torna all’indice del Bollettino 1 2013

Notiziario dalle Sezioni 

Sezione di Trieste

Da Trieste un contributo per un dialogo nella scuola

a cura di Dario Montagnana – presidente Sezione ANFAA di Trieste (un particolare ringraziamento agli appunti di Johanna)

A Trieste prosegue il progetto “Un coccodrillo e tre leprotti”, indirizzato in particolar modo alle famiglie adottive, ma che sta coinvolgendo, soprattutto per la metodologia ed i temi trattati, chiunque abbia a cuore il mondo dei minori e dell’accoglienza.

I cinque temi inclusi nel progetto che ha durata annuale (ovvero: Integrazione, Attesa, Scuola, Arrivo e Salute) sono temi che hanno una ricaduta più ampia rispetto al mondo delle famiglie adottive e affidatarie. Gli eventi pubblici, infatti, vedono la partecipazione della cittadinanza costituita anche dai non addetti ai lavori, che sono solitamente insegnanti, dirigenti scolastici, operatori, educatori, amministratori pubblici. L’apertura verso altri soggetti aggreganti e i rapporti che l’Anfaa di Trieste ha ormai da parecchio tempo, fa sì che, in maniera più o meno marcata, la tematica di fondo (accoglienza, opportunità, servizio e coinvolgimento) possa interessare in quanto linguaggio comune a molte realtà, siano esse gruppi organizzati o privati cittadini.

Il terzo incontro, sul tema della scuola, svoltosi il 31 gennaio, ha avuto come titolo: “I bambini ci insegnano – Un confronto sui ruoli nella scuola” ed  ha visto la presenza di Costanza Saccoccio, quale relatrice, e dell’Assessore Comunale all’Educazione Antonella Grim. Altri interventi mirati sono stati apportati dall’insegnante Maria Gulisano.

Il Contesto

Un bambino può insegnare sempre tre cose ad un adulto: ad essere contento senza motivo, ad essere sempre occupato con qualche cosa e a pretendere con ogni sua forza quello che desidera” (P. Coelho).

Da questa breve ma incisiva introduzione, abbiamo descritto il lavoro che il Gruppo Scuola della Sezione di Trieste sta portando avanti da parecchi mesi e con ampia e dialettica adesione. E’ il tema sicuramente più seguito. Lo spirito del progetto, il quale prevede gruppi di lavoro che dopo un dibattito interno dialogano poi in assemblea con le famiglie dell’Associazione e propongono successivamente lo stato dei lavori alla città,  è il confronto con la realtà quotidiana, per la quale non ci sono ricette precostituite, ma dove è possibile un aiuto reciproco e un rimarcare, decisamente, il ruolo educativo delle famiglie all’interno degli ambiti dove il bambino vive, specialmente nella comunità-scuola.

La scuola è sicuramente la prima e vera esperienza che il bambino e la sua famiglia si trova ad affrontare fuori dall’ambito domestico, dal giorno in cui vi è entrato. I genitori non possono controllare o proteggere il bambino nel nuovo ambiente e  il piccolo deve relazionarsi con persone “estranee”, che possono incidere anche in maniera difficile nei rapporti che così si vengono a creare.

Ci sono dei motivi di apprensione, quali: il rapporto familiare ancora in fase di costruzione, la conoscenza o meno di esperienze e traumi pregressi, i comportamenti particolari da parte del bambino in fase di adattamento, la difficoltà con la lingua (trattandosi per lo più di adozioni internazionali), eventuali diversità culturali ed etniche che possono creare barriere e discriminazioni.

Queste sono le esperienze raccontate dalle famiglie coinvolte nel progetto e riassunte ad inizio convegno, dove è emerso che spesso gli insegnanti non percepiscono queste “circostanze particolari” e, in ogni caso, tendono a mantenere un comportamento omogeneo e programmatico con tutti i bambini.

E’ pur vero che ogni caso costituisce un panorama a sé con reazioni e comportamenti altamente soggettivi,  tali da non rendere possibile un protocollo univoco, tuttavia i genitori desiderano da parte degli operatori scolastici una maggiore preparazione sul tema. A livello ministeriale è già attiva una commissione di studio, mentre in alcune realtà provinciali sembra siano già in atto delle sperimentazioni interessanti.

A Trieste però questi echi non sono ancora giunti e si nota invece una certa difficoltà a comunicare con la struttura scolastica, in un contesto ampio e generalizzato, sia a livello di dirigenza che di operatori. Tale difficoltà è conosciuta anche dai servizi sociali. Per questi motivi il gruppo di lavoro si è concentrato principalmente sul progetto di un approccio mirato nelle modalità e nei conte­nuti.

