torna all’indice del Bollettino 1-2 2014

Notiziario dalla Sede Nazionale

tratto da Prospettive assistenziali n. 185-186

 

 

LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUL SEGRETO DEL PARTO: DUE contributi SIGNIFICATIVI

 

L’Anfaa ritiene che il Parlamento – nel dare doverosa attuazione alla decisione della Corte costituzionale – debba anzitutto rispettare il diritto alla segretezza garantito alle partorienti che hanno dichiarato di non voler essere nominate: solo ad esse deve essere consentito di ritornare sulla decisione presa. Per questo motivo l’Anfaa condivide quanto previsto nella proposta di legge n. 1989 presentata dall’on. Rosso­man­do, illustrata nell’articolo di Francesco Santane­ra, pubblicato in questo numero della rivista.

Non è ammissibile il percorso inverso, cioè che siano i loro nati ad avviare il procedimento presso il Tribunale per i minorenni, come ipotizzato da altre proposte di legge. Se mai il Parla­mento approvasse una simile disposizione si renderebbe responsabile di una violenza gravissima nei confronti di decine di migliaia di donne, con conseguenze difficilmente prevedibili.

Al riguardo, riportiamo uno stralcio del disperato appello inviato all’Anfaa da una signora, che, restata incinta giovanissima (a 16 anni), ha deciso di non riconoscere il neonato: «Ho letto sul vostro sito che la Corte costituzionale ha accolto l’istanza per lo smantellamento del parto segreto. Come avrete capito, io sono una madre segreta. Quando ho letto la notizia credo che il mio mondo si sia dissolto in un attimo, ho guardato i miei familiari, ignari, e ho visto la fine della vita che con fatica mi sono costruita e guadagnata. Non vi voglio raccontare il mio passato doloroso, so però che non sarei in grado di riviverlo (…). Non posso rivivere tutto di nuovo, non ho la forza di raccontare tutto alla mia famiglia attuale, non lo posso immaginare, mi sento morire e nell’attesa di questa condanna, io mi sento morire piano piano. Che Dio mi perdoni se a volte vorrei farla finita, anche se poi non so se ne avrei il coraggio. La mia vita ormai dipende dal legislatore, vi prego non smettete di lottare per il parto anonimo, per questo non vi ho mai ringraziato abbastanza, quelle come me non possono palesarsi, non possono parlare ai dibattiti, devono solo aspettare! (…) Ho cominciato a vivere nel terrore che un giorno arrivi a casa una raccomandata che mi obblighi a presentarmi in tribunale (come una malvivente), ho il timore di dover ripercorrere quella esperienza terribile (…). Io ho la certezza che non riuscirò a sopportare tutto questo (…). Uno Stato non può tradire in questo modo un patto stipulato che mi ha portato a fare questa scelta, anche se imposta, che mi ha permesso di non abortire. Sono disperata all’idea di poter fare soffrire i miei cari. Spero anche che la creatura che ho messo al mondo e per la quale prego sempre (sono aiutata da un padre spirituale) sia serena, considerando le sue origini, quelle delle persone che lo hanno adottato, loro sono i veri genitori».

 

L’autorevole parere di Marisa Persiani

Abbiamo chiesto a Marisa Persiani, psicologa, psicoterapeuta e Giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Roma, che da anni stimiamo per la grande sensibilità e professionalità con cui svolge il suo lavoro e per l’apporto che ha fornito a tutti noi per l’approfondimento di questa complessa e delicata tematica, di commentare la sentenza della Corte costituzionale: ecco di seguito il suo contributo.

La Corte costituzionale con sentenza n. 278/ 2013, depositata il 22 novembre 2013 ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983 n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’articolo 177, comma 2 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre, che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del decreto del Presi­dente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Rego­lamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a nor­ma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), su richiesta del figlio ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione».

Nelle considerazioni che espongo non intendo avventurarmi nella complessa riflessione giuridica animatasi intorno alle norme che disciplinano tale materia e alle pronunce della Corte europea e della Corte costituzionale, quanto proporre al riguardo una riflessione in chiave psicologica.

È fondato il presupposto del “diritto all’identità” su cui poggiano queste pronunce?

Ovvero l’identità di un individuo si costruisce in relazione all’identità dei genitori biologici?

