Notiziario dalla Sede Nazionale
tratto da Prospettive assistenziali n. 181
CONVEGNO NAZIONALE “ADOZIONI NAZIONALI E INTERNAZIONALI. IERI, OGGI E DOMANI”: CONSIDERAZIONI DI FRANCESCO SANTANERA E INTERVENTO DEL MINISTRO ANDREA RICCARDI
Il 12 dicembre 2012 a Roma, nella Sala della Mercede della Camera dei Deputati, si è tenuto il Convegno nazionale promosso dall’Anfaa dal titolo “Adozioni nazionali e internazionali. Ieri, oggi e domani”.
Nel corso del Convegno sono state ricordate le principali iniziative assunte dall’Anfaa, dalla sua costituzione all’approvazione dell’innovativa legge sull’adozione speciale n. 431/1967, fino alle modifiche normative successivamente intervenute in materia di adozione nazionale ed internazionale. Una particolare attenzione nel corso del convegno è stata dedicata anche ad una tematica attuale e scarsamente considerata, che ha visto l’Anfaa, insieme ad altre associazioni, fortemente impegnata in questi ultimi anni: si tratta delle esigenze ed i diritti delle gestanti e madri in gravi difficoltà, dei loro nati e la salvaguardia del diritto alla segretezza del parto.
Sul numero scorso abbiamo pubblicato le considerazioni che Francesco Santanera, fondatore dell’Anfaa impossibilitato a partecipare al convegno, ha inviato ai partecipanti; pubblichiamo ora l’intervento di Andrea Riccardi, Ministro per la Cooperazione internazionale e l’integrazione nonché presidente della Commissione adozioni internazionali.
Intervento di Andrea Riccardi, Ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione e presidente della Commissione adozioni internazionali
Intervengo oggi in una duplice veste. In quella di Ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione con delega alle adozioni internazionali. E in quella di chi ha avuto modo di apprezzare nel tempo l’impegno in favore dei minori più vulnerabili portato avanti dall’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie.
Un impegno forte, tenace, capace di inserirsi positivamente in un clima che cambiava, ma anche di suscitare energie e pensieri “lunghi”, e, alla fin fine, di cambiare la storia.
È impressionante, nel 2012, rileggere i dati relativi all’istituzionalizzazione minorile di appena 50 anni fa. Parliamo di oltre 300.000 bambini e adolescenti, e non ho bisogno qui di sottolineare cosa voglia dire crescere in un istituto, mancare per anni – e quali anni! – di un padre e/o di una madre; possiamo per di più immaginarci cosa questo volesse dire allora, nell’immediato dopoguerra: possiamo pensare alle privazioni, alle punizioni, e così via. Ancor più impressionante è poi ricordare, in quello scenario, l’altissimo numero di figli non riconosciuti, i figli “illegittimi”, come venivano detti: più di 21.000 nel 1962. Davvero un’altra Italia!
L’Anfaa, grazie soprattutto all’opera appassionata e instancabile di Francesco Santanera, ha accompagnato, ha favorito, ha reso possibile una vera e propria rivoluzione culturale, riuscendo a porre al centro dell’attenzione della società e del legislatore non il bisogno dell’adulto, bensì quello del minore: il bisogno del bambino e dell’adolescente ad avere un ambito familiare in cui crescere.
L’Anfaa ha lottato contro il concetto stesso di istituzionalizzazione. E Francesco Santanera ha ampliato questa lotta, impegnandosi tra i primi, cogliendo l’evoluzione del contesto demografico, perché l’istituto non divenisse l’unica prospettiva possibile per anziani in situazioni di difficoltà o in uno status di non autosufficienza. La sua è stata una battaglia meritoria, che continua oggi, in particolare attraverso la vostra rivista Prospettive assistenziali. E che va valorizzata e portata avanti, tanto più dopo quest’Anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni. Perché restare nel proprio abituale ambiente di vita è, per un anziano, sinonimo di più anni e di migliore salute, antidoto all’esclusione e fattore di ritardo delle inabilità.
Tornando all’istituzionalizzazione minorile, la rivoluzione culturale da voi avviata si è tradotta nelle disposizioni sull’“adozione speciale” del 1967, poi perfezionate dalla legge 184/1983, considerata tuttora all’avanguardia in Europa, nonché alla normativa sull’adozione internazionale del 1998 (1).