Lavori preliminari

Dopo una fase di scambio e di sfogo tra i genitori, si è sentita la necessità di un allargamento delle esperienze e si è indetto un “incontro allargato”  (settembre 2012) al quale hanno partecipato molte famiglie e in cui è stato proposto un questionario anonimo di indagine (redatto dalla dott.ssa Cecilia Randich e dal dott. Eliseo De Santis).

Sulla base dei risultati del questionario si sono sviluppate le successive discussioni.

Sono emerse tre linee principali di interesse:

la sensibilizzazione e la comunicazione con gli insegnanti

Spesso i programmi e le procedure si scontrano con l’individualità dei bambini adottati (es: non voler riconoscersi nel paese di origine / non voler abbandonare la lingua madre) oppure entrano in conflitto con il loro immaginario o con i ricordi (es: luoghi comuni non veri / richieste di documentazione della prima infanzia non reperibile o dolorosa).

– l’informazione e il supporto alle famiglie

I bambini spesso arrivano con poco preavviso e i genitori hanno difficoltà a conoscere le procedure di iscrizione e di inserimento (es: liste chiuse al momento dell’arrivo / scarsa disponibilità di posti nelle scuole di quartiere / problema delle liste “bambini stranieri” per gli adottati).

– il supporto ai ragazzi

Esigenza di una maggiore elasticità nel confronto dei bambini in particolare nelle fase di adattamento (es: permettere tempi di inserimento più lunghi  / riconoscere e supportare fasi di regresso o di attaccamento alle origini (supporto, mediatori…).

Da qui , anche, molte proposte diversificate in questi 3 ambiti principali, che abbiamo sottoposto alla nostra amica Emilia De Rienzo, per un aiuto soprattutto metodologico nel lavoro da intraprendere. Con Emilia  abbiamo avuto un incontro a metà gennaio, e ci ha dato utili indicazioni sulle modalità di ritrovarci, di fare rete tra noi, di confrontarci con assiduità. E di partire dai problemi di ogni giorno, in base allo stato delle cose.

Le proposte concrete che il Gruppo Scuola dell’Anfaa di Trieste sta attuando e promovendo potranno essere argomento di un prossimo articolo. Quanto sopra accennato, però, era essenziale per comprendere come il tema-scuola sta appassionando la nostra realtà locale e sia effettivamente un sentire in evoluzione, di cui il momento pubblico del 31 gennaio è stato solo una rappresentazione istantanea, un riferire alla cittadinanza lo stato dei lavori.

L’INCONTRO DEL 31 GENNAIO

Costanza Saccoccio

Per Costanza Saccoccio, i bambini ci insegnano a risolvere i problemi.

Partiamo dal quadro di riferimento che è la scuola per tutti. Un bene che va difeso e supportato. La scuola deve essere inclusiva, che accoglie tutti (altrimenti diventa la scuola del più forte). I bambini vengono a scuola con esperienze diverse, di cui noi, genitori, insegnanti, operatori, dobbiamo farci carico.

Lo spazio fisico in cui ci si muove è l’aula, dove si crea relazione, tra insegnante e alunno e tra alunni. Il clima deve essere favorevole, sereno, dove ogni bambino può e deve raccontarsi. In questo modo si ha il riscatto dai problemi, dalla fragilità.

Per questo la scuola, l’aula stessa, è un valore. Così si crea una rete: insegnanti, genitori, amministratori. In questo contesto è chiaro che il programma scolastico deve adattarsi alla realtà, alle persone che vivono nella scuola, e la scuola stessa deve essere continuamente alla ricerca, in cammino, sempre con la possibilità di esplorare.

In questo contesto bisogna ritrovare degli insegnanti motivati, lavorare magari nelle piccole realtà, che alla fine fanno la differenza. Se si è disposti ad affrontare la realtà emerge quella che si definisce identità, grazie proprio al confronto con gli altri.

Bisogna decisamente accompagnare i ragazzi, far loro capire, già dai primi anni, il valore della cultura.

Ed il valore del cambiamento: ognuno deve fare la propria parte. Ecco perché l’aula è definita uno spazio di speranza per tutti. La parola alunno deriva proprio da crescere (il bambino è “alimentato”).

A scuola si deve star bene insieme. Pertanto, non solo nello stare bene per creare un buon clima di classe, ma anche attenzione alla sofferenza dell’altro. Ogni persona ha il dovere di contribuire e migliorare la scuola, come ad esempio le prese di posizioni dei genitori di fronte al problema del razzismo.

