Rubrica Scuola
Una Scuola che accoglie
Negli ultimi mesi gli insegnanti si sono dovuti confrontare con le direttive ministeriali relative ai BES (bisogni educativi speciali) ed in questo sono coinvolte anche le famiglie.
Nell’ottica dell’informazione e del coinvolgimento sono stati effettuati e si stanno predisponendo in molte zone convegni e seminari. Il 7 dicembre scorso è stato predisposto dalla Provincia di Torino (Centro Servizi Didattici) il Convegno “BES e Dintorni – Riprendiamoci la pedagogia” di cui l’ANFAA è stata promotrice insieme ad Associazioni principalmente legate alla scuola.
Siamo state una delle poche associazioni di famiglie ad essere promotrici del Convegno, ed abbiamo ribadito ai presenti le nostre motivazioni, i nostri perché:
- perché riteniamo importanti i legami tra famiglia e scuola;
- perché siamo consapevoli che la scuola ha un ruolo importante per la formazione e il rinnovamento della cultura e per l’elaborazione di nuovi modelli culturali, sociali, etici, ecc.;
- perché la scuola continua ad essere per eccellenza l’ambiente in cui ci si misura con gli altri, sia sul piano relazionale che su quello degli apprendimenti;
- perché la scuola costituisce per ogni bambino un’importante occasione di verifica del proprio valore e di costruzione, attraverso il confronto, della propria identità;
- perché la scuola può far vivere qualsiasi situazione di diversità come un valore ed un arricchimento per tutti.
Riprendiamoci la pedagogia non è un sottotitolo ma una citazione dal “testamento” di Mario Tortello (*): il suo impegno il suo messaggio sono stati ricordati all’apertura del Convegno. Anche a noi Mario ha passato lo stesso impegnativo messaggio.
Grazia Honegger Fresco è stata intervistata da Ermanno Tarracchini (Comitato scientifico APEI) in video-conferenza: sulla base delle esperienze realizzate con i bambini e con i loro genitori, dedica da vari anni molte delle sue energie alla formazione degli educatori in Italia e all’estero, adottando le metodologie della educazione attiva e della pedagogia scientifica di Maria Montessori il cui insegnamento va certamente ritenuto centrale anche per il processo di inclusione sociale dei ragazzi con disabilità. Qualche traccia della sua intervista:
«Aiutami a fare da solo» è il richiamo di Maria Montessori che ritengo centrale anche nel processo, cosiddetto dell’inclusione sociale, non mi sembra una forzatura associare la frase montessoriana al desiderio della persona con disabilità per una vita autonoma, non passivamente dipendente dagli altri. In molte scuole c’è ancora questa idea punitiva, del giudizio: non solo per cercare gli errori del bambino, ma addirittura arrivare prima dei suoi errori. Il bambino, invece, ha bisogno di sbagliare per crescere, nell’ottica di fare da solo. Ricordo un bambino distrofico che seduto su un seggiolino con le ruote, quando voleva un materiale andava a prenderselo spingendosi con i piedi. Se il materiale era grande, chiedeva aiuto ad uno dei suoi compagni. “Aiutami fino a che mi serve”. Nella scuola montessoriana, se un bambino vuole fare da sé, la maestra non interviene: lascia fare, anche gli sbagli. Gli sbagli aiutano a crescere». Maria Montessori lavorò molto per la socializzazione, mirando all’indipendenza e allo sviluppo delle capacità di essere attivi in modo costruttivo; tendeva a fare in modo che i bambini, insieme alle loro diversità (quanto più sono diversi tanto meglio stanno), riuscissero a costruire una collettività, una comunità, che Maria Montessori chiamava “società per coesione“.Il cosiddetto “bullismo” matura dove c’è un clima e un atteggiamento giudicante e di competizione, bisogna iniziare subito su tutto quello che permette al bambino di fare da sé. Il bambino sordo, il bambino cieco possono fare tantissimo da sé. Bisogna guardare a ciò che hanno e non a quello che non hanno. Perché se la scuola è basata sul giudizio, sul “tu non sei capace, quindi non vali”, è come dire “ti metto da parte, ti affido a qualcun altro, io non me ne occupo”.La soluzione non sta nel separare per meglio addestrare, ma nel creare un clima sociale non competitivo, evitando di programmare a priori. Dobbiamo mettere nelle mani del bambino la chiave del suo sviluppo, riconoscendogli capacità autocostruttive».