Oggi, grazie anche all’impegno dell’Anfaa, i minori in case-famiglia – non più in “mega-istituti” – sono 20-30.000. È evidente che di strada se n’è fatta tanta, e che l’orizzonte con cui ormai si confronta ogni minore nel nostro Paese è quello di una vera e propria famiglia, ovvero di un servizio alternativo di tipo e di stile familiari.
Conoscete forse quella folgorante battuta di don Oreste Benzi: «Dio ha creato la famiglia, gli uomini hanno inventato gli istituti». Ebbene, il vostro lavoro ha per così dire contribuito a riscoprire una primazia e una centralità della famiglia a beneficio del minore che erano state per troppo tempo dimenticate o messe da parte.
Sui risultati dei vostri sforzi, sul successo della vostra storia oggi cinquantenaria, vorrei ora soffermarmi brevemente. Con una parentesi che allarga il mio discorso, prima che esso torni sul tema dei minori e dell’adozione.
Mi sembra infatti che i 50 anni di studio e di lavoro audaci, intelligenti, creativi dell’Anfaa possano costituire quasi un modello ideale e fattivo per un’Italia che si ritrova smarrita di fronte a una crisi difficile da affrontare, tante volte tentata dall’immobilismo e dal pessimismo, poco capace di una visione e di una speranza (2).
In questo contesto è bello riandare all’ormai lunga storia dell’Anfaa, ricordare la visione di futuro inscritta nel coraggio e nella perseveranza di Santanera. E pensare che un atteggiamento del genere potrebbe essere premiante anche oggi, davanti a nuove responsabilità, a nuove sfide. È possibile affrontare il futuro e cambiarlo, purché non ci si rinserri nel rassicurante cortile del conservatorismo, purché ci si apra a un’azione larga e sensibile.
Il Paese è percorso da tanti fremiti, più o meno positivi. Il problema sorge quando prevalgono quelli del “salviamoci da soli”, del “si salvi chi può”. Anche se è evidente che è soltanto insieme che ci si salva. Siamo tutti sulla stessa barca. Chi ha a che fare col mondo della difficoltà e del disagio, chi ha a che fare col mondo dei minori, quei minori non possono proprio salvarsi da soli, che hanno bisogno degli altri per salvarsi, lo capisce bene.
La scelta dell’Anfaa, 50 anni fa, è stata quella di puntare sul salvataggio di tanti minori senza famiglia, e talvolta senza diritti. Salvare i piccoli, salvare il futuro. Per salvare l’umanità di un Paese, il suo essere un’unica, grande famiglia. Una scelta del genere ha cambiato la storia dell’istituzionalizzazione e dell’adozione in Italia; e si è riverberata in un più generale avanzamento dei diritti, di cui tutti abbiamo tratto vantaggio. Tante altre scelte del genere possono tradursi in un più complessivo “sblocco” di paure e di prospettive.
Possiamo misurare nel concreto i risultati dell’azione “lunga” e tenace dell’Anfaa, nonché di quanti si sono mossi nella sua scia.
Gli istituti sono stati chiusi. Tanti enti che non rispondevano ai reali bisogni dei minori non ci sono più. L’adozione, e successivamente l’affidamento, sono divenuti non più uno strumento per rispondere al bisogno di un adulto, cioè per avere una discendenza o per trasmettere un patrimonio, ma un modo nuovo di “fare famiglia” attorno al bisogno di un bambino. Oggi gli adottati – nazionali o internazionali – sono in Italia più di 140.000.
Le famiglie adottive sono cresciute di numero. Ma contemporaneamente è cresciuta la coscienza del valore dell’adozione. Nonché, di riflesso, un’idea meno scontata e più consapevole di cosa voglia dire essere famiglia.
Questo è un ulteriore successo della vostra azione. Si è via via affermata una nuova cultura della famiglia, una dimensione “larga” della stessa, che non si ferma al vincolo del sangue, ma è capace di andare oltre, creando legami originali, prima impensabili.
