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Riportiamo l’intervento di un genitore adottivo al Seminario QUANDO NASCE UN BAMBINO CON DIFFICOLTA’ organizzato a Bologna il 18 Ottobre 2003 dall’AIAS e la lettera da questo genitore inviata all’Assessore alle Politiche Sociali della Regione Emilia-Romagna, dott. Gianluca Borghi allo scopo di ottenere l’approvazione da parte della Regione di una delibera per il sostegno delle adozioni di bambini grandi, handicappati e malati (vedi in proposito anche la lettera a firma Anfaa e altre associazioni, riportata nel Notiziario delle Sezioni).

Quando mi è stata chiesta la disponibilità a portare la mia esperienza, la nostra esperienza, nella giornata di oggi, istintivamente ho pensato che forse il mio intervento fosse fuori posto, dato il tema. Ma poi, pensandoci bene, mi sono reso conto che in realtà anche a noi era “nato” un bambino, anzi una bambina, anche se in modo diverso.

Anche per noi lei è venuta alla vita, nella nostra vita, è entrata senza pretese nella nostra storia, ribaltando progetti, rompendo schemi, rivoluzionando le dinamiche, dando una svolta, nel senso letterale del termine. Ma anche questo è vita, è la vita in senso per noi pieno, perché la vita è anche “accoglienza” dell’altro che incontri, senza andare necessariamente a cercarlo, è guardarsi negli occhi, come coppia, per vedere meglio insieme ciò e chi ci circonda. Dico questo perché, pur con tutti i giusti equilibri da salvare, siamo convinti che anche la coppia stessa da un’apertura all’altro ne ricava di per sè beneficio, crescita, ricchezza, anche di dialogo.

Non credo sia possibile con un autoconvincimento personale o un imperativo ideologico, si tratta semplicemente di farne esperienza, lasciandosi trasportare dalla storia della propria vita, con i suoi incontri, in modo attivo ma insieme spontaneo, senza calcoli ma con le giuste attenzioni: è un cammino che continua, anche per la coppia, senza mai pretendere di essere arrivati e pur con tutti i limiti e le fragilità che fanno parte di noi (non ritengo assolutamente che noi siamo una coppia eccezionale, anzi… e ci dà molto fastidio sentirci dare del “bravi” , spesso anche in forma che ci sembra compassionevole, se non addirittura per mettere dei confini per non esserne coinvolti…).

I nostri figli naturali, già grandi (adesso sono entrambi sposati e siamo già nonni due volte), sono stati protagonisti con noi di questa accoglienza gioiosa, come se una nuova bambina, a distanza di anni, avesse chiesto di essere figlia nostra e sorella loro.

Aveva un anno quando ci è stato chiesto(appunto all’interno di un momento della nostra storia di vita, con i relativi rapporti interpersonali) se potevamo occuparci provvisoriamente di lei in attesa della definizione della sua situazione, tenuto conto anche di nostre esperienze passate di affidamento familiare.

Eravamo a conoscenza che qualche “difficoltà” c’era, al di là del suo splendido sorriso e dei suoi occhi parlanti, anche se non erano ancora chiare la diagnosi e le conseguenze: sapevamo solo che aveva voluto a tutti i costi “vivere”, nonostante tutto.

Più che dire di sì, ci è sembrato naturale dire: e perché no? Ci attrezzeremo per il sì… E così abbiamo fatto e continuiamo a fare, pur con tutte le fatiche, come è faticoso salire con gioia, perché la meta della sua felicità è anche una nostra meta.

Eravamo comunque consapevoli della possibilità che il sì poteva diventare definitivo, se la storia futura lo avesse richiesto. Ma eravamo e siamo anche profondamente convinti che “dare alla vita” non è da intendersi solo in senso biologico, che la naturale fecondità della coppia significa fondamentalmente allargare gratuitamente i confini dell’amore, essere “insieme per l’altro”, chiunque altro, accogliere e dare vita, in senso totale, non ridotto alla mera fisicità, anzi al di là della semplice biologicità (che anche le cronache dicono spesso non essere la cosa essenziale).

All’età di sei anni, con un percorso condiviso e compartecipato anche con le istituzioni, siamo arrivati alla scelta definitiva dell’adozione, anche perché non potevamo accettare che il bene oggettivo di nostra figlia venisse dopo rispetto alle maggiori garanzie di sostegno che ci dava l’istituto dell’affido. Riteniamo comunque che questa incongruenza vada superata anche a livello normativo, proprio per favorire la possibilità di scelte analoghe per altri bambini in difficoltà che hanno diritto comunque ad una famiglia stabile.