Se ciò fosse vero verrebbe smentita l’unicità di ciascun individuo in quanto unico ed irripetibile progetto della vita. L’identità (dal latino = id quod est ens) è «la forma che specifica in sé l’oggetto o individuo e lo distingue da tutti gli altri» (1).

Il dato che ci connette ai genitori biologici è l’esistenza, esistiamo perché due parti complementari si sono incontrate dando vita ad una novità di essere, le parti iniziali ne sono solo il composto di origine, il nuovo essere, sul piano biologico e psicologico è un’entità del tutto originale.

L’identità dunque non si configura in connessione ad un punto di inizio, ad un elemento o immagine di cui si è derivazione, ma si costruisce all’interno di un processo dinamico di interazione con la realtà, all’interno delle relazioni affettive significative stabilite con le figure di massimo riferimento, particolarmente nel tempo della prima infanzia ed in modo indipendente dal legame biologico.

L’adulto madre (2)[1], ovvero la persona o la situazione che costituiscono il punto di maggiore sicurezza per il bambino, rappresenta anche la mediazione di senso del reale; all’interno di tale relazione il piccolo apprenderà il mondo, se stesso, le emozioni e costruirà lo stile delle relazioni che diverrà matrice di tutte le successive.

L’identità della persona, dunque, si costruisce attraverso la combinazione unica ed esclusiva di aspetti biologici posti in dote dalla natura, il temperamento (dal latino: temperamentum, combinazione della mente nel tempo), con la varietà delle condizioni ambientali che andranno a costituire il carattere (dal greco: incido, scolpisco).

Le interferenze nel processo di costruzione dell’identità sono determinate dalla perdita di connessione con la virtualità data dal proprio progetto di natura, per la dominanza degli aspetti impressi dall’educazione. Dunque il bisogno di conoscenza delle proprie origini richiama principalmente la dimensione ontica più che quella biologica, ne è conferma la presenza di sentimenti di estraneità ai propri genitori o la fantasia di essere stati scambiati in culla alla nascita sperimentata da molti figli biologici.

Ciò che i figli adottivi solitamente esprimono attraverso la “ricerca delle origini” è il desiderio, comprensibile, di conoscere le circostanze della propria nascita, gli aspetti della personale storia non tracciati nella memoria, né riferiti attraverso narrazioni o documentazione, per poter dare forma ad ogni segmento della propria esistenza, così da eliminarne le ombre.

Le curiosità sulla donna che ha generato, prevalentemente, sono riferite alla sua età, alla nazionalità, alle condizioni di vita, se conosciute, forse perché è nell’ambito delle risposte a tali interrogativi che più facilmente potrebbero essere rintracciate ed accettate le motivazioni del mancato riconoscimento.

Va inoltre precisato che quella donna non è madre perché ha scelto di non esserlo; è colei che ha generato quella vita, e quel nato non è pertanto divenuto suo figlio; non si tratta di alchimie linguistiche, ma di proiezioni immaginifiche che fanno realtà, fissando una precisa informazione (3)[1] sulla quale alloggia lo stereotipo della indissolubilità del legame di sangue.

La recente sentenza n. 278/2013 della Corte costituzionale non ha fortunatamente messo in discussione la segretezza del parto e la tutela dei diritti soggettivi della donna e del nascituro, i quali solo in senso teorico sono uguali poiché nella condizione storica del parto è la sola donna che può esercitare una scelta, inoltre il diritto alla vita si colloca tra i più alti valori umani tutelati dalla legislazione nazionale e sovranazionale e come tale deve essere garantito prima di ogni altro, perché solo garantito quello ne conseguono altri.

Dunque se la garanzia del parto anonimo può rappresentare condizione di tutela della vita del nascituro, la forza di chi esercita il potere di tale scelta è inevitabilmente maggiore di chi ne subisce gli effetti. In questo senso non può essere considerato alla stessa stregua il diritto all’anonimato della partoriente ed il desiderio – non configurabile come “diritto” equivalente, anche dal punto di vista giuridico – dei figli adottivi non riconosciuti alla nascita.

La Suprema Corte, infatti, non ha censurato quanto disposto all’articolo 30, comma 1 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000 n. 396 sulla tutela del parto anonimo, ha rinviato al legislatore il compito di bilanciare la salvaguardia di tale principio con l’apertura alla possibilità per la donna di riconsiderare nel tempo la scelta operata, qualora l’adottato non riconosciuto alla nascita faccia richiesta di conoscerne l’identità.