La giornata di confronto e formazione è proseguita con importanti interventi che qui di seguito sintetizziamo:
Alain Goussot (Università degli Studi di Bologna) “Bisogni Educativi Speciali?”
Con la direttiva del 27 dicembre 2013 del Miur intitolata “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” si allarga il concetto di bisogni educativi speciali oltre agli alunni con deficit e disabilità, a quelli con Dsa a quelli che presentano uno “svantaggio socioeconomico linguistico e culturale”. Si tratta di focalizzare bene di cosa parliamo e di fare il nesso tra bisogni educativi speciali, pedagogia speciale e inclusione scolastica e sociale. Si tratta anche di comprendere quale deve essere la relazione nella “definizione” di bisogni educativi speciali tra lo sguardo clinico-diagnostico e quello pedagogico. In Italia l’approccio è stato quello di collegare la definizione di speciale alla presenza della disabilità e del deficit (Canevaro). Con i lavori di Ianes si va verso una attenzione all’allargare lo spettro dei bisogni educativi speciali alle situazioni di difficoltà e disturbi non solo degli apprendimenti ma anche del comportamento. e il dibattito è piuttosto complesso e penso che sia necessario tentare di fare chiarezza sia sul piano epistemologico che pratico-pedagogico per evitare che il concetto di Bisogni educativi speciali finisca per diventare una categoria generica applicabile a tutte le situazioni di disagio e a tutte le difficoltà oppure restringersi troppo diventando un indicatore clinico di tipo sanitario. Ovviamente in tutti questi ragionamenti non si può ignorare le linee di politica scolastica (vedi le modalità della certificazione, la questione della gestione dei casi di Dsa, le problematiche dell’assegnazione dell’insegnante specializzato ecc…) che determinano delle rappresentazioni e delle costruzioni della categoria di bisogno educativo speciale. Come affermava Freinet, è proprio l’esperienza che fa crescere e permette d’imparare, cosa intendiamo quando parliamo di bisogni, poi di bisogni speciali in ambito educativo, dei bisogni diversi da quelli degli altri, non v’è rapporto tra questi bisogni e quelli che hanno tutti gli alunni. In che misura la composizione multietnica e pluriculturale della popolazione scolastica non sta introducendo non tanto bisogni speciali ma bisogni nuovi? Sono solo alcuni interrogativi che ci dobbiamo porre come pedagogisti, insegnanti ed educatori per tentare di fornire delle risposte adeguate sia sul piano scientifico che su quello pratico-didattico e pedagogico. Il concetto di bisogno è complesso e può, anzi deve, essere letto da più prospettive: psicologica, sociologica, antropologica e politica. Ma che ne è della lettura pedagogica?
Il pensiero completo di Alain Goussot è reperibile al link: http://www.s-sipes.it/pdf/GOUSSOT_ BES_2013.pdf
Riziero Zucchi (Università degli studi di Torino) ha approfondito “Il patto educativo scuola famiglia nel rispetto delle reciproche competenze”
«… Quando i miei figli erano molto piccoli facevo un gioco con loro … davo loro in mano un bastoncino, uno ciascuno, poi chiedevo di spezzarlo. Non era certo impresa difficile, poi chiedevo di legarli in un mazzetto e di cercare di romperlo, ma non ci riuscivano, allora dicevo: “Vedi quel mazzetto? Quella è la famiglia …», tratto dai dialoghi del film “Una storia vera” di D. Lynch (USA 1999)
Sottolineare l’importanza del patto educativo scuola famiglia significa rivendicare la comune vocazione educativa che si realizza nei rispettivi ambiti di azione. Ripropone la voce dei pedagogisti che da sempre indicano la necessità di partire dalle competenze degli allievi, dalla qualità e non dalle classificazioni quantitative e dai test. Partire dalla Pedagogia e da Maria Montessori: l’intervento di Grazia Honegger Fresco propone il senso del convegno, si collega a Maria Montessori in cui la dimensione pedagogica si collega a quella medica, definendo i confini fra le due scienze, sottolineando l’importanza per la scuola e l’educazione di partire dalla positività.
