torna all’indice del Bollettino 02/2004 – Aprile / Giugno 2004

Le scelte di Nora e Riccardo

Si può affermare che il “pallino” dei bambini senza famiglia mi ha accompagnato, per misteriosi motivi, per tutta la mia infanzia e giovinezza, prima ancora di averne consapevolezza; non esiterei, se dovessi usare un lessico religioso, a chiamarlo “vocazione”

Una volta sposata, questo desiderio di “preoccuparsi” di questi bambini venne fortunatamente accolto e condiviso da mio marito con il quale, di fronte all’impossibilità di avere un figlio nato da noi, fu facile “passare” automaticamente alla scelta adottiva.

Dopo alcune visite al brefotrofio (trent’anni fa esisteva questo istituto nel quale si trovavano molti bambini “senza famiglia” e quindi adottabili), ci sembrò naturale dedicarci ad un bambino grandicello, anche se noi eravamo ancora molto giovani, perché lo consideravo il più bisognoso di cure e affetto tra gli sfortunati suoi piccoli compagni.

Alessandro viveva lì già da qualche anno e forse i responsabili dell’istituto erano ormai convinti che non si sarebbe trovata la famiglia adatta per lui ma, di fronte alla nostra precisa scelta, ci indirizzarono verso le necessarie pratiche burocratiche per attivare l’adozione che, ovviamente, venne ratificata dal Tribunale per i minorenni di Torino. Certamente questo è un iter insolito per l’adozione nazionale, ma occorre dire che quella di Alessandro è un’adozione che oggi viene chiamata “difficile”. Per noi è stato molto facile accoglierlo e amarlo come figlio e lui ci è venuto incontro con grande determinazione, scegliendoci a sua volta come suoi genitori.

Ugualmente, alcuni anni dopo, stimolati in questo da nostro figlio, avviammo un’altra esperienza di accoglienza di una bambina anch’essa non più neonata. Si è trattato in realtà di quella che oggi viene chiamata “adozione a rischio giuridico” (che ha peraltro comportato alcuni incontri con il padre di origine della bambina) ma che dopo qualche anno si è regolarizzata e Chiara è diventata nostra figlia in modo definitivo.

Con entrambi abbiamo sempre parlato con naturalezza della loro nascita adottiva e, mentre Alessandro voleva risposte sempre più puntali e precise, le esigenze di Chiara su questo tema sono state meno intense.

Questi i fatti ma dire cosa ha significato per noi questo percorso e stenderne un’analisi e un commento è un’impresa di cui non mi ritengo capace. Dico solo che è stata, ed è ancora, un’esperienza di grande spessore e di grande impegno, i cui frutti, in termini umani, non sono certamente calcolabili.

Tuttavia, pur consapevoli dell’inconoscibile mistero delle motivazioni e del valore di tutte le nostre azioni, non è mai venuta meno in me e Riccardo, anche nei momenti più bui (legati principalmente a problemi di salute dell’uno o dell’altro figlio), la fiducia nella bontà delle nostre scelte.

Caso mai possiamo a volte avere avuto dubbi sulle nostre capacità di educatori ma, e me ne rendo conto ora perché sto scrivendone, mai ci siamo “ricordati” che Alessandro e Chiara non sono nati da noi.

Nora

la mamma di Alessandro e Chiara

 

Gabriella e Francesca: storia di un affido

Senza papà – che non ha mai conosciuto – con la mamma particolarmente concentrata su se stessa a causa di problemi di salute, Francesca è vissuta parecchi anni in istituto e l’unico legame familiare è stato quello con una zia che non poteva però tenerla con sé.

Gabriella è un’insegnante – single, giovane e sportiva – che ha aperto le braccia a Francesca con un affido familiare da tutti considerato “difficile” per l’età della ragazza (15 anni). Gabriella racconta e, al di là dei particolari, cerca di farci capire quello che è passato nella loro testa – ma soprattutto nel loro cuore – nei tre anni che hanno trascorso insieme.

“Ogni volta che Francesca entrava nel salone del collegio, magrissima, piccolina, le gambette storte, i capelli unticci, con una fioritura di brufoli, pensavo “sembra Topo Gigio” perché la sua bocca andava da un orecchio all’altro in un sorriso accattivante.

L’aiutavo a studiare matematica, ma la matematica non la interessava proprio: aveva voglia di chiacchierare.

Dopo un anno di matematica e chiacchiere, alla morte della sua mamma, avevo incominciato ad invitarla a casa mia la domenica, poi il sabato e la domenica.

Quando ha capito che stavo troppo male sapendola in collegio tutta la settimana e lei mi ha chiesto: “Perché non mi fai stare con te sempre?”, ho deciso, ed è venuta ad abitare con me.