Sembrerebbe dunque che il processo di verifica del permanere di tale volontà possa essere attivato dall’adottato, ma fu la donna ad avvalersi di un diritto tutelato dalla legge ed è solo lei, in quanto titolare di quel diritto, che può promuovere un processo volto a modificare una volontà precedentemente espressa!

Qualora fossero i nati ad attivare tale procedimento si ravviserebbe una violazione del diritto alla segretezza già garantito. Dunque, sia sul piano giuridico che su quello psicologico, la capacità di promozione dell’azione non può che essere riservata alla donna.

Nella mia esperienza professionale ho potuto osservare che sempre la decisione di avvalersi della facoltà di non riconoscere il bambino generato è molto sofferta ed è motivata da una impossibilità per quella donna di occuparsi in modo adeguato di quel bambino; le variabili possono essere molte, ma il denominatore comune è sempre l’incompatibilità di quel progetto con la sua condizione di vita, sia per quanto concerne la dimensione soggettiva che quella oggettiva.

Quell’esperienza, per poter essere superata, attiva sempre nella donna la messa in campo di meccanismi di difesa, spesso massicci, sui quali inizia la ricostruzione di sé, spesso dolorosa e faticosa, tanto da poterle impedire anche di tornare a considerarla.

Molte donne che hanno vissuto tale esperienza hanno fatto giungere, in questo momento di revisione della norma, il proprio grido silenzioso e disperato per comunicare i sentimenti di angoscia che genera in loro la sola ipotesi di poter essere rintracciate e contattate per quella scelta già operata, spesso non comunicata nell’ambito della famiglia successivamente costituitasi e che se fosse resa nota verrebbe a determinare una vera destabilizzazione del sé, della propria identità, con il rischio di compromissione anche delle relazioni successivamente costruite.

Di fatto si tratterebbe di una violenza, di un’ingerenza nella vita privata delle donne; una tale evenienza darebbe corpo alla percezione della presenza di una psico-polizia, di un tribunale superegoico vissuto come persecutore latente che troverebbe giustificazione solo su un giudizio di condanna della scelta operata dalla donna.

Il danno potrebbe rivelarsi ben più consistente del beneficio che si intende garantire! Inoltre qualora la donna rinnovasse la decisione già operata, per una analoga pur se diversa impossibilità a riconoscere quel nato come figlio, quale sarebbe il vissuto di quest’ultimo? Quale significato attribuirà alla reiterata volontà di non essere ri-conosciuto?

Dunque la disponibilità a consentire la conoscenza dell’identità della donna che ha generato, unico destinatario verso cui lo stereotipo culturale indirizza l’interesse della ricerca delle origini, non può che essere manifestata dalla stessa donna, in modo indipendente dalla richiesta promossa dall’adottato.

Sarebbe auspicabile che un Organo di garanzia, quale ad esempio il Garante per la privacy, redigesse e conservasse un apposito registro delle donne che intendano dichiarare, contestualmente al momento del parto o nel corso della loro esistenza, la disponibilità ad essere contattate qualora il bambino messo al mondo esprimesse, nei tempi e modi consentiti dalla legge, il desiderio di identificare la donna che lo ha generato.

Dichiarazioni di questo tipo sono a volte rinvenute negli archivi storici che custodiscono i fascicoli dei minori affidati ad istituti assistenziali di ricovero, forse anche oggi potrebbe rappresentare la forma che meglio può garantire la tutela di diritti di chi genera e sceglie di farlo in anonimato e di chi alla nascita non è stato riconosciuto e da adulto manifesta il desiderio di conoscere l’identità di chi lo ha generato.

 

 

(1) Meneghetti A., Dizionario di Ontopsicologia, Ontopsicologia Ed., Roma, 2001.

(2) Meneghetti A., Pedagogia Ontopsicologica, Ontopsicolo­gia Ed., Roma, 2007.

(3) Meneghetti A., L’immagine alfabeto dell’energia, Ontopsi­co­lo­gia Ed., Roma, 2004.