Mi piace insistere su questo punto. Trovo che l’orizzonte adottivo al tempo stesso interpreti e migliori certi tratti del nostro carattere nazionale. Penso, per esempio all’integrazione. Parlando a Perugia un paio di settimane fa ho evidenziato la capacità associativa, incorporativa, che la nostra società ha saputo esprimere nei confronti del mondo dell’immigrazione. Non tanto nel suo insieme. Bensì nelle sue più minute articolazioni: il nucleo familiare, il condominio, il gruppo di volontari, l’istituto scolastico, il Sindacato, l’impresa radicata nel territorio, la comunità locale, ecc. A questo livello “micro” la società italiana è stata in grado di farsi vicina all’Altro e di integrarlo al proprio interno. È esperienza comune. I tanti corpi intermedi che compongono la società e che per mille ragioni – lavoro, vicinato, ecc. – vengono in contatto stabile, proficuo, duraturo con dei migranti li “adottano”, li fanno membri di piccole comunità, contribuiscono a renderli figli della più grande comunità nazionale.
Ma torno alla famiglia. I minori adottati ed i nuclei familiari che li hanno accolti ci hanno mostrato che le nostre radici non stanno tanto nel Dna, quanto in quell’insieme di rapporti che lega i figli e i loro genitori, biologici o adottivi, e li apre al mondo.
Microcosmo di affetti e di reciproco sostegno, ma insieme laboratorio di relazionalità, “teatro del mondo”, come l’ha definita qualche mese fa Claudio Magris, la famiglia è l’alternativa ad un orizzonte chiuso, individualista, privo di connessioni e di visioni.
Tanto più lo è una famiglia adottiva, per ovvie ragioni. Le parole di Magris ritraggono bene quella che è l’esperienza di coppie che varcano dei confini, mentali o territoriali, per dare corpo al loro sogno di genitorialità e, insieme, per venire incontro alla fame di affetto di tanti bambini soli.
I percorsi e le storie di un’adozione differiscono fra loro, per le circostanze che li determinano, per il Paese in cui si collocano, per le grandi o piccole difficoltà che li caratterizzano. Ma al tempo stesso si assomigliano, sono tutti una grande avventura, di vita, di mondo, di umanità.
Il tutto finalizzato alla tutela del diritto di ogni minore ad avere un padre e una madre. Questo, alla fin fine, è quel che conta. L’amore di un padre e di una madre.
L’adozione, allora, salda bisogni lontani, li trasforma in una mutua opportunità, in una comune soluzione dei problemi, in un felice incontro tra aspettative e difficoltà prima distanti.
Questo è un altro punto su cui vorrei insistere. L’adozione – ma intendo con tale termine anche l’affidamento – è un segno di apertura e di interconnessione. Un segno la cui importanza va ben al di là dell’ambito familiare. È un grande esempio di come si possa e si debba gettare una rete in un mare troppo agitato, in un tempo troppo liquido. Una rete che unisca e salvi.
La rete dell’adozione salva bambini soli, fragili, spaesati e dà loro un nuovo Paese, una nuova speranza, una nuova dimensione relazionale. Può essere figura di una resilienza più generale, di tutta la nostra società. Nel vissuto di tante famiglie è chiaro come l’adozione abbia guarito un bambino dalla ferita dell’abbandono, abbia placato una fame di famiglia. Ebbene, non è questa la domanda – magari inespressa – che sale anche da tanti angoli della società? Non c’è fame di una rete, di una trama più complessiva, che non ti lasci solo, che ti sostenga nel momento della difficoltà?
È stato scritto (3): «Il valore dell’adozione […] non riguarda solo la famiglia adottiva […]. [L’adozione] rappresenta un segno per il futuro della società nel suo complesso […]. Sembra un piccolo segno, che appartiene solo alla sfera privata dei singoli e delle loro scelte individuali. In realtà il suo significato va oltre, va nella direzione della costruzione di una società più accogliente, e quindi migliore per tutti».
Mi sembra molto vero. Il mondo dell’adozione ci mostra la forza e la pregnanza più complessivi di una scelta di apertura e di disponibilità. Ci rivela la ricchezza che ci si ritrova nel mettere al centro del proprio orizzonte esistenziale o associazionistico il principio della solidarietà.
Anche per questo ritengo prezioso il collegamento che si è creato con la mia nomina a Ministro per la cooperazione internazionale e, contemporaneamente, a presidente della Commissione adozioni internazionali. Del resto l’adozione internazionale si è sempre accompagnata, in Italia, a una progettualità e a una sussidiarietà in favore dei Paesi d’origine dei minori adottandi.