Lo scopo era quello di farle vivere le esperienze di una ragazzina di 15 anni. Le difficoltà erano molte perché in collegio aveva sognato molto e la realtà era diversa dai suoi sogni.

Man mano si creava dei legami nuovi di amicizia e affetto con le compagne di scuola, con i ragazzi del gruppo scout e della parrocchia, con le compagne della scuola di danza. Andavamo al cineforum, a sciare, in discoteca; facevamo parte di un gruppo teatrale e lei era coccolata da tutti i miei amici.

Ha passato la fase trucco-mascherone, minigonne un po’ troppo mini, innamoramenti violenti, sofferti, brevissimi, gelosie nei miei confronti, tradimenti di amiche, crisi di abbandono, crisi di onnipotenza, delusioni nel lavoro. Insomma, eravamo sempre nei casini.

Io galleggiavo a stento in una marea di emozioni, cercando di aiutarla a capire quello che le succedeva, ma soprattutto lasciandola il più libera possibile, con la paura costante che le succedesse qualcosa. Parlavamo molto ed io mi chiedevo se quel che le dicevo e che lei ascoltava distrattamente, con aria di sufficienza – “so-tutto-io”- o con smorfie – “sei vecchia e superata” – servisse a qualcosa. Pessimo, ancora oggi che ha trent’anni – il rapporto con i soldi.

La mia grossa difficoltà era soprattutto di non avere un confronto sul mio modo di interpretare quello che succedeva, sul mio pormi nei suoi confronti. Ho cercato aiuto dalla psicologa del servizio (anche Franci è stata seguita da un’altra psicologa del servizio sociale), dai suoi professori, da amici che avevano figli, dai gruppi di genitori che frequentavano l’Anfaa.

Tra me e Francesca si è creato un legame forte, che continua anche ora che vive in un’altra provincia. E’ sempre piccolina e magrissima ha sempre il sorriso da Topo Gigio, ma è diventata molto carina, core di mamma mi farebbe dire “bella”.

Ha sempre un pessimo rapporto con i soldi e con il lavoro e le riesce sempre bene il mettersi nei pasticci. Ha una bambina, bellissima, dolce e serena e tra loro si guardano con occhi furbi e pieni d’amore. Per lei questa bambina rappresenta la sicurezza di un legame d’amore che non finirà mai: è la sua creatura.

Ci telefoniamo di sovente: non posso risolvere i suoi problemi, ma posso farle sentire il mio affetto; Francesca sa che le voglio bene anche quando non sono d’accordo con lei.

Quando diceva bugie, io le urlavo “Pinocchio, Pinocchio!!” e mi ha lasciato senza fiato quello che mi ha detto ultimamente:

Francesca: “la sincerità è fondamentale in un rapporto”; Gabriella:”Ti ricordi questa frase che ti dicevo?”; Francesca: “Ma Gabri, io mi ricordo tutto, parola per parola, quello che mi hai detto e che mi dici!”.

Allora ho capito che per lei sono importante, sono la sua mamma.

 

“Le donne hanno voci con diverse tonalità che a volte si accordano, come le corde di uno strumento su una stessa armonia, in questo caso l’armonia è la Pace”.

Vi presentiamo la sintesi di una piccola indagine svolta nella città di Biella, per provare a capire cosa vuol dire sentirsi madre, oggi in una città ancora agiata, del nord Italia. Esperienze diverse, anche molto particolari, ma vicine ad ognuno di noi.

A queste mamme abbiamo dato nomi di fiori, perché conta la loro esperienza, non il nome e perché, parlando dei loro figli, tutte si fanno più belle.

Alcune di loro ci hanno consegnato anche pensieri o testimonianze.

Gelsomina, Margherita e Iris, sono tre mamme con una cosa in comune: la solitudine e la fatica di vivere. Alla ricerca di stabilità e di equilibrio, hanno accettato di affidare i loro figli ad altre famiglie, dividendo un ruolo che per definizione è sempre stato unico. Ci hanno raccontato le loro emozioni con entusiasmo e con disponibilità, contente di poter condividere un’esperienza speciale. Tutte pensano che l’affidamento sia stata una scelta positiva per la vita dei loro figli e di riflesso per la loro:

“I miei figli prima vivevano in comunità e non stavano male, ma con la famiglia affidataria è una cosa diversa. Sono meno soli, ricevono più attenzioni, la coppia che li ospita dà loro molto amore”; “Io adesso mi posso occupare di me stessa. Non mi sento in colpa e quando ci vediamo è una festa, giochiamo, ridiamo e stiamo bene insieme”; “Adesso posso lavorare, ho la mia casa ed è piena di fotografie e di disegni dei miei figli”; “Mi mancano i loro sorrisi e i loro bisticci. Vorrei pettinare i capelli della mia bambina al mattino e portarli a scuola tutti e due puliti e ordinati”; “Mi piace tanto poter andare a scuola e ritirare la sua pagella. Io non ho mai avuto tanti bei voti. Mi fa sentire così fiera! Anche il compleanno è una festa bellissima, siamo tutti insieme. Nessuno si ricordava del mio compleanno quando ero piccola”; “Non credo che l’affidamento mi abbia tolto l’amore dei miei figli, ne ha dato di più a loro, ma anche a me “; “Vorrei solo che la mamma venisse più ascoltata, quando cerca di collaborare”.