L’occhio psichiatrico individua problemi o patologie, l’occhio pedagogico in ogni situazione riesce a individuare la positività sulla quale costruire.
Riprendiamoci la pedagogia. Il sottotitolo del convegno appartiene al testamento spirituale di Mario Tortello che propone anche: “Pensami adulto, Partecipare per apprendere, Pedagogia dei genitori” (Handicap & Scuola n. 99 bis-2011). E’ proposta educativa funzionale ad affrontare i problemi posti dalle continue emergenze alle quali la scuola italiana deve far fronte. Pedagogia come scienza che mette le persone in grado di esprimere le proprie potenzialità. In un momento in cui infuria la tempesta occorre gettare le ancore, rafforzare gli ormeggi che ci legano alla realtà, fidando sulla nostra esperienza di insegnanti e sul collegamento stretto con le famiglie.
La famiglia partecipa all’educazione, ha una conoscenza specifica del figlio che esprime attraverso la narrazione ed è partner indispensabile della scuola:riconoscere gli ambiti specifici di conoscenza significa porre le basi del patto educativo.
Pensami adulto. In ambito educativo significa considerare la persona e l’individualità, la completezza di tutti, la positività e contestualmente considerare ciascuno in crescita, in evoluzione, consapevoli che i problemi sono funzionali al loro superamento. Le difficoltà sono utili alla vita e all’apprendimento; senza difficoltà non vi è crescita. L’ottimismo nelle persone in situazione di handicap è iscritto nella legge 104 92 art.12 comma 4: «L’esercizio del diritto all’educazione e all’istruzione non può esser impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivate dalle disabilità connesse all’handicap». Questa impostazione volta al positivo è la caratteristica dell’educazione familiare in cui è fondamentale la pedagogia della speranza, della fiducia e della crescita. Famiglie e scuola nei loro rispettivi ambiti aiutano il piccolo d’uomo a crescere credendo in lui e nella sua evoluzione.
Partecipare per apprendere. La pedagogia nelle voci dei suoi principali esponenti Milani, Freinet, Vygotskij sottolinea la necessità di una visione sistemica in cui l’individuo esiste e si forma in relazione con gli altri. Non può essere visto in vitro estratto dall’ambito familiare, dal gruppo dei pari, dalla classe. Alla scuola di Don Milani la collettività è la regola, i più piccoli imparano dai grandi, uno dei principali risultati di questa comunità educante è la scrittura collettiva che crea quel capolavoro di contenuto e di stile che è “Lettera a una professoressa”. La cooperazione non è solo funzionale al puro apprendimento ma allo sviluppo delle funzioni mentali superiori: il catalizzatore è l’empatia. Famiglia come sistema e come collettività, la famiglia è propedeutica alla scuola e deve armonizzarsi con questa.
Pedagogia dei genitori. La Metodologia Pedagogia dei genitori è nata per valorizzare e riconoscere le competenze, le conoscenze educative dei genitori funzionali alla realizzazione del Patto educativo con la scuola. Il sapere dei genitori si esprime attraverso la narrazione degli itinerari compiuti insieme ai figli all’interno della quale si evidenziano i valori della speranza, della fiducia, della crescita, della responsabilità, dell’identità.
Con l’occasione della nostra presenza al Convegno abbiamo presentato il libretto-guida “La scuola dell’accoglienza”.
La scuola continua ad essere per eccellenza l’ambiente in cui ci si misura con gli altri, sia sul piano relazionale che su quello degli apprendimenti; quindi la scuola costituisce per ogni bambino un’importante occasione di verifica del proprio valore e di costruzione, attraverso il confronto, della propria identità.