E così non siamo stati noi a condurre lei per mano (anche se fisicamente lo dobbiamo fare: la tetraparesi spastica l’ha colpita soprattutto nella deambulazione, e non solo), ma è stata ed è lei a condurci, a farci crescere nell’amore gratuito, nel metterci in discussione, nell’adattare la nostra vita a lei salvando contemporaneamente la nostra, nel darci la forza, se necessario, di “combattere”, anche dentro di noi, contro una cultura radicata che crea l’handicap, di fronte ad un “deficit” o di fronte ad una diversa diversità o diversa abilità.

Non nascondiamo le fatiche, i problemi, gli ostacoli, anche le delusioni, rispetto a tante parole, di persone e istituzioni, arrivate a volte ad aggiungere problemi, piuttosto che affiancarci per affrontare quelli già presenti (con un vero coinvolgimento di “ascolto” attivo della famiglia fin nelle fasi iniziali di una problematica o della relativa decisione) .

E così anche noi siamo divenuti sempre più consapevoli che non è la disabilità il problema principale (che comunque va affrontato al meglio, esigendo competenze sia nei metodi che nei contenuti), ma il contesto di vita, di relazione, sia di ambito interpersonale che sociale in genere.

E allora due cose vorrei condividere con voi: primo, dobbiamo aiutarci tutti insieme perché l’handicap diventi risorsa per noi, prima di tutto, perché ci aiuta a crescere nella nostra capacità di amare, anche come coppia, ma anche di allargare ulteriormente i confini, perché ci rende consapevoli di quanto “amore accogliente” c’è bisogno in questo mondo (al di là dei falsi miti o delle piccole o grandi ipocrisie, ma anche delle nostre chiusure individualistiche ed egocentriche).

Secondo, dobbiamo darci la mano l’un l’altro, anche come coppie, uscendo dai nostri gusci e dalle nostre paure, per lottare strenuamente perché le istituzioni applichino davvero tanti principi sanciti e siano coerenti con tanti bei discorsi e perché, grazie anche alla presenza dei nostri figli con difficoltà, aumenti nei nostri contesti una vera e gratuita attenzione all’altro, come persona prima di tutto, così com’è, e non per quello che appare o sa fare, e una vera integrazione si realizzi nella normale e spontanea quotidianità, senza tante cose o persone “speciali”.

Così anche noi nel nostro piccolo, insieme ai nostri figli, possiamo contribuire alla costruzione di un mondo diverso possibile (con lo strumento anche dell’associazionismo, cui noi pure partecipiamo).

Ho intrecciato fatti e riflessioni a voce alta, perché fatti e riflessioni sono intrecciati nell’esperienza di vita. Sono ovviamente solo alcuni aspetti del nostro vissuto, quelli che ci sembrano forse in questo momento più importanti da sottolineare o semplicemente quelli che ci sono venuti fuori nella spontaneità possibile di un intervento preparato.

Nostra figlia oggi ha undici anni, e fa la prima media: ha rapporti stupendi col suo fratellone e la sua sorellona, e con le sue due nipotine: crediamo, che al di là delle normali tensioni figli-genitori e genitori-figli, lei ci voglia bene: noi senz’altro gliene vogliamo, ma soprattutto le siamo grati di essere entrata nella nostra vita (anche se qualche volta ci fa arrabbiare…).

 

Testo della lettera

“Alla cortese attenzione dell’Assessore alle Politiche Sociali – Regione Emilia Romagna:

Sollecitati da diverse circostanze, tra cui il recente Convegno Regionale sull’adozione, ma spronati anche da varie persone a titolo diverso interessate che la nostra storia fosse in qualche modo portata a conoscenza come caso concreto di una questione aperta più generale, pur con tutte le preoccupazioni di riservatezza dovute, poniamo alla Vostra attenzione alcune considerazioni riguardo al tema delle adozioni di minori con disabilità o comunque delle cosiddette “adozioni difficili” (termine che istintivamente non ci piace).

– La presenza e l’affiancamento dei Servizi, nonché il sostegno psico-sociale ed anche economico alla famiglia affidataria, è in qualche modo garantito. Nel nostro caso ricordo un’attenzione particolarmente positiva, forse giustamente dovuta allo scopo di evitare qualsiasi ipotesi di istituzionalizzazione.