 

L’affidamento richiede molte energie, molta disponibilità, da parte di tutti, ma è una soluzione per tante situazioni difficili. Quando si costruisce un rapporto positivo tra le due famiglie e i bambini, diventa veramente una risorsa in più.

Viola: mamma e nonna adottiva. Già mamma di una ragazzina ha deciso con il marito di allargare la sua famiglia.

“Come mai la scelta di adottare, non uno ma altri due figli?”.

“Venivo da una famiglia grande e molto legata. Vedere crescere mia figlia sola e con un’educazione forse persino troppo rigida non mi piaceva. Desideravo che lei avesse qualcuno con cui confrontarsi ed eventualmente anche aiutarsi, così è arrivato il primo bambino, piccolo e tenero, un’adozione “banale” ci dissero allora.

“Dopo poco tempo la famiglia è cresciuta ancora?”.

“Sì, per una serie di circostanze, un secondo ragazzino di 9 anni è entrato nella nostra famiglia. Forse eravamo molto ottimisti, forse anche un po’ incoscienti, di certo oggi possiamo affermare che si è trattato di una decisione felice, anche se non priva di impegno.”

“Che tipo di legami si sono sviluppati tra i tuoi figli?”.

“Legami forti, di grande affetto. Una relazione che si evolve anche secondo il variare delle loro situazioni personali”.

“Ti senti mamma in ugual misura di tutti?”.

“Sicuramente, anche se non credo si possa dare una ricetta, come genitore. Mia figlia, già grande, ha avuto dei momenti di difficoltà, quando si è resa conto che noi volevamo bene anche ai nuovi arrivati. Per contro nel rapporto con i ragazzi ho avuto bisogno di sperimentare forme di relazione diverse, rispettose dei loro tempi e del loro passato.

Il grande si è affidato a noi gradualmente, per paura di non essere accettato. Ha provocato riflessioni e discussioni fin dal suo arrivo, proprio per via dell’età e delle sue esperienze. Con il piccolo è stato più facile all’inizio, ma poi, dall’adolescenza, anche con lui abbiamo dovuto affrontare la sofferenza derivante dall’abbandono e dal periodo, seppure breve, di permanenza in istituto”.

“Quali i momenti più significativi della loro crescita?”.

“Rendermi conto che il piccolo, pur essendo cresciuto quasi interamente con noi, ha sofferto più degli altri. Rispetto al grande, che quando è arrivato era un bambino molto spaventato, ma estremamente desideroso di riuscire, la decisione di inserirlo in una scuola privata, per permettergli di stare con tutti gli altri bambini. A quel tempo infatti, per i bambini che avevano qualche difficoltà, c’erano le classi differenziali. Abbiamo fatto una scelta diversa che è risultata ampiamente premiante”.

“Come definiresti la tua esperienza di madre?”.

“Arricchente. I miei figli mi hanno aiutata a crescere, a pensare. Dover capire il vissuto di ognuno di loro mi ha obbligata ad un continuo confronto con me stessa oltre che con mio marito. Questo aspetto in particolare, ha dato maggior solidità al nostro matrimonio.

Un bambino adottato arriva con i suoi geni e la sua storia, che si fonde con la nostra per creare la nuova famiglia”.

“Cosa ti è pesato di più in questi anni?”.

“Sentire tante persone che ci dicevano ‘come siete stati bravi!..’ oppure ‘come sono fortunati !…’ Noi non siamo stati bravi, abbiamo fatto una scelta che ci sembrava normale e giusta. I nostri figli non sono fortunati, ogni bambino dovrebbe avere la possibilità di essere accolto e cresciuto nella propria famiglia. La loro unica fortuna, forse, è stata di essere stati dichiarati adottabili”.

“Cosa hai provato quando uno dei tuoi figli ha seguito la strada già percorsa ed è diventato genitore per adozione?”.

“Sono stata semplicemente felice di diventare nonna, anche perché per ora, questo è l’unico nipotino che abbiamo. Per i nostri ragazzi è una gioia grande, che noi non possiamo far altro che condividere”.

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