Negli ultimi anni la scuola italiana ha registrato un aumento notevole della frequenza di alunni con situazioni personali e familiari particolari ed un sensibile incremento delle problematiche sociali ed educative legate agli aspetti di una società multiculturale.
Il primo compito della scuola rimane quello di creare una situazione di accoglienza; per fare questo, la scuola:
- deve promuovere il cambiamento culturale che considera i minori soggetti di diritti e non oggetto dei bisogni degli adulti;
- deve documentarsi per conoscere a fondo le problematiche personali e sociali dei minori in situazione di disagio e di abbandono o con situazioni familiari differenziate: famiglie monoparentali, ricostituite, con bambini adottati, affidati, multietnica;
- deve saper evidenziare e vivere qualsiasi situazione di diversità come un valore da difendere e da affermare.
Il libretto è stato realizzato con il contributo di esperti (insegnanti, pedagogisti, psicologi, psicoterapeuti, scrittrici ed altri) che negli anni hanno partecipato a convegni e corsi di formazione per insegnanti ANFAA.
Richiedendolo a novara@anfaa.it sarà inviato gratuitamente in pdf
Interessante il pomeriggio con i gruppi di lavoro di cui daremo conto nel prossimo bollettino.
Emilia Pistoia e Giuse Tiraboschi
(*) Mario Tortello è scomparso colpito da un infarto improvviso all’età di cinquantuno anni mentre si recava alla redazione del quotidiano La Stampa dove da anni si occupava di scuola. ( per chi non lo ha conosciuto: era un giornalista che parlava di bambini che avrebbero meritato una vita più felice, scriveva di handicap, di adozioni, di famiglie tormentate, ha collaborato con l’Anfaa per la tutela dei diritti dei bambini dati in affido o adottati.
Era docente a contratto di Pedagogia generale presso l’Università di Torino. Svolgeva attività di ricerca nel settore della pedagogia giuridica ed era direttore della rivista “Handicap & Scuola”. Faceva parte dell’Osservatorio permanente per l’integrazione scolastica M.P.I. Autore di numerose pubblicazioni sui temi dell’educazione e dell’integrazione dei disabili. Il suo testamento spirituale: Partecipare per apprendere – Riprendiamoci la pedagogia – Coi gravi si può – Pedagogia dei genitori – Pensami adulto.
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Scuola, tra consumo e desiderio di sapere
Siamo sommersi nel “discorso capitalistico” e non ci accorgiamo di quanto influenzi i nostri rapporti, anche all’interno della scuola. Non far tacere i lamenti degli insegnanti, genitori e studenti, bensì dare ascolto ai loro malesseri può essere la via verso una scuola più sopportabile. Fermarsi a pensare per ridare il senso alla missione della scuola: mettere in moto il desiderio di sapere.
L’idea di scrivere questo articolo nasce dagli stimoli offerti da un gruppo di lavoro sulla scuola all’interno dell’Anfaa. Non è il mio obiettivo approfondire le particolarità dell’inserimento scolastico ma di dare degli spunti di riflessione a livello più generale riguardo alla scuola e al desiderio di sapere.
Non è per caso che durante gli incontri con Emilia de Rienzo lei abbia insistito più volte sulla parola “cittadino”. Se la scuola non intende più formare cittadini ma consumatori è perché in questo modo risponde ad una logica del discorso comune, soprattutto ad una logica che arriva dalle direttive europee sull’educazione (1), che cercano di allineare l’educazione in tutti gli stati membri al modello di una formazione specialistica e settoriale che risponda alle esigenze del mercato del lavoro.
