Avevo sette anni quando è morto mio padre e mia sorella ne aveva tre. Mia mamma, rimasta sola e senza lavoro, chiese aiuto alle istituzioni competenti, ma l’unica soluzione che hanno offerto è stata l’istituto…

… E lì ci siamo rimaste undici anni.

Mia sorella aveva solo tre anni e, come ben potete sapere, aveva un’età nella quale una bambina ha ancora bisogno di una mamma: io ne avevo sette e anch’io avevo bisogno di mia mamma.

Sono cresciuta in questi istituti subendo un sacco di ingiustizie; specialmente quando sono diventata grande ne ho potuto capire la gravità.

Cercavo di lottare, ma mi era impossibile perché quello che le suore imponevano era quello e basta: non si aveva il diritto di avere opinioni; anche quando facevi qualcosa di buono, non te ne veniva riconosciuto il merito.

Crescevamo senza la presenza di quella persona – cioè la presenza della mamma – che sola ti aiuta a crescere, con cui ti puoi confidare e dire tutto ciò che pensi, anche se sbagliato. Ricordo le punizioni avute senza un senso: quando veniva mia mamma, le confidavo tutto quello che succedeva, e allora le suore dicevano che la bugiarda ero io.

Io sapevo di dire cose vere, e mia mamma mi credeva, però quando esponevamo questi fatti ai giudici, tutti pensavano che mi inventassi il tutto per poter uscire dall’istituto. Ringrazio però Dio, che dopo dieci anni passati in istituto, mi ha fatto incontrare con un’assistente sociale che si è molto presa a cuore la nostra situazione, cosa che non aveva fatto nessun’altra assistente sociale prima di lei: le altre sembravano interessate solo a trovarci un posto, naturalmente non si interessavano di come ci trovassimo lì dentro.

Quando questa assistente sociale ci ha proposto l’affidamento, ho pensato in un primo momento all’adozione e allora le ho risposto di no, perché ogni sabato e domenica mia mamma mi veniva a prendere e durante le vacanze passavo molto tempo a casa: meno male che mia mamma veniva costantemente a prendermi, almeno sapevo che l’amore di mia mamma era tutto mio! E questa cosa se da un lato mi faceva immensamente piacere, d’altro mi spiaceva per gli altri bambini che, quando io andavo a casa da mia mamma, rimanevano lì in istituto.

Voi sapete che alla domenica in genere non si lavora; se è una bella giornata i genitori portano i figli a passeggio, oppure si fanno tutte quelle cose piacevoli che si vivono in una famiglia normale.

Lì, in istituto, invece no, la domenica diventava un giorno qualunque: se si avevano i compiti, si facevano i compiti. Qualche volta mi è capitato di rimanere lì, ed era un giorno tristissimo per tutti, tanto è vero che chi poteva, dava una mano in cucina, o nei refettori. Era un giorno… Il più triste di tutti, forse erano meglio i giorni di scuola, almeno in classe si avevano opportunità di colloqui, di scambi di opinioni, anche se noi in quei momenti stavamo zitti perché neanche pensavamo cosa volesse dire avere un’opinione.

L’assistente sociale poi, mi ha spiegato che non si trattava di adozione, ma di affidamento ad una famiglia. Io mi ero rifiutata di andare in un altro posto, al Giudice un po’ arrabbiata, avevo detto che non volevo stare più in istituto né volevo andare in uno nuovo, perché in istituto non c’era quello che mi serviva per crescere.

Sono andata poi in affidamento: un’esperienza bellissima, da ripetere, che tuttora continua.

Questa famiglia si è presa cura di me. Quando io sono andata da loro non sapevo cosa volesse dire stare in mezzo alla gente, esprimere le mie opinioni: se volevo la minestra o se non la volevo. Loro mi chiedevano: “Ti piace questa minestra?” “Sì, sì, se piace a voi piace anche a me” Allora mi dicevano “Ma se non ti piace, puoi anche dirlo” E io “no, no, va bene”, perché così mi era stato insegnato. Non potevo esprimere le mie opinioni: se non mi piaceva una cosa la dovevo mangiare per forza: o quello o niente.

Poi mi hanno trattato come una persona, in questa famiglia ho potuto constatare l’unione che c’era fra di loro e l’amore… l’amore che manca negli istituti. L’amore forse è la cosa principale.

Molti pensano che andare in istituto significhi per i bambini, i ragazzi, i giovani andare in un luogo dove studiano, mangiano, bevono e dormono. No, non è così, perché i bambini hanno anche bisogno di uscire, andare a fare un giro, parlare con le persone di quello che si ha dentro. Di quando una ragazza diventa donna, di quando un ragazzo diventa un uomo e di tutte le tappe che una persona normale percorre.

Comunque ringrazio ancora quell’assistente sociale: un giorno se la incontrerò ancora, non saprò neanche io come ringraziarla per avermi trovato una famiglia affidataria.

Ringrazio di avere incontrato la famiglia di Aldo e Anna, una famiglia che fa parte dell’Anfaa: loro si sono presi cura di quello che era il mio sentimento intimo.

Mi hanno saputo trasmettere delle bellissime cose, come quella del diritto di opinione, mi hanno trasmesso il valore più grande dell’amore in Dio. Nonostante vivessi dalle suore, da loro questo non ho mai potuto constatarlo, perché pensavo a un Dio morto: cioè se il Dio vero era il loro dio, sicuramente non era un Dio positivo.  Ringrazio Dio, perché loro, Aldo e Anna, mi hanno saputo trasmettere anche la fede in Dio che tutt’oggi mi aiuta.

Ora sono tornata nella mia famiglia, ho due fratellini piccolini e mi trovo nella stessa situazione di quando stavo io in istituto, perché, naturalmente, c’è di nuovo la mancanza della figura paterna; questa volta non perché è morta, ma perché negativa.

Oggi mi trovo a lottare per mia sorella, che è già ricoverata in una casa famiglia e per mio fratello; per lui stanno prendendo provvedimenti, però per lui le cose sono un po’ difficili, perché ha dei problemi psicologici.

Una Psicologa ha fatto una relazione scritta in cui afferma che mio fratello non può più essere ricoverato in altri istituti, altrimenti la sua situazione si aggraverebbe ulteriormente: mi auguro che anche loro possano trovare sulla loro strada una Assistente sociale come la mia e una famiglia come quella di Aldo e Anna.