– Da un’ipotesi originariamente solo affidataria (che nel nostro caso era maggiormente e oggettivamente garantita, agli occhi degli stessi Servizi, dalle nostre passate esperienze di affido e dall’avere comunque due figli naturali, per di più già adulti), può avvenire che nel percorso si creino le condizioni di una possibilità adottiva, complice positivamente il Tribunale dei Minorenni e data la disponibilità relazionale e responsabile della famiglia, nel frattempo riconosciuta dai Servizi idonea soprattutto dal punto di vista educativo e “ambientale”, oltre che garante della cura e dell’impegno necessario per il minore con disabilità. Nel nostro caso poi è comunque stato specificato nel Decreto di adottabilità, che era da ritenersi impensabile a quel punto l’allontanamento della bambina dalla famiglia in cui era ormai inserita.

– Riteniamo incomprensibile che il bene oggettivo del minore (in particolare la definitiva sicurezza di stabilità affettiva ed “ambientale” che darebbe l’adozione) venga meno, di fatto, rispetto alle garanzie di sostegno dell’istituto dell’affido, in quanto mette la famiglia nella difficoltà di prendere una decisione così importante, per il carico anche economico e per le incertezze sul futuro, ma soprattutto per la paura di essere, una volta fatta l’adozione, lasciata in qualche modo “sola” o per la consapevolezza di non avere garanzie del medesimo sostegno precedente.

– Il passaggio quindi alla decisione della scelta per l’adozione, almeno in questi casi, non può che essere condiviso e quindi compartecipato da tutti i soggetti coinvolti. Non si capisce infatti come l’adozione debba essere meno supportata, quando dà oggettivamente maggiori garanzie per il minore, ma anche per il Tribunale e per i Servizi stessi (prevenendo di più rischi di ulteriori “abbandoni”, e/o di inserimento in “strutture”, tra l’altro ben più costose e con punti di riferimento educativo e di cura più instabili ed incerti).

– Riteniamo quindi assurdo, pur comprendendone l’attuale “realisticità”, che per poter avere maggiori garanzie di continuità di supporto, una famiglia sia psicologicamente o materialmente “costretta” a mantenere una genitorialità affidataria, quando basterebbe istituzionalmente decidere che non ci debba essere soluzione di continuità tra l’affido e l’adozione, per quanto riguarda il sostegno psico-sociale ed economico.

Nel nostro caso un supporto normativo si è dimostrato nel tempo necessario per garantire la continuità oggettiva dell’iniziale impegno di sostegno, al di là dell’avvicendamento delle persone e di mutate condizioni socio-politiche: la “spinta propulsiva” iniziale di affiancamento alla famiglia, da parte dei Servizi, può avere nel tempo una “parabola discendente”, quando invece i genitori possono trovarsi a sostenere maggior impegno(in tutti i sensi) con minore forza, anche fisica. Dobbiamo comunque sottolineare il recente rinnovato impegno, da parte dell’ASL di nostra competenza, ad essere promotori di un progetto sperimentale che anticipi e insieme stimoli una definizione giuridico-finanziaria da parte della Regione.

– Ma, soprattutto, sancire definitivamente tale opportunità, con una scelta politico-legislativa d’avanguardia (anche se qualche delibera locale è già stata fatta), potrebbe avere uneffetto moltiplicatore per soluzioni simili di altri casi di minori con difficoltà, bisognosi di una famiglia che li accolga con una certa possibile tranquillità. Sarebbe oggettivamente un riconoscimento di un ruolo sociale alle famiglie coinvolte, migliore credo, almeno intenzionalmente, di altre “strutture di inserimento”. Si contribuirebbe tra l’altro, in modo consono e significativo, al percorso di abolizione degli Istituti, prevista per il 2006.

Vorremmo quindi che la nostra storia fosse di stimolo per una sollecita definizione normativa al riguardo, che sarebbe tra l’altro conforme all’art.6, comma 8, della Legge n.184/83, così come modificato dalla Legge n.149/01. La Regione potrebbe essere a sua volta di traino e di stimolo per un effetto moltiplicatore a livello nazionale.

Ringraziamo sentitamente dell’attenzione, nella speranza che questa nostra lettera possa essere davvero utile ai fini del miglioramento della qualità della vita di tanti minori che ai problemi legati all’handicap si trovano aggiunto quello dell’abbandono, più o meno gravemente vissuto. Saremo infine oltremodo felici se avremo contribuito a scelte più serene e più facilitate da parte di famiglie, che mettono al centro della loro vita anche il valore dell’”accoglienza”.

In attesa di un gradito riscontro, il più solerte possibile, porgiamo cordiali saluti”

lettera firmata

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