Le parole “conoscenze, competenze e abilità” hanno sostituito quelle di “sapere, desiderio e trasmissione”. Le prime rispondono ad una logica che Jacques Lacan ha chiamato “discorso capitalistico” (2), che, in sintesi, è una modalità di comunicazione che si caratterizza per promettere a tutti il soddisfacimento dei desideri, trasformando gli oggetti dei desideri in oggetti di consumo. Promessa che prende la forma di “diritto”. Ad ogni soggetto corrispondono degli oggetti da consumare. In questo modo qualsiasi cosa si può trasformare in oggetto di consumo, purché sia desiderata: dagli oggetti più banali a quelli sofisticati, persino la cultura e la religione possono diventare “consumabili”. La relazione con l’oggetto sostituisce anche la relazione tra le persone, creando isolamento e povertà nei rapporti affettivi. Le dinamiche che descrivo si possono rintracciare in tutti gli ambiti dove c’è una coppia di relazioni: maestro-allievo, marito-moglie, medico-paziente, ecc.
Certo che, un panorama simile può creare un certo smarrimento nei genitori, tormento negli insegnanti e una profonda disillusione e indifferenza da parte degli studenti. Considero che questi affetti di disagio non debbano essere considerati come un disturbo da eliminare (con il rischio, come purtroppo avviene nelle scuole, di mandar fuori dalla scuola la persona disturbata e disturbante) ma come “sintomi” da mettere in luce, da accoglierlo come ciò che non funziona. Umanizzare la scuola significa non zittire questo malessere ma farlo parlare, far passare la sofferenza da grido a parola. Per realizzarlo è necessario attuare qualcosa di diverso dalla logica aziendale della produttività di massa. Bisogna fermarsi a pensare.
Se la scuola attualmente è uno dei luoghi di maggiore importanza sociale è perché ne confluiscono le situazioni più disparate:
- Gli studenti dimostrano difficoltà di apprendimento e di attenzione, aggressività, prepotenza, opposizione alle regole, isolamento, difficoltà a relazionarsi, problemi con il cibo, ecc.
- Gli insegnanti spesso si sentono sotto pressione per portare a termine il programma e frustrati per non poterlo fare. Fanno difficoltà a mantenere viva la motivazione per un lavoro poco retribuito e sempre più burocratico.
- I genitori non trovano ascolto ai loro problemi economici e sociali. Pur dovendo compiere con l’obbligo scolastico e volendo offrire una buona educazione per il loro figli, spesso rivolgono la loro rabbia e disperazione verso l’unico interlocutore rimasto: l’istituzione scolastica.
Occorre tornare alla missione più elementare della scuola, che riguarda la pedagogia (un’altra parola che sembra essere sparita dal sistema scolastico). Dato che i ragazzi di oggi sono capaci di occuparsi di moltissime attività, perché non credere che gli studenti possano essere capaci di provare piacere nell’imparare? La questione, a mio avviso è come fare perché il bambino o adolescente sperimenti un vero piacere nel lavoro intellettuale e scolastico. È possibile considerare il lavoro scolastico come occasione di arricchimento e di ricerca personale e non come una successione di prove tecniche mirate ad una collezione di voti per ottenere un diploma?
Sembra che ci sia una sorta di svalutazione generale dello sforzo di pensare. Pensare è occasione di sofferenza? Nessuno può sostituirsi allo studente nel suo lavoro scolastico. I bambini e ragazzi sono incentivati a dare il meglio di sé stessi, ma non tutti lo fanno. Di fronte agli studenti che non lavorano, la scuola può reagire in modi diversi: con l’esclusione, con sanzioni, con l’aumento della pressione, oppure può cercare di capire perché quel determinato allievo non lavora e poi creare le condizioni perché finalmente lo faccia. Quest’ultima possibilità va in netto contrasto con l’approccio della scuola vista come una azienda di formazione o fabbrica di lifeskills. Prendersi cura di ogni studente, uno per uno, non è la scelta di una strategia che privilegia la produzione di risultati.
Dal punto di vista del bambino, l’entrata nella scuola produce un cambio di direzione radicale rispetto al suo modo di imparare, cosa che non avviene mai senza opposizione e disappunti.