I percorsi adottivi avviati e portati a termine da coppie italiane sono una realtà importante all’interno del panorama mondiale. L’Italia è il Paese che adotta di più in Europa: 4.022 adozioni nel 2011. È il secondo nel mondo, dopo gli Stati Uniti. Ciò dimostra la generosità e lo spirito di accoglienza radicati nella penisola, e indicano – come ho già sottolineato – la strada per un futuro più coeso, più solidale, più aperto alla mondialità.
C’è ancora bisogno di adozioni internazionali. E non solo per noi. La crisi della famiglia colpisce anche il Sud del mondo. In Africa, in specie nei grandi centri urbani, si impongono i modelli occidentali, quella che era la grande famiglia africana non esiste più e l’abbandono dei minori è un fenomeno in aumento. In Asia, dove pure la crescita economica è un dato di fatto, spesso i diritti dei bambini non sono una priorità e il lavoro minorile è qualcosa di troppo diffuso. È vero, nei Paesi “poveri”, dove si portano a termine più adozioni, sta crescendo una nuova coscienza pubblica, c’è una maggiore assunzione di responsabilità nei confronti dell’infanzia abbandonata, si intravede la possibilità di rendere effettivamente “sussidiaria” l’adozione da parte di cittadini stranieri. Ma le stime dell’Unicef parlano ancora di milioni di minori abbandonati nel mondo.
Certo, alcuni nodi rimangono aperti.
Occorre adoperarsi per il superamento di quelle forme di istituzionalizzazione che ancora sopravvivono. Voi fate notare che «è indispensabile ottenere l’istituzione di un’anagrafe dei minori ricoverati e continuare nell’azione di pressione nei confronti degli enti locali per obbligarli ad approvare i provvedimenti necessari per l’istituzione di servizi alternativi». È molto giusto. Si tratta di intervenire nel concreto di tante situazioni locali e di incentivare l’adozione nazionale e l’istituto dell’affidamento.
Nella stessa prospettiva si tratterà di vigilare sui prossimi passi normativi in materia di adozione. Registriamo come un successo l’avvenuta equiparazione, la settimana scorsa, dei figli naturali a quelli cosiddetti legittimi. I figli sono tutti uguali, che siano nati o meno all’interno di un matrimonio. E tutti hanno diritto ad avere le stesse relazioni di parentela, gli stessi diritti patrimoniali. Bisognerà ora vedere come i decreti attuativi – in parte demandati ai Dipartimenti di mia competenza – regoleranno determinate situazioni legate all’adozione.
C’è poi l’esigenza di sviluppare forme di sostegno, anche economico, per le famiglie che hanno adottato o adottano minori con bisogni speciali. Questi minori sono quelli che con più fatica riescono a trovare una famiglia che li accolga, e sarà bene operare in termini di incentivi.
Bisogna infine lavorare alla diffusione di una più consapevole cultura adozionale. Come voi fate notare «la legge 149/2001 ha previsto la possibilità di accesso dei figli adottivi adulti all’identità dei genitori biologici». Si è così «mortificato il ruolo dei genitori adottivi e si è affermato, nei fatti, l’indissolubilità del legame di sangue, consentendo la ripresa di rapporti fra adottati e procreatori, rapporti che avevano spesso avuto conseguenze negative».
Il passo da compiere è un passo eminentemente culturale. Per far crescere il dibattito nazionale, per ricordare a tutti che genitori si diventa e che una genitorialità e una filiazione vere sono una conquista del tempo, della fedeltà, degli affetti. La sfida è quella di far riconoscere a livello di discorso pubblico la preminenza dei rapporti affettivi ed educativi sullo sviluppo della personalità dei figli.
(1) Legge 476/1998, ratifica della Convenzione dell’Aja del 1993.
(2) Un acuto osservatore come Mario Calabresi notava qualche giorno fa che il limite vero dell’Italia è il lasciarsi andare al pessimismo, che non si può continuare a ripetere a noi stessi e ai giovani «che tutto è finito, che tutto è declino: […] il declino si può fermare se si agisce, non certo se si sta immobili a imprecare e a piangersi addosso». In realtà – ha scritto da parte sua Ilvo Diamanti – «i “cervelli in fuga” sono i nostri. Perché siamo […] incapaci di disegnare il futuro e perfino di immaginarlo».
(3) Da Marilena, in Figli si diventa.