Il bambino deve capire che il posto dove è entrato è un posto speciale. Ognuno è portatore di diversità, ognuno è diverso, ed il primo compito deve essere l’accoglienza.

E ognuno di noi deve chiedersi: “Chi sono io?”. Il significato dell’essere, il significato del tempo… ma è possibile fermarsi, guardarsi negli occhi, narrare, parlare della propria quotidianità.

Assessore Antonella Grim

Per l’assessore all’Educazione del Comune di Trieste, Antonella Grim, il dialogo con le associazioni come l’Anfaa è fondamentale. Il ruolo del Comune, nella rete costituita da Ministero – scuola autonoma – famiglie – associazione, fa sì che si possa rafforzare un ruolo di governance territoriale, dove l’Ente pubblico è protagonista e parte attiva.

Di fronte alle possibilità di tenere in evidenza problemi reali come quello di inserimento in qualunque momento dell’anno scolastico di bambini adottati, si può pensare ad un Protocollo di Intesa con il Provveditorato agli Studi. Dai bisogni si traggono delle regole, delle buone pratiche. Perché la situazione dei bambini in adozione è poco conosciuta, o poco raccontata.

Da qui si può partire per creare le condizioni per raccontare, dare gli strumenti per gli educatori, corsi di formazione. In poche parole: creare dei progetti educativi sul concetto di accoglienza.

In città vi sono circa il 16% di bambini in età scolastica che non sono cittadini italiani. La realtà dei bambini adottati è da stimolo per intraprendere un metodo di lavoro per parlare di accoglienza.

Mamme adottive e Maria Gulisano

Oltre a parlare dei risultati del questionario, peraltro molto interessanti, e della diversa risposta alle esigenze delle famiglie adottive, dato dalla scuola pubblica e da quella privata, per le mamme intervenute, bisogna muoversi in 2 direzioni parallele: un intervento con la scuola-istituzione, promovendo incontri e corsi per insegnanti, raccontando della nostra esperienza; un supporto robusto alle famiglie adottive o in procinto di esserlo, con molta informazione, pensando ad un mezzo molto utile come ad esempio un vademecum che riassuma anche i problemi quotidiani e come affrontarli.

Serve inoltre una uniformità di informazione, far sì che le scuole primarie, soprattutto, siano attente e pronte a queste nuove realtà adottive in maniera omogenea.

Altro aspetto non secondario, riportato da Maria Gulisano, è quello culturale, dell’integrazione dei bambini sotto varie forme. Qui occorre un minimo di diversità didattica, a secondo del/dei bambini da inserire.

Ci sono dei ragazzi in difficoltà, e qui occorre promuovere una richiesta nella didattica della scuola. La programmazione viene fatta per lo più all’inizio dell’anno, senza prevedere eventuali necessità come quelle che abbiamo rappresen­tato.

Ecco perché torna il concetto, tema del Convegno di Reggio Emilia dell’anno scorso, per cui la scuola deve creare democrazia e l’accoglienza vuol dire un ambiente in cui si sta bene.

Conclusioni

Il gran lavoro di preparazione prosegue, dopo il momento pubblico, con il Gruppo Scuola della nostra Sezione. Stiamo, come detto, sperimentando un metodo di aiuto reciproco. Vorremmo continuare con così tante idee ed entusiasmo. Dal dialogo con l’Assessore al Comune, Antonella Grim, non potevamo aspettarci di meglio. Oltre che un linguaggio comune abbiamo in programma un incontro con la Direttrice Regionale del MIUR.

Attendiamo dagli amici di altre Sezioni eventuali suggerimenti e solleciti. Il lavoro è comune, ed il grande tema della scuola, grazie anche ad Emilia, Maria e Costanza, deve ancora entrare nel vivo delle nostre realtà.

 

 

Sezione di Novara 

“A lezione di dignità“

 a  cura di Giuse Tiraboschi – insegnante, laureata in pedagogia                                       

Siamo in una classe quarta di scuola primaria, 19 alunni che da anni, ormai, sono stati abituati ad interrogarsi sulle cose del mondo e a ricevere risposte sincere, naturalmente nei limiti della loro capacità di comprensione, emotiva e cognitiva, dati dall’età e dalla loro storia personale.

Le domande più forti arrivano sempre inaspettatamente, e questa volta siamo pronti per la lezione di matematica, quando un bambino chiede a bruciapelo com’è possibile che un neonato sia stato messo nel water di un Mac Donald.