Quando deve accedere al sapere proprio della società in cui vive per il bambino si impone una nuova tappa nel rapporto al sapere. Imparare non è più un fenomeno spontaneo, libero, ma orientato verso contenuti che bisogna memorizzare. Il rapporto al sapere cambia di natura: da essere un sapere privato, usato all’interno della famiglia o di una comunità piccola, passa ad essere un sapere comune, usato da tutti,. Il bambino entra nell’ordine simbolico condiviso pagando il prezzo di una perdita: deve perdere un po’ di intimità.
Le aspettative e le opinioni della famiglia influiscono sull’investimento della scuola rispetto al bambino. Se un giovane trova a casa una rappresentazione negativa del sapere (“leggere” è una perdita di tempo, per esempio), volere leggere equivarrà a tradire la sua famiglia. Lo studente sarà sempre “diviso” tra due fonte educative diverse: casa e scuola, cosa che pur essendo “normale” può dare luogo a dei conflitti a volte paralizzanti.
Tuttavia la scuola può essere luogo di incontro con un universo sconosciuto, il luogo di una novità possibile per quei bambini la cui famiglia non è in grado di accedere alla cultura ed al sapere.
Mi piace pensare la scuola come uno scenario nel quale si svolge una piéce teatrale, un luogo di incontri dove ognuno si presenta con un vestito, un ruolo che nasconde la parte più veritiera di noi. Un teatro nel quale la lezione del maestro può risvegliare in noi qualcosa di nuovo e di duraturo. Chi di noi, adulti, non custodisce un ricordo “di scuola”, un quaderno, una maestra, un amico, un amore o un episodio che abbia segnato il passaggio verso la vita fuori dalle mura…?
Cecilia G. Randich
psicologa e psicoterapeuta
(1) Si vedano le Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 (2006/962/CE).
(2) Si veda: Jacques Lacan, Il seminario. Libro XVII “Il rovescio della psicoanalisi. Biblioteca Einaudi. 2001. Questa modalità di discorso non si origina nel secolo scorso, come si potrebbe credere, sotto le rubriche politico-storiche di “comunismo vs.capitalismo”. Un analisi accurata si protrae a più di cinque secoli fa.
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Primo incontro gruppo scuola
In data 2 dicembre 2013 presso la sede della sezione Anfaa Lombarda (Milano, Corso Garibaldi 89) si è svolto un incontro a cui erano presenti: Donata Nova, Frida Tonizzo, Mariagrazia Benassi, Emilia Pistoia ed Alessia Ponchia
Tema dell’incontro era la ripresa dell’attività in ambito “scuola”.
Dopo un rapido confronto tra le presenti, è emersa forte la necessità di ricostituire il Gruppo Scuola Anfaa di cui le presenti sono disponibili a far parte.
Di questa decisione verrà data comunicazione al CDN e alle Sezioni a cui verrà richiesto se vi siano altri consiglieri o soci disposti ad aderire, anche solo attraverso contributi “a distanza” ovvero tramite lo scambio via mail.
Il Gruppo intende fissare alcuni obiettivi che ne orienteranno le attività.
Per il momento è emerso come compito prioritario la stesura del protocollo che l’Anfaa si è impegnata di proporre al Miur sul tema dell’inserimento scolastico dei bambini adottati ed affidati, sulla base di quanto già previsto dalla Circolare che l’Ufficio Scolastico Regionale per il Piemonte ha emanato nel 2011 dopo un lavoro di collaborazione e confronto con l’Anfaa di Torino.
Contestualmente verrà raccolto, condiviso nel Gruppo e razionalizzato tutto il materiale disponibile sulle attività che, nelle diverse realtà territoriali, sono state realizzate nel corso degli anni.
Successivamente si procederà alla stesura di un progetto che tutte le sezioni saranno invitate a realizzare nel proprio territorio (con gli aggiustamenti dovuti alla peculiarità delle diverse realtà).
L’obiettivo è di tessere un sottile filo rosso che colleghi i progetti e che diventi un “marchio Anfaa”, ossia una modalità di lavoro e di presentazione dell’Associazione univoco a livello nazionale.
La referente del gruppo scuola è Emilia Pistoia.