che mi ha fatto pensare: Tutto OK, ma basta con il buonismo… Bisogna urlare, perché vediamo molti ragazzi che noi curiamo ed amiamo trovare nel ciclo successivo, siano le medie o le superiori, perdersi nuovamente perché nessuno li segue. Alcuni ce la fanno, altri no…

Bisogna attivarci, continuare nel nostro piccolo a lavorare con i nostri ragazzi dialogando con loro, andando loro incontro nelle difficoltà. Dobbiamo non tacere più quello che vediamo non funzionare e raccontare anche le esperienze positive. Sarebbe bello e importante cominciare un lavoro collettivo in cui raccogliere le varie esperienze.

Aspettiamo quindi da voi…

Grazie per la simpatia con cui mi avete accolta ed ascoltata.

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