 

 

 

 

 

Intervento dell’Anfaa sulla proposta di legge n. 1209 in materia di adozioni dei minorida parte delle famiglie affidatarie

 

Si è svolta il 6 maggio 2014 a Roma, presso la Commissione giustizia del Senato, l’audizione dell’Anfaa in merito al disegno di legge n. 1209 presentato il 18 dicembre 2013 dall’On. Puglisi e da altri parlamentari (1). Di seguito riportiamo la traccia dell’intervento dell’Anfaa.

 

Premessa

Concordiamo sulla opportunità di una normativa più cogente, che tuteli il diritto alla continuità degli affetti dei minori affidati, pur rilevando che la legge n. 184/1983 e s.m. già ora consente (e le nostre esperienze lo confermano) che un minore affidato (con provvedimento disposto dai Servizi sociali territoriali e/o dal Tribunale per i minorenni), se dichiarato adottabile, possa, nel suo preminente interesse, essere adottato con adozione legittimante dagli affidatari che l’hanno accolto, se gli stessi sono ritenuti disponibili ed idonei al­l’adozione.

Su questa tematica, affrontata dalla petizione “Diritto ai sentimenti per i bambini in affidamento” promossa dall’Associazione La gabbianella ed altri animali, si era pronunciata anche la Corte europea dei diritti dell’uomo che, con sentenza emessa il 27 aprile 2010, aveva ravvisato nel caso ad essa sottoposto la violazione dell’articolo 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata in Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848. Ricordiamo al riguardo anche quanto riportato nel 2009 nel 2° Rapporto supplementare alle Nazioni Unite (2), sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, redatto dal gruppo di lavoro coordinato da Save the Children e sottoscritto da 85 organizzazioni (compresa l’Anfaa) operanti nel settore e nel 5° Rapporto sul monitoraggio della stessa Convenzione (3) presentato a Roma il 6 giugno 2013, alla presenza dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza (4).

Su questa tematica nel documento conclusivo dell’Indagine conoscitiva della Commis­sione parlamentare infanzia (5), si è anche rilevato che «sono emersi nel merito pareri discordanti, in quanto vi è chi ritiene che occorre fare una netta distinzione tra il ruolo degli affidatari e il ruolo dei genitori, siano essi biologici o adottivi. Fermi restando infatti i diversi presupposti e le finalità dei due istituti, sanciti dalla normativa vigente, non possono escludersi casi nei quali il legame maturato dal minore con la famiglia affidataria suggerisca una soluzione di questo tipo. Si tratta co­munque di casi da valutare in concreto e con estrema attenzione, alla luce dei principi stabiliti dal nostro ordinamento e tenendo ovviamente conto, in via prioritaria, dell’interesse del minore».

Segnaliamo infine che il Tavolo nazionale affido, organismo di raccordo tra le associazioni nazionali e le reti nazionali e regionali di famiglie affidatarie (di cui l’Anfaa fa parte), ha predisposto il documento “La tutela della continuità degli affetti dei minori affidati”, approvato il 28 giugno 2012, che condividiamo pienamente.

Considerazioni sull’articolo 1

Venendo più in specifico all’articolo 1 della proposta di legge in oggetto «Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, in materia di adozioni dei minori da parte delle famiglie affidatarie» presentata il 18 dicembre 2013 dalla Senatrice Francesca Puglisi, riteniamo che l’adozione del minore affidato da parte degli affidatari dovrebbe avvenire solo nei casi in cui sia stato accertato e dichiarato il suo stato di adottabilità ai sensi dell’articolo 8 della legge n. 184/1983: non è pertanto un prolungato periodo di affidamento che lo determina, ma la modifica della sua situazione. Pertanto riteniamo che il comma 5-bis debba essere modificato come segue:

«Articolo 1. Dopo il comma 5 dell’articolo 4 della legge 4 maggio 1983 n. 184 e successive modificazioni, è inserito il seguente.

5-bis. Qualora, durante l’affidamento, il minore sia dichiarato adottabile ai sensi dell’articolo 8 della legge n.184/1983 e qualora, sussistendo i requisiti previsti dall’articolo 6 della stessa legge, la famiglia affidataria chieda di poterlo adottare, il Tribunale per i minorenni nel decidere sulla adozione, tiene conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria.

5-ter. Qualora, a seguito di un prolungato periodo di affidamento, il minore faccia ritorno nella famiglia di origine o sia dichiarato adottabile e adottato da un’altra famiglia, è comunque tutelata, se rispondente all’interesse del minore, la continuità delle positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l’affidamento.