Prima considerazione: i bambini di oggi non vivono più, o comunque molto meno, nel mondo delle favole a lieto fine: possiamo discutere se  sia un bene o un difetto, ma forse questa discussione ci porterebbe troppo lontano. I bambini di oggi vedono il telegiornale, ascoltano gli adulti anche quando questi non stanno parlando con loro, si fanno delle idee, e vogliono capire, non accontentandosi  di risposte frettolose; si tratta solo di seguirli nei loro bisogni, accettando un coinvolgimento che va al di là, qualcuno potrebbe sostenere (!), dei compiti della scuola.

La scuola, io credo, deve invece affiancare o purtroppo sostituire la famiglia in quell’educazione alla cittadinanza, che costituisce addirittura il suo primo compito. Per questo, non mi scandalizza la domanda, non mi crea problema mettere da parte la lezione di matematica, e avviare la conversazione, non sapendo bene dove ci porterà.

Stiamo parlando di un argomento molto delicato, difficile, per cui la condizione essenziale è che si mostri il massimo rispetto per le cose che si andranno a dire: questo basta per ottenere l’attenzione di tutti.

Spiego qual è l’avvenimento a cui ci si riferisce, un fatto di cronaca molto recente, e la prima cosa che mi viene da dire è che dobbiamo stare lontani da qualunque giudizio, perché non siamo dentro la situazione e soprattutto non tocca a nessuno di noi esprimere colpe o assoluzioni.

E tra domande, osservazioni, commenti, richieste di spiegazioni,si parla di donne che  rinunciano al figlio, del loro come un gesto di disperazione, della loro solitudine. Racconto di una legge che, in Italia, protegge qualunque donna al momento del parto, anche chi non vuole riconoscere il bambino, ma forse questa legge non è ancora abbastanza conosciuta, o forse non tutte le donne sono aiutate abbastanza.

In questo caso, il bambino sarebbe stato lasciato in ospedale e sarebbe stato curato subito.  Mi chiedono: come si fa a partorire in un bagno di un ristorante?

Come si sentirà adesso quella donna? Si sarà pentita o no? Starà male anche lei?

Perché il bambino non lo voleva? Non se n’è accorto nessuno?

Potrà ancora chiedere di tenere il bambino?

Parliamo di psicologi che possono ancora aiutarla, di giudici che dovranno decidere il loro futuro. Racconto delle ruote e degli orfanotrofi di una volta  (e qui l’attenzione è al massimo) delle culle  di qualche ospedale di oggi, dove i bambini possono essere lasciati, della possibilità per i bambini lasciati di essere subito adottati da un’altra famiglia. Parliamo di che cosa significhi adottare un bambino, di come il gesto di una donna che rinuncia a suo figlio può essere considerato un atto d’amore.

Le bambine mi riportano  al vissuto di questa donna giovane, che forse non sapeva con chi parlare del proprio problema, e ha fatto tutto di nascosto.

Il messaggio spero arrivi forte e chiaro: avete sempre qualcuno con cui parlare, i genitori o un altro adulto di fiducia, chiedete aiuto quando ne avete bisogno, e le maestre e i professori poi, sono tra questi adulti. Mi sembrava di aver già lasciato sul campo tanto di quel materiale di riflessione….., ma i bambini non si accontentano.

Uno di loro sostiene di aver sentito dire che la donna di cui stiamo parlando era una prostituta. Che cosa vuol dire? Non posso fermarmi ora, e cerco con le parole più semplici possibili di dare una risposta anche a questo. Qualcuno che ha capito bene (quante informazioni hanno i bambini, raccolte qua e là!) si scandalizza: ancora invito a non giudicare, e a cercare di capire di più a mano a mano che si cresce.

E da lì a parlare di violenza sulle donne il passo è breve: qualcuno è preparato a raccontare della vita delle donne in culture diverse: noi abbiamo in classe parecchi  bambini figli di coppie miste, anche di religione musulmana.

Le bambine ora sono molto curiose, ma il messaggio che voglio ribadire è quello del diritto alla dignità di tutti, uomini e donne, e del rispetto per se stessi e per gli altri.

E il cerchio un po’ si chiude, sulla considerazione di Anna, che recupera stimoli di conversazioni precedenti: “tu ,maestra, ci hai detto una volta che nessuno ci deve toccare se noi non lo vogliamo… e dobbiamo dire di no e parlarne subito ad un adulto …”.

Ho riflettuto, come sempre dopo le conversazioni: non so che cosa racconteranno i bambini a casa, e forse mi dovrò aspettare parecchie critiche per essere andata troppo in là. Ma questa volta la sintonia tra noi maestre del team si è rivelata eccezionale: ne parleremo ai genitori durante una prossima assemblea di classe, spiegando loro che non ci tireremo indietro, perché pensiamo che qualunque argomento può essere affrontato, meglio se in collaborazione con la famiglia.