5-quater. Il giudice, ai fini delle decisioni di cui ai precedenti commi 5-bis e 5-ter, tiene conto delle valutazioni dei servizi sociali».

 

Considerazioni sull’articolo 4

Esprimiamo per gli stessi motivi il nostro dissenso in merito anche all’articolo 4, comma 1 che non prevede la preventiva dichiarazione dello stato di adottabilità dell’affidato, ma solo l’esistenza di un «rapporto stabile e duraturo anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento»: riteniamo che ciò sia pericolosissimo in quanto consentirebbe l’adozione non legittimante da parte dei suoi affidatari, sottraendolo così arbitrariamente e definitivamente alla sua famiglia di origine.

A nostro parere una simile modifica legislativa dilaterebbe indebitamente il campo di applicazione dell’articolo 44 della legge 184/1983. Già ora è ampiamente e illecitamente utilizzato da alcuni Tribunali per i minorenni il ricorso al comma d) che prevede la possibilità di pronunciare tale adozione «quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo»: infatti, in questi casi, l’adozione, definita anche “mite” (6), è purtroppo disposta in capo agli affidatari senza essere preceduta dallo svolgimento della procedura stabilita dagli articoli 8 e seguenti della legge 184/1983, così privando la famiglia di origine del minore delle necessarie garanzie (la legge n. 184/1983 consente, com’è noto, ai congiunti del minore – genitori e altri parenti – di ricorrere alla Corte di Appello e a quella di Cassa­zione contro la dichiarazione di adottabilità).

Vogliamo al riguardo segnalare che sul piano giuridico l’adozione in casi particolari (il minore assume lo status di adottato e non diventa sotto nessun profilo figlio del o degli adottanti, non stabilisce alcun nuovo legame di parentela con i figli del o degli adottanti e gli altri congiunti del o degli adottanti, mantiene i rapporti di parentela con i propri familiari di origine, ecc.) ha effetti differenti da quella “legittimante” e che l’equiparazione introdotta dalla legge n. 219/2012 riguarda solo quest’ultima (7).

Se il minore non si trova in stato di adottabilità non è corretto ricorrere alle adozioni più o meno “miti”, anche nei casi di affidamenti a lungo termine, soprattutto per tutelare i diritti del nucleo familiare di origine, che non deve essere espropriato del suo ruolo genitoriale e parentale.

La tutela del minore, del suo nucleo familiare di origine e degli affidatari è un compito delle istituzioni di fondamentale importanza, com’è d’altra parte stabilito dalle vigenti leggi che, pur considerando l’affidamento familiare un intervento assistenziale tendenzialmente temporaneo, non esclude, proprio nell’interesse preminente del minore, la possibilità di affidamenti a lungo termine (8). A questo riguardo va nuovamente rilevato che in base alla legge n. 184/1983 solo l’affidamento consensuale non può durare più di due anni, ma il provvedimento di affidamento è prorogabile dal Tribunale per i minorenni «qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore». In questi casi, ricorrere alla pronuncia dell’adozione “mite” dopo qualche anno di affidamento senza che sia stato accertato lo stato di adottabilità del minore, rischia di tradursi in un sostanziale disimpegno delle istituzioni che, ancor più di quanto avviene purtroppo anche oggi, possono ritenersi non più tenute ad aiutare il nucleo familiare di origine in difficoltà.

Inoltre, se passasse il concetto che gli affidamenti a lungo termine (che sono la stragrande maggioranza degli affidamenti in corso) si possono trasformare tout court in adozione, i genitori in difficoltà, non sarebbero disponibili all’affidamento temendo, a ragion veduta, di perdere i propri figli. D’altra parte le esperienze finora realizzate confermano che un minore può vivere per anni in una famiglia affidataria, conservando i rapporti con la propria d’origine, senza che ci sia la necessità di trasformare questi affidamenti in adozioni. Diversi Enti locali hanno approvato delibere per la prosecuzione degli affidamenti fino ai 21 anni e progetti volti a favorire l’autonomo inserimento dei ragazzi nella società.

 

Considerazioni sull’articolo 2

Concordiamo sull’articolo 2, proponiamo solo la seguente riformulazione:

«Articolo 2.1. All’articolo 5, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: “L’affidatario deve essere sentito, a pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato ed ha facoltà di presentare nell’interesse del minore note scritte».

 

Considerazioni sull’articolo 3

L’articolo 3 affronta la tematica, molto dibattuta, del ruolo delle associazioni familiari nella gestione degli affidamenti familiari: riteniamo che questa tematica potrebbe essere più compiutamente trattata in un’altra proposta di legge.

In merito a questa tematica, riteniamo che al servizio sociale locale spetta anche la funzione di decidere, attuare, gestire, monitorare l’intervento ritenuto più adatto per il minore in difficoltà e per la sua famiglia. Risorse maggiori e una particolare attenzione devono essere poste dal servizio sociale locale nella cura degli affidi in atto, in quanto l’esperienza ha insegnato che gli affidi ben seguiti sono un’importante forma di sensibilizzazione.

Alle associazioni familiari deve essere riconosciuta l’importante funzione da loro svolta nel concorrere alla realizzazione dell’affido e alla promozione di una cultura della solidarietà e dell’accoglienza che parte dal riconoscimento delle esigenze dei bambini e degli adolescenti e delle loro famiglie, promuovendo in primo luogo, il riconoscimento dei loro diritti. Vanno riconosciuti ad esse l’impegno e la capacità di testimoniare che la solidarietà e l’accoglienza rappresentano valori importanti e significativi che rendono migliore il contesto in cui noi tutti viviamo, ma non devono a nostro parere sostituirsi al Servizio sociale locale, in una confusione di ruoli non accettabile. A questo riguardo, positiva sarebbe una norma che consenta agli affidatari di farsi affiancare nei rapporti con le istituzioni da una associazione da loro scelta.

Concludendo questo nostro intervento vogliamo ricordare la preoccupante situazione assistenziale, fortemente segnata dai tagli alla spesa sociale che stanno pesantemente penalizzando gli interventi diretti al sostegno delle famiglie di origine e degli affidamenti familiari e delle adozioni “difficili” come emerso anche dai lavori della recente Conferenza nazionale sull’infanzia e l’adolescenza di Bari. 

 

(1) Il disegno di legge n. 1209 contiene le seguenti norme:

Art. 1

  1. All’articolo 4 della legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, dopo il comma 5 è inserito il seguente:

«5-bis. Qualora, a seguito di un prolungato periodo di affidamento, il minore sia dichiarato adottabile e qualora, sussistendo i requisiti previsti dall’articolo 6, la famiglia affidataria chiede di poterlo adottare, il giudice, nel decidere sull’adozione, tiene conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria.

5-ter. Qualora, a seguito di un prolungato periodo di affidamento, il minore faccia ritorno nella famiglia di origine o sia dato in adozione ad altra famiglia, è comunque tutelata, se rispondente all’interesse del minore, la continuità delle positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l’affidamento.

5-quater. Il giudice, ai fini delle decisioni di cui ai commi 5-bis e 5-ter, tiene conto delle valutazioni dei servizi sociali».

Art. 2

  1. All’articolo 5, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «ed ha facoltà di presentare memorie nell’interesse del minore, a pena di nullità della decisione».

Art. 3

  1. All’articolo 5 della legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, dopo il comma 2 è inserito il seguente:

«2-bis. Ai fini della presente legge, le associazioni familiari sono enti senza fine di lucro che raggruppano famiglie affidatarie e che svolgono attività tese a favorire il buon andamento degli affidi. Le associazioni familiari possono collaborare con i servizi sociali, svolgendo attività di sensibilizzazione e formazione dell’opinione pubblica, anche mediante corsi di preparazione delle famiglie e operatori, segnalando famiglie disponibili all’affido, favorendo il dialogo e il confronto tra le famiglie coinvolte in esperienze di affido, offrendo alle famiglie affidatarie sostegno educativo e psicologico ed assistendo i propri associati nei rapporti con i servizi pubblici».

Art. 4

  1. All’articolo 44, comma 1, lettera a), della legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, dopo le parole: «stabile e duraturo,» sono inserite le seguenti: «anche maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento».

(2) «È inoltre importante, nell’interesse superiore del minore, che a conclusione dell’affidamento vengano individuate, caso per caso, modalità di passaggio e di mantenimento dei rapporti fra il minore e la famiglia che lo ha accolto, sia quando rientra nella sua famiglia d’origine, sia quando viene inserito in un’altra famiglia affidataria o adottiva o in una comunità. Si ritiene infatti, anche in base a recenti esperienze negative, che vada salvaguardata la continuità dei rapporti affettivi del minore e che debbano essere evitate interruzioni traumatiche. È di fondamentale importanza che sia sempre rigorosamente rispettato l’articolo 5 comma 1 ultima parte della legge citata [n. 184/1983 n.d.r.], il quale dispone che “l’affidatario deve essere sentito nei procedimenti civili in materia di potestà, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato”. Tale norma nella pratica viene spesso disattesa o trascurata, in quanto la sua mancata applicazione non comporta purtroppo alcuna nullità sul piano processuale. Infatti la giurisprudenza ha più volte affermato che gli affidatari non sono parti processuali del procedimento. Tuttavia la loro audizione riveste un’importanza fondamentale per la valutazione dell’interesse del minore, e non dovrebbe mai essere omessa. Qualora il minore affidato sia successivamente dichiarato adottabile il Tribunale per i minorenni deve attentamente valutare il suo superiore interesse, e come prescritto dalla legge 1 il giudice minorile “in base alle indagini effettuate, sceglie tra le coppie che hanno presentato domanda quella maggiormente in grado di corrispondere alle esigenze del minore”. Pertanto deve prendere in considerazione anche l’eventuale adozione da parte degli affidatari, se idonei e disponibili».

(3) «Va rilevato, al riguardo, che una corretta attuazione della legge 184/1983 e sue modifiche, già consente, nell’interesse superiore del minore affidato dichiarato adottabile, la possibilità che egli sia adottato dagli affidatari che l’hanno accolto, anche se essi hanno avuto rapporti con la famiglia di origine del minore, qualora siano disponibili e siano ritenuti idonei dal Tribunale per i minorenni. Se gli affidatari hanno i requisiti previsti dall’articolo 6 della legge 184/1983 e s.m. si procede con l’adozione legittimante. In caso contrario, e cioè se l’affidatario è single o coppia non unita in matrimonio, l’unica possibilità è l’adozione in casi particolari ex articolo 44 della legge 184/1983 e s.m., che non ha però effetti legittimanti. Per tutelare l’interesse superiore del minore e la continuità dei suoi affetti sono dunque necessarie azioni per definire procedure uniformi su tutto il territorio ed adeguate a prevenire separazioni traumatiche». Al riguardo il Gruppo Crc (“Convention on the Rights of the Child”) raccomandava «al Garante nazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza di promuovere tutte le azioni necessarie nei confronti delle istituzioni preposte affinché siano garantite procedure uniformi su tutto il territorio nei confronti dei minori affidati dichiarati adottabili ed adeguate a prevenire separazioni traumatiche».

(4) Il testo è disponibile sul sito www.tavolonazionaleaffido.it

(5) Documento conclusivo dell’Indagine conoscitiva della Commissione parlamentare infanzia, 2013.

(6) Sono stati pubblicati su Prospettive assistenziali i seguenti articoli critici in merito all’adozione “mite”: F. Santanera “L’adozione mite: come svalorizzare la vera adozione” n. 147 pag. 16-25; F. Santanera “L’adozione mite: una iniziativa allarmante e illegittima, mai autorizzata dal Consiglio superiore della magistratura” n. 154, pag. 34-39; “L’adozione mite: una inquietante iniziativa del Presidente della Corte di Appello di Bari” n. 158, pag. 20-21; L. Fadiga “Adozione aperta si o no?” n. 161, pag. 14-17; F. Santanera “Preoccupante sentenza del Tribunale per i minorenni di Torino sull’adozione nei casi particolari” n. 162 pag. 31-33; “La Corte costituzionale respinge l’utilizzo dell’adozione in casi particolari finalizzata alla sottrazione di un minore al proprio genitore” n. 163, pag. 60-61; M. Dogliotti “Adozione legittimante e adozione mite, affidamento familiare a novità processuali” n. 165, pag. 22-24. Si segnalano inoltre: Antonio Scalisi, Ordinario di diritto di famiglia e minorile all’Università di Messina “L’adozione mite: una prospettiva non necessaria né utile” su Persona e danno, a cura del Prof. Paolo Cendon (Milano, Giuffrè, 12 novembre 2008); Luigi Fadiga “L’adozione «mite» ed «aperta»” su “Aggiornamento al Manuale di diritto minorile di Carlo Moro” quarta edizione, 2008, pag. 285-288.

(7) Riportiamo al riguardo quanto scritto nella Relazione illustrativa allo Schema di decreto legislativo in materia di filiazione, diventato poi decreto legislativo n. 154 del 28 dicembre 2013 (pubblicato in Gazzetta ufficiale l’8 gennaio 2014, in vigore dal 7 febbraio 2014: “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012 n. 219”). «Il primo comma dell’articolo 2 della legge delega stabilisce che deve essere eliminata ogni discriminazione tra figli, “anche adottivi”. Il riferimento ai figli adottivi, contenuto nella disposizione, deve essere inteso in relazione alla così detta adozione “piena”, cioè all’adozione dei minori di età che, ai sensi dell’articolo 27 della legge n. 184/1983, per effetto dell’adozione acquistano lo stato di figlio “legittimo” (da ora “nato nel matrimonio”) degli adottanti. Il legislatore delegante ha, infatti, espressamente escluso dalla equiparazione gli adottati maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti del Codice civile, nei confronti dei quali, ai sensi dell’articolo 74 c.c., come novellato dalla citata legge delega non sorge alcun vincolo di parentela con i parenti degli adottanti. Peraltro, questa interpretazione è perfettamente coerente con la diversa disciplina giuridica dei due istituti: nell’adozione “piena” il minore adottato è in stato di abbandono e con l’adozione si crea un legame filiale con la famiglia adottiva, pienamente corrispondente, dal punto di vista degli effetti giuridici, a quello che si realizza con l’acquisizione dello stato di figlio; nell’adozione dei maggiori di età il vincolo dell’adottato con la famiglia di origine non viene a cessare (articolo 300 del Codice civile); l’adottato conserva tutti i diritti e i doveri verso la sua famiglia di origine (salve le eccezioni stabilite dalla legge) e non si crea alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante (salve le eccezioni stabilite dalla legge). Quanto alla posizione dei minori adottati ai sensi dell’articolo 44 della legge n. 184/1983, che disciplina l’adozione in casi particolari, in questa ipotesi è la stessa legge, che richiama, all’articolo 55, le norme del Codice civile che disciplinano l’adozione dei maggiori di età (in particolare gli articoli 293, 294, 295, 299, 300 e 304), evidenziando l’analogia tra gli istituti, che trova il suo fondamento nella conservazione, anche nell’adozione in casi particolari, dei legami tra adottato e famiglia di origine. Pertanto, proprio in virtù del conferimento dello stato di figli agli adottati minori di età in stato di abbandono, le norme del codice civile che attribuivano particolari diritti (soprattutto in materia successoria) agli adottati non sono state modificate in quanto riferite agli adottati maggiori di età (cfr. per tutte, sentenza della Corte di Cassazione 28 dicembre 1993, n. 1281)».

(8) Nel 2° Rapporto supplementare alle Nazioni Unite sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, per quanto riguarda la durata degli affidamenti si rileva che «fermo restando che obiettivo prioritario è, per quanto possibile, il rientro del bambino nella sua famiglia di origine, va precisato che un affidamento non può essere giudicato riuscito o meno solo in base alla sua durata e al rientro nella sua famiglia d’origine. L’attuale disciplina legislativa non pregiudica la possibilità di disporre affidamenti anche a lungo termine, se nell’interesse del minore e non come conseguenza di «incuria» da parte dell’Ente locale. Infatti il limite di 2 anni, previsto dal legislatore nel 2001 per gli affidamenti consensuali realizzati dal Servizio locale d’intesa con la famiglia d’origine o col tutore dei minori, può essere prorogato dal Tribunale per i minorenni, in applicazione dell’articolo 4 comma 4 della legge 149/2001, come già avviene in diverse giurisdizioni. Inoltre va sottolineato che, per effetto del cattivo coordinamento tra la legge 184/1983 e le norme del Codice civile sui procedimenti di potestà dei genitori, nel corso o a conclusione di un procedimento sulla potestà, il Tribunale per i minorenni può comunque disporre l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare e ordinarne il collocamento in un’altra famiglia, anche a prescindere da un’iniziativa dei Servizi. In tal caso, l’affidamento può essere disposto anche a tempo